Intervista a una tarantata

Tarantate, di Luigi Caiuli

 

 

Intervista alla sig.ra Domenica di Minervino di Lecce analisi antropologica inerente La sua esperienza di tarantata

 

a cura di Romualdo Rossetti

 

Buongiorno signora! Potrebbe raccontarci di quando venne morsa dalla tarantola?

Se può avvicinarsi e alzare la voce, per cortesia, perché da questo orecchio non sento molto!

 

Certo! Dicevo …può parlarci di quando venne morsa dalla tarantola?

Si… certo!

 

Per prima cosa può dirci come si chiama, quanti anni ha e dove è nata?

Mi chiamo ….. Domenica e sono nata a Minervino di Lecce il 29.12.1929.

 

Bene! A che età è stata morsa dalla tarantola?

Da giovane, prima di sposarmi!

 

Si ricorda in che anno è accaduto?

L’anno preciso non me lo ricordo però è stato due, tre anni prima che mi sposassi…io mi sono sposata nel 1956, quindi sarà stato nel 1954, 1953…credo!

 

Può raccontarci cosa successe? Se si stanca può fermarsi quando vuole!

Si…certo! Ero andata insieme a tutta la mia famiglia presso un fondo che mio padre possedeva a Minervino e che si chiamava “I Madrigali”, che poi è stato diviso alla sua morte tra i miei fratelli, e stavamo tutti impegnati per la mietitura. Quel giorno era venuta anche mia madre, poverina, nonostante soffrisse di dolori reumatici. Verso mezzogiorno mentre ci stavamo preparando a mangiare qualcosa ebbi l’esigenza di andare in bagno e così mi allontanai e mi inginocchiai dietro un piccolo muro di pietre a secco per non essere vista dagli altri. Quando mi alzai mi accorsi che da sotto un ginocchio era scappata via una taranta, di quelle che hanno il colore rosso e nero. Quando la vidi mi spaventai e dissi dentro di me; “Mamma mia na taranta era, Santu Paulu meu! Speriamo che non mi abbia morso!”. Dolori da pizzicatura non ne avevo sentiti…però, rimasi col dubbio. Mi alzai e raggiunsi gli altri ma poco dopo venni colta da brividi di freddo, un freddo che aumentavano sempre di più… ma un freddo… un freddo… un freddo che ti entrava nelle ossa…

 

Si ricorda in che periodo accadde?

Si che mi ricordo il periodo… il giorno preciso no… ma il periodo me lo ricordo! Era nella prima decina di giugno, intorno all’8, 9 … giorno più, giorno meno. Faceva un caldo che spaccava le pietre ma io sentivo sempre più freddo…sempre più freddo. Tremavo dal freddo. Poi cominciai a sentirmi male… accusavo nausea e poi dolori alle ossa e alle parti delle donne. Erano dei dolori che andavano e venivano ma che si facevano sempre più forti… sempre più forti, tanto forti che non resistetti più e dissi a mio fratello Orlando di accompagnarmi a casa con la bicicletta. Così facemmo! Durante il percorso verso casa venni presa da dolori talmente forti che per reggermi mi aggrappano al collo di mio fratello tanto forte che gli faci male, poverino! Nonostante tutto arrivammo a casa e mi coricai, ma i dolori non passavano… aumentavano!

 

Una volta arrivati a casa che successe?

Successe che mio fratello scappò a chiamare il medico. Nel frattempo mia madre e i miei altri fratelli rientrarono anche loro a casa. Ben presto si sparse la notizia che non stavo bene e cominciarono a venire le vicine per vedere come mi sentivo. La casa di mio padre aveva un lungo cortile che si riempì di gente. In quell’epoca ci si voleva bene, non era come adesso che ognuno pensa ai fatti suoi e con i vicini nemmeno ci si saluta, allora, ai miei tempi era diverso… ci si aiutava.

 

Lei si sentì un pochino meglio una volta arrivata a casa e distesasi a letto?

