di Giuseppe M. Costantini*
LE PREMESSE
Elìgio di Noyon, vescovo altomedievale originario del Limosino[1], fortemente venerato e promosso dalla dinastia degli Angioini[2], vanta varie forme appellative, oltre all’italiano “sant’Eligio”: “saint Éloi” in francese, “sant’Aloja” nell’ex regno napoletano, nonché, da un’alterazione verbale di quest’ultima denominazione, “santa Loja” in Cerfignano, forma che nel Basso Salento è attestata anche in altre località e per iscritto[3].
Sbaglia chiunque consideri il Salento un luogo periferico, privo di originalità e di idee aggiornate: costituito da ceti istruiti e no, è da sempre un territorio di originalità nonché di raccolta e semina di informazioni e di idee, anche nelle arti e nell’architettura, almeno quanto il resto dell’Europa. Tale pervicace presupposto è sempre stato condiviso con Sergio Ortese[4], il promotore di questo approfondimento disciplinare sulle superfici della Cappella di Sant’Aloja in Cerfignano, o “Santa Maria di Costantinopoli”. Pertanto questo saggio, che intende contribuire alla piena comprensione nonché alla tutela e valorizzazione della Cappella, in ragione delle inevitabili future decisioni o esitazioni sulla sua conduzione, comprende alcuni cenni critici sulle maggiori alterazioni di origine antropica che la hanno reiteratamente interessata.
Quanto al Salento, quale territorio di originalità nonché di scambio di idee, è geniale ed emblematico, di là dai dubbi sulla sua veridicità storica, il quadretto salentino offerto nell’anno1817, nelle memorie del proprio grand tour, dal fine intellettuale e scrittore Stendahl (al s. Marie-Henri Beyle):
«OTRANTO, 15 maggio. (Dovrei) …arrivare ad un terzo volume, se dessi la descrizione dei paesi poco noti che ho attraversato … non assomiglia a Firenze più di quanto Firenze assomigli a Le Havre.
Il marchese Santapiro, un vecchio amico di Mosca … ha una situazione abbastanza propizia per non dover mai adulare né mentire. Credevo che qui una simile originalità fosse impossibile; Santapiro mi disinganna. Dopo aver portato per tre anni in giro per l’Italia quel bel caratterino… Si è messo a dire che la musica lo annoia, che i quadri in un appartamento danno ad esso l’aria da funerale; che egli preferisce un burattino di Parigi, che muove gli occhi e caccia la lingua, ad una statua di Canova; ed ha dato a Napoli concerti che gli sono costati due o tre volte il prezzo consueto, perché ha voluto esclusivamente arie di … ecc.
… È persona piena d’allegria e d’imprevisti, che ci fa trascorrere dinanzi una folla d’idee … alle quali, se non fosse stato per lui, non avremmo mai pensato…
Durante la grande calura di ieri, stesi ciascuno su un divano di cuoio, in un’immensa bottega … con cortine di tela verde, prendevamo sorbetti … A Firenze, avevo un palazzo … otto cavalli, sei servitori, e spendevo meno di mille luigi. … ho visto ad ogni inverno passare sotto i miei occhi seimila stranieri. …Tutti gli aneddoti di codesta aristocrazia miravano a prendere in giro i re…». (Stendhal 1960, vol. 2°, pp. 48-50).
Attualmente, al cospetto della Cappella di Cerfignano, ogni singolo elemento e l’intero insieme confondono il visitatore sensibile: gli aspetti orografici e viari del sito; il contesto urbano e paesaggistico; l’attuale realtà dell’intero ex complesso ecclesiastico; i caratteri esterni del fabbricato in sé; la completa ruderizzazione[5] delle superfici intime, già interamente decorate. È toccante constatare, nei devoti delle rispettive materie, analoghe sensazioni al cospetto della sacra Sindone e nell’osservazione della Cappella: in effetti rappresentano entrambe la straziante descrizione della passione e morte di un organismo già sacro e vivo, alleviata soltanto da un’incrollabile fede nella rinascita. A ogni modo, a ben considerare, ciò che percepiamo e abitiamo di un’architettura, ovvero il suo organico funzionamento, è determinato sia dalla natura e dallo stato delle sue strutture sia, allo stesso tempo e congiuntamente, dalla natura e dallo stato delle sue finiture superficiali[6]. Pure con fatica e dotati di adeguata attrezzatura critica, osservando Sant’Aloja si può cogliere natura e qualità di quanto ne resti solo in un secondo tempo.