Macché… non trovavo pace! Non riuscivo a trovare una posizione a letto che mi desse sollievo. Me ne fregavo che ero in vestaglia corta. Quando venivano quei dolori tanto forti non ci pensavo a chi c’era in casa. Facevo “piedi-capitali”, un po’ mettevo la testa sul cuscino un po’ la mettevo dove si mettono i piedi, ma niente, i dolori non terminavano. Ad un certo punto entra mio zio Ottaviano, il fratello di mio padre, per vedere come stavo. Vedendomi sofferente mi chiese: “Ma che ti è capitato nipote mia?” E io gli risposi stizzita: “Lasciami stare zio, che tu non puoi capire… questi sono i dolori del partorire!” Allora tutte le donne presenti nella stanza capirono la causa del mio malessere… la taranta aveva parlato tramite me e si era presentata. Era una “taranta de partu”. Subito dopo giunse mio fratello dicendo di non essere riuscito a trovare il medico perché gli avevano detto che era  dovuto andare fuori paese per una visita… ma tanto ormai non serviva più il dottore. Tutte mi dicevano che l’unica soluzione era andare a Galatina a chiedere la grazia a San Paolo perché si trattava di taranta. Fu così che i miei si organizzarono per farmi andare a Galatina. Era già pomeriggio inoltrato.

 

Che cosa accadde allora?

I miei fratelli preoccupati cercarono subito un’automobile affinché arrivassi presto a Galatina, la trovarono pure ma adesso non ricordo il motivo per il quale non andammo… forse non si misero d’accordo per il costo del viaggio… non ricordo… in quell’epoca nel mio paese c’era solo un’automobile a disposizione di un autista che la utilizzava per accompagnare le persone che avevano bisogni urgenti. Sta di fatto che quella volta fallì il tentativo di utilizzare un’automobile per raggiungere Galatina, né potevo chiedere ai miei fratelli di accompagnarmi in bicicletta perché era notte ma soprattutto perché i forti dolori non mi consentivano si stare seduta sul tubo della bicicletta da uomo non so come si chiama… ma ci siamo capiti! Allora scegliemmo di andare in biroccio e così  partimmo. Mi accompagnò mio fratello Orlando. Mia madre rimase a Minervino perché non si sentiva molto bene in quei giorni. Mio fratello Orlando era scettico riguardo il morso della taranta e questa cosa mi infastidiva molto perché non mi credeva. Mentre passammo per i vari paesi io mi vergognavo molto del mio stato ma soprattutto del fatto che le persone mi potessero vedere così tanto sofferente. Pensi che quando venivo presa dai dolori per non gridare troppo mi tenevo stretta ad un aggeggio che era legato al biroccio proprio come fanno le donne gravide quando stanno per partorire. La mia, come ho detto prima, era una “taranta de partu”!

 

Ci può spiegare meglio questo dettaglio? Che significa la parola “taranta de partu”?

Deve sapere che dalle nostre parti si è sempre detto che le tarante prima di essere dei ragni erano delle persone come noi, che facevano tutti i mestieri che facciamo noi e tutte le azioni che facciamo noi; solo che erano troppo orgogliose e avevano offeso Dio col loro modo di fare, quindi il Signore per punizione le aveva trasformate in tarante, in ragni. Durante la loro trasformazione continuarono a fare ciò che stavano facendo … c’era chi ballava mentre venne trasformata e se ti mordeva una di quella ti costringeva a ballare, c’era chi cantava e una volta diventato ragno se ti mordeva ti obbligava a cantare, c’era chi dormiva e se ti mordeva come ragno ti faceva dormire e via dicendo. La mia era stata una persona che stava per partorire e aveva le doglie mentre venne tramutata in taranta quindi il suo morso mi aveva dato tutti i dolori del parto… le doglie diciamo.

 

Come fa a sapere con certezza che i suoi erano dolori simili alle doglie del parto e non invece qualcos’altro?

Figlio mio… come facevo a sapere che erano dolori da parto? Perché stavo morendo di doglie proprio come le donne prene quando devono partorire! Solo io so cosa ho passato… gli altri non possono minimamente immaginare! E poi, tutte le persone che erano venute a casa mia e che avevano partorito e mi avevano vista in quello stato subito avevano capito che si trattava di quello… di taranta partoriente. Lo compresi pure io, dopo maritata, quando mi capitò di assistere parenti o vicine di casa che stavano partorendo! I miei dolori e il mio comportamento era stato simile al loro! Io non ho avuto figli ma i dolori del parto li ho subiti. All’epoca, deve sapere che solo le donne maritate potevano assistere a un parto… se una donna non era sposata non poteva assistere anche se era grande d’età, questo, per una questione di pudore. Chi non aveva conosciuto il marito non poteva assistere a una nascita…all’epoca era così… e all’epoca tutte partorivano in casa con l’aiuto della mammana… a volte manco il dottore c’era, veniva chiamato solo in casi gravi.

 

Una volta giunti a Galatina che cosa accadde?

Arrivammo che era già sera e la cappella di san Paolo era chiusa. Non c’era nessuno. Per prima cosa cercammo il sagrestano perché avevamo saputo che era lui che custodiva le chiavi della cappella. Quando venne e aprì la porta per prima cosa mi disse che dovevo bere l’acqua del “pozzo di San Paolo”. Raccolse con un vecchio secchio l’acqua del pozzo e me la porse in una specie di boccale unto. Appena la bevvi sentii che era acqua grossa che faticavo a ingoiare. Lui mi disse che dovevo sforzarmi a bere altrimenti il santo non mi avrebbe fatto la grazia. Bevvi a forza quell’acqua, prima piano poi a piccoli sorsi. Mamma mia che brutto sapore aveva quell’acqua amara! Era acqua grossa! Ne bevvi poca! Dopo un poco vomitai…vomitai il veleno, una volta… due volte e sul pavimento, proprio dove vomitavo si era formata tanta schiumazza segno del veleno che avevo messo fuori. Notai che col vomito i dolori piano piano stavano scomparendo. Dopo poco tempo mi sentii meglio. Dissi a quel punto a mio fratello Orlando e al padrone del biroccio che potevamo ritornare a Minervino. Avevo bevuto l’acqua del pozzo, i dolori erano scomparsi… potevo ritenermi soddisfatta… san Paolo mi aveva fatta la grazia…pensavo!

 

Poi cosa accadde?

Una volta arrivati a Minervino i parenti si tranquillizzarono nel vedermi rimessa. Raccontai loro come erano andati i fatti poi loro fecero ritorno alle loro case. Vidi mia madre molto preoccupata ma non ne compresi la ragione. Appena rimanemmo soli in casa i dolori ritornarono più forti di prima. Mi sentii persa… San Paolo non mi aveva fatta la grazia, questo comportava il fatto che sarei dovuta ritornare a Galatina per chiedere ancora la grazia al santo. Mi si avvicinò mia madre e mi disse che nonostante non si sentisse affatto bene quella volta mi avrebbe accompagnata lei. Seppi dopo, da mia sorella Nina che quando ero partita con mio fratello Orlando, la prima volta, loro due si erano appisolate sul letto matrimoniale di mia madre perché mio padre era ritornato al campo a terminare la raccolta delle spighe e per sorvegliare i covoni affinché non li rubassero. Mia madre una volta appisolata si era messa a mugolare nel sonno e a agitarsi tanto da svegliarsi di soprassalto. Tutta sudata e pallida come un cencio aveva detto a mia sorella che aveva visto in sogno san Paolo che l’aveva ammonita dicendole che se non mi avesse accompagnata lei a Galatina, in quanto madre, non mi avrebbe fatto la grazia. Una volta svegliata era rimasta molto turbata da quel sogno e aveva intuito che pur apparendole in buono stato di salute non ero guarita. Lei già lo sapeva perché san Paolo glielo aveva detto in sogno.

 

Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica arte (1644) del P. Atanasio Kircher

 

Dunque ritornaste a Galatina?

Si.

 

Ci racconti. Allora, della sua seconda visita al Santo!

Partimmo di mattina presto che era ancora buio sempre con lo stesso proprietario del biroccio. Quella volta mia madre si sedette accanto a me. Mio fratello Orlando rimase a casa perché doveva aiutare mio padre. Durante il tragitto quando venivo assalita dai dolori mi aggrappavo a mia madre e lei mi consolava. Nuovamente dovemmo passare per i paesi e quella cosa mi diede ancora molto fastidio. Non volevo mi vedessero in quello stato. Giungemmo a Galatina in prima mattinata e quella volta trovammo la porta della cappella aperta e molte tarantate con i loro accompagnatori erano già entrate dentro o si erano fermate fuori. Quel giorno vidi tante altre tarante, chi stava seduta mezza appisolata, chi balbettava qualcosa che non riuscivo a comprendere, chi muoveva freneticamente la testa con i capelli scompigliati, chi cercava di arrampicarsi sull’altare. Io avevo sentito dire che alcune tarante, anche se vecchie, si muovevano come ragni e si arrampicavano dove per tutti gli altri uomini non era possibile arrivare.  Mi avevano anche raccontato che alcune di loro riuscivano a diventare sinuose come le sacare al punto da riuscire a passare tra i piedi delle sedie senza muoverle o che alcune riuscivano a rimanere in equilibrio su uno spazio così piccolo (mima lo spazio di un palmo) senza cadere per tanto tempo. Erano tutte cose che mi erano state raccontate da gente che era stata prima di me, gente di cui potevo fidarmi. Quel giorno ebbi, invece, modo di vedere una tarantata che aveva preso per il collo un signore che indossava una cravatta rossa e nera. Si gettarono in otto su di lei per trattenerla. Se non l’avessero fatto lo avrebbe soffocato con le sue mani. Le tarantate avevano una forza straordinaria, una forza che nemmeno si può immaginare. Quando entrai nella cappella notai un uomo che stava come se stesse dormendo e una donna, che seppi essere sua moglie, che di fronte la statua del santo nella teca gli diceva: “Ma perché non gliela fai la grazia? Perché? Perché non gliela fai?”. Senza dire una parola andai al pozzo mi feci passare il secchio e ingurgitai moltissima acqua, ma davvero tanta. Subito ripresi a vomitare, una… due… tre… quattro volte, finché non mi sentii del tutto liberata dal veleno. Mi sentì allora subito bene, talmente bene come se non mi fosse accaduto nulla. Fu allora che mi avvicinai alla signora che interrogava il santo e le dissi: “Signora mia, guarda la statua del santo… vedi cosa indica col dito? Indica il pozzo! Se non fai bere a tuo marito tanta acqua quello non ti sana!”