Tali osservazioni non scalfiscono l’ammirazione dovuta al premuroso salvataggio in extremis della Cappella realizzato negli anni 2013-2015[7], poiché le condizioni dell’antico fabbricato prima di tale intervento, quali evincibili da una competente consultazione delle immagini e degli elaborati progettuali coordinati dal compianto architetto leccese Roberto Bozza[8], chiariscono come i lavori realizzati abbiano rappresentato esclusivamente una tardiva e ardua operazione di salvataggio sulla materia superstite della sfortunata e martoriata fabbrica salentina. Pertanto tutto ciò che, grazie a quel salvataggio, ci è pervenuto dell’immobile Sant’Aloja necessita ancora di un’ampia e articolata azione di restauro, intesa come recupero del contesto e dei funzionamenti naturali, anche rimuovendo delle manomissioni svilenti e agendo dei “ripristini funzionali” ancora praticabili.
Questo scritto, pensato per l’incompiuto sesto volume della ardita e preziosa collana De Là Da Mar di Sergio Ortese, vuole costituire l’auspicio e l’alfa di un organico restauro del Bene culturale considerato, iniziativa da perorare fino a sua completa orchestrazione ed esecuzione. Infatti, il “restauro conservativo 2013-2015”, pure provvidenziale, ebbe carattere di necessità e di incompiutezza già negli intendimenti progettuali: «Si premette che, per ragioni connesse alle limitate risorse finanziarie, gli interventi di restauro qui previsti sono limitati a quelli a carattere conservativo, urgenti e non differibili…» (Bozza et al. 2013, Allegato A). Tra l’altro, le imprescindibili ricerche preliminari hanno rilevato un comune dato in tutti gli enti di competenza sul Bene e sulle attività compiutevi: l’indisponibilità di un qualsiasi “consuntivo tecnico-scientifico-documentario” del “restauro conservativo 2013-2015”.
LE SUPERFICI ESTERNE
Nelle superfici esterne della Facciata (fig. 1) e di entrambi i suoi lati (figg. 2 e 3), la Cappella si presenta radicalmente priva di residue finiture superficiali, così, suggellando il proprio progressivo svilimento formale e funzionale.
Il pieno rifacimento della copertura di Sant’Aloja dovette essere susseguente all’eliminazione del sistema originario: «Gli imbrici sono ancora evidenti nelle foto scattate prima dei consolidamenti del 2005» (Supra); di là dalle sue occorrenza ed efficacia nell’ambito del “restauro conservativo 2013-2015”, sta di fatto che l’attuale tetto è lontano dalla naturale connotazione temporale del fabbricato e ne recide ogni collegamento tecnico e formale con il tipo di copertura originale, quale arguibile dalle stesse foto di progetto[9]: una chiusura dell’estradosso discontinua “a dorso d’asino”, piuttosto diffusa nel tardo medioevo salentino, finita direttamente con embrici manufatti e protetta da un semplicissimo coronamento delle pareti laterali o dell’intero perimetro dell’aula[10].
L’estremità presbiteriale della Cappella, regolarmente “orientata”, è pressoché obliterata da un deposito agricolo privato. Si tratta di una costruzione in totale continuità con Sant’Aloja, bisognosa di appropriati approfondimenti, sia per la possibile testimonianza di passati ambienti liturgici o conventuali collegati alla Cappella stessa, sia per poterne delineare una, davvero imprescindibile, “riconversione”.
Oltreché fuorviata dalla ingombrante presenza del deposito sopraccitato, la lettura dei due prospetti laterali della Cappella soffre dell’assenza di ogni naturale materia e carattere superficiali: basti considerare che il solo intricato palinsesto di uno stipite del portale lapideo d’ingresso, inciso da numerosi e sofferti disegni e da iscrizioni devozionali (fig. 4), rivela il secolare metabolismo di Sant’Aloja più di tutte le sue superfici esterne messe insieme.
Il fronte della Cappella è strozzato dallo scavo di una moderna strada asfaltata che, cingendo in modo scriteriato e progressivo il sacro fabbricato, ne ha amputato il sagrato e l’orografia naturali, e lo ha ridotto in una rotatoria.
Due elementi di recente invenzione, la scala d’accesso, determinata dal maggiorato piano di calpestio interno, e il coronamento a seghettatura regolare, che si ripete sulla parete presbiteriale, benché in armonia colla destinazione rurale del finanziamento europeo, appaiono allontanarsi da quanto ancora recuperabile dei caratteri naturali della facciata.