La donna mi guardò riconoscente e mi disse che era più di un anno che suo marito versava in quello stato… non dava più segni di vita… non moriva ma nemmeno campava più. Si sentiva disperata!

Dissi a mia madre che mi sentivo davvero bene e che volevo ritornare a casa ma prima di andare al biroccio volevo passare a rendere omaggio a San Paolo e San Pietro presso la chiesa madre che distava poco. Mentre parlavo con mia madre fui fermata da un signore distinto che mi intervistò. Mi disse di essere uno studioso delle tarantate e io gli raccontai cosa mi era accaduto. Dopo ci recammo in chiesa e ringraziammo san Paolo e anche san Pietro. Fu allora che notai che la statua di san Pietro era molto più preziosa di quella di san Paolo. Era a mezzobusto tutta d’argento… era bellissima. Anche quella di san Paolo era bellissima ma era di cartapesta. Dopo aver detto le preghiere ritornammo dal proprietario del biroccio e lo vedemmo litigare con un signore.

 

Cosa era accaduto?

Cosa era successo? Era successo che il padrone del biroccio aveva legato il cavallo davanti a uno studio fotografico ed era andato a farsi quattro passi per fumarsi una sigaretta. Al ritorno aveva saputo che il suo cavallo con un colpo di muso aveva mandato in frantumi la cornice di un quadro di san Paolo e ora il proprietario dello studio pretendeva che aggiustasse la cornice. Noi proponemmo di dargli dei soldi per il danno ma lui fu irremovibile… ci disse: “fin quando non aggiustate il quadro e non lo appendete dove stava di qua non ve ne andrete!”. Allora con la santa pazienza convincemmo l’uomo del biroccio ad andare a trovare un falegname e un vetraio. Così accadde. Dopo tanto tempo riuscimmo a riparare il danno e fare finalmente ritorno a casa. Fu una giornata stancante… molto stancante, tanto per me quanto per mia madre.

Il ballo della tarantata, olio su tela di Daniele Bianco

 

Si recò altre volte a Galatina a rendere omaggio a san Paolo in occasione della sua celebrazione il 29 Giugno?

Certo! Ci andai quell’anno e altre due volte da sposata. Quell’anno andai in bicicletta perché avevo recuperato tutte le forze e mi sentivo bene. Avevo superato Corigliano d’Otranto quando venni superata da un biroccio che portava una tarantata che si stava scalmanando. Quella si mise a gridare: “Haiiiiiiiiiiii…haiiiiiiiiiii” e quel grido mi fece di colpo perdere tutte le forze. Stavo quasi cadendo dalla bicicletta e mi misi subito a tremare. Mi fermai e lasciai che si allontanassero, poi ripresi a pedalare verso Galatina.

 

È vero che il santo vi lascia i segni della sua presenza in prossimità della sua festività?

Si è vero! Da quando venni morsicata nel periodo della sua celebrazione mi sento strana… stanca, svogliata… frastornata diciamo! Anche adesso mi capita, poi quando mi dicono che è la festa di San Paolo capisco la causa del mio malessere. È il santo che vuole che mi ricordi del suo intervento prodigioso e allora gli recito un Rosario con tutti i misteri, mai per rinfaccio. È stato san Paolo che mi ha guarita non i medici!

 

La ringrazio di tutto signora. La sua testimonianza è davvero molto importante. Grazie ancora!

Grazie a lei… che santu Paolo e lu Signore vi benedica e vi protegga!

 

Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del P. Kircher (1673)

 

Analisi antropologica della testimonianza

L’esperienza vissuta dalla Sig.ra Domenica di Minervino di Lecce intorno alla metà degli anni ’50, praticamente a ridosso della spedizione di ricerca di Ernesto De Martino a Galatina e nel Salento, proprio perché slegata dal comune aspetto coreutico-musicale presente nel fenomeno catartico del tarantismo, risulta essere particolarmente preziosa ai fini di un’accurata indagine antropologica e sociale. Nel racconto emerge una forte fede religiosa nella vita della signora fin dalla sua giovane età. La signora Domenica apparteneva a una numerosa famiglia contadina legata alla mezzadria, ma non solo, di discrete condizioni economiche. La signora non ha mai sofferto di disturbi di natura psicosomatica né psichiatrica, né si annoveravano casi psicopatologici in famiglia come risulta da accurata indagine. La signora e la sua famiglia di appartenenza godeva nella sua comunità di ottima stima, stima che è proseguita anche nel paese del marito divenuta comunità di residenza una volta sposata.

È presente in lei, come precedentemente accennato, un fortissimo attaccamento all’ambito religioso che rasenta l’affabulazione. Mi risulta che la signora sia stata educata fin dalla sua giovanissima età dalla sorella minore di suo padre, una “suora di casa” che impossibilitata per motivi di salute a esercitare in convento i doveri in una non meglio specificata congregazione religiosa venne dispensata dai voti ed esercitò nella sua abitazione la missione cristiana di accoglimento, custodia cura religiosa degli infanti di genitori entrambi lavoratori. Anche gli altri suoi familiari (fratelli, sorelle e genitori) risultano essere tutti dei cattolici credenti e praticanti tutte le funzioni religiose.

Dalla sua narrazione emergono numerosi spunti d’indagine e riflessione quali:

  • La presenza di un rimando mitologico riguardo l’origine del fenomeno del tarantismo (metamorfosi di uomini e donne in tarante per punizione divina) che richiama alla mente la vicenda mitica di Atena e della tessitrice Aracne, fatto questo che lascia supporre una presenza latente di una rimembranza etnica nel sottobosco rurale demologico salentino;
  • Il convincimento pre-ippocratico che la malattia provenga dalla sfera divina per cause occulte, il più delle volte per una manchevolezza volontaria o involontaria del malato ma anche di alcuni suoi familiari;
  • L’emergere di una tradizione sapienziale diagnostica di natura rurale laddove altre tarantate o testimoni di tarantate convincono il malato a lasciar perdere l’iter medico-scientifico e di rivolgersi unicamente a quello religioso;
  • Un continuum di una presenza asclepiea nella vicenda che vede nell’acqua il farmakon per certi versi omeopatico (acqua amara e disgustosa) con cui si ottiene la salute perduta. Non va trascurata la vicinanza geografica e culturale con la tarantata Filomena da Cerfignano che nell’opera La Terra del Rimorso di Ernesto De Martino viene fotografata da Franco Pinna mentre esegue il rito dell’incubatio onirica di sicuro rimando iatromantico asclepieo. Incubatio onirica che nel caso specifico della signora Domenica è presente nella vicenda del sogno premonitore della madre;
  • Non si esclude che l’intervistatore della signora Domenica possa essere stato lo psichiatra Giovanni Jervis in persona o qualche suo stretto collaboratore poiché in quel periodo il neurologo era presente in zona per approfondire autonomamente il fenomeno del tarantismo prima di fare parte, dal 1959 al 63 dell’equipe di Ernesto De Martino;
  • In ultimo l’appartenere alla “ciclicità dell’evento” anche da vecchia a dimostrazione che nella signora permangono indisturbati due modi vi vivere la storia, quello ciclico del ritorno di radice religiosa arcaica e contadina, presente nel riproporsi del tenue malessere in corrispondenza del giorno della celebrazione del santo; e quello lineare cristiano, proprio invece della vita quotidiana, che procede inesorabile, con i suoi avvenimenti profani, verso la fine dei giorni.
Galatina, il pozzo di San Paolo
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3 Commenti a Intervista a una tarantata

  1. dalla descrizione dei dolori della signora tarantita si potrebbe arguire che si trattò di una colica renale

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