Un’attenzione a parte meritano alcune strutture laterali centinate, ora cieche, forse esplorate e fotografate da G. Giangreco (Soprintendenza leccese), in occasione dei sopraccitati “consolidamenti del 2005”. Si tratta di archi incastonati nel banco roccioso di fondazione, sotto l’area presbiteriale: elementi essenziali nell’identificazione dei caratteri originari del sito, nonché per l’individuazione di un’eventuale cripta o differenti ambienti ipogei, forse già destinati a sepolture e organicamente collegati all’aula subdivale.
A proposito dei luoghi di culto, è significativo il fatto che tali siti sacralizzati insistano spesso in “luoghi eccellenti”: dominanti un territorio, dotati di grotte, ricchi di buona acqua; caratteri ancora noti o già dimenticati. Insomma, i siti sacralizzati sono in possesso di uno o più d’uno naturale carattere straordinario: l’eziologia stessa della “persistenza dei luoghi di culto”, quel fenomeno, preesistente al cristianesimo, che conferisce connotati ancestrali all’ubicazione dei luoghi sacri.
L’INSIEME DELLE SUPERFICI INTERNE
L’insieme delle superfici interne, benché abbia costituito, e parzialmente costituisca, un interessante palinsesto decorativo, nonché conservi tracce di un’impaginazione prebarocca, con diversi brani pittorici comprensibili e apprezzabili, risulta decisamente ruderizzato.
Le “superfici orizzontali” interne di Sant’Aloja, analogamente a quelle degli esterni, esibiscono l’assenza di ogni naturale materia e carattere superficiali (fig. 5).
La Volta è priva della sua regolamentare linea d’imposta sulle pareti maggiori, di là che si trattasse di uno “scalino” materiale o illusorio. Tutta la struttura muraria a botte, già lacerata da lunga incuria e conseguenti, multiformi, agenti di degrado, dopo le recenti, necessarie, azioni di ricucitura e recupero funzionale, appare eccessivamente nuda e ancora duramente segnata. In particolare, un’attrezzata comparazione di “natura e stato” tra le superfici parietali e quelle dell’intradosso, dimostrano la prevalente spellatura di quest’ultimo che, di tutti i trattamenti superficiali susseguitisi nel passato, conserva esclusivamente un residuo di scialbatura preparatoria a calce (fig. 6).
L’impiantito, di recente ideazione, in presumibili “lastre di Apricena”, è posto a una quota largamente infedele al naturale piano di calpestio interno: l’attuale soprelevazione di circa ottanta centimetri, oltre a sotterrare tutto il registro basamentale, mutila persino i riquadri istoriati. Tale grave alterazione morfologica determina un insanabile squilibrio nelle proporzioni dell’aula, cancella i gradini dell’area presbiteriale e tronca di netto ogni testo pittorico parietale intercettato, integro o lacunoso che sia. La documentazione disponibile lascia indistinte le responsabilità di tale attuale quota pavimentale interna, benché individuabili tra:
- La probabile aggiunta di sepolture all’interno della navata, in un tempo compreso tra la sostituzione del ciclo pittorico prebarocco e il primo Ottocento (attuazione del napoleonico Décret Impérial sur les Sépultures [11]).
- Le non identificabili manomissioni operate nei sopraccitati “consolidamenti del 2005”.
- Le concrete attività del “restauro conservativo 2013-2015”, cui certamente appartiene anche l’attuale impiantito.
Di là dagli espliciti frammenti pittorici prebarocchi, che questo articolo tratta in forma alquanto sistematica (vedi oltre), nelle “superfici verticali” sono attestabili anche alcuni trattamenti murali coevi o successivi all’età barocca. Tali frammenti sopravvivono principalmente “mimetizzati” tra i lacerti pittorici prebarocchi più sparuti ed enigmatici dell’intera aula, in: “Parete presbiteriale”; “Prima arcata”, dove meglio si distingue una sorta di ridipintura, presente anche altrove, che classifico “testo a fondo biancastro”. In particolare, le superfici prive di frammenti pittorici prebarocchi appaiono largamente decorticate con significativa accortezza, ovvero, oltre al loro testo superficiale hanno perduto ogni strato preparatorio di ognuna delle loro multiple sequenze stratigrafiche.
A tale proposito, appare interessante che il “restauro conservativo 2013-2015” abbia dichiaratamente circoscritto le competenze progettuali del RBC[12]: «…agli interventi di restauro previsti in progetto sui dipinti murali all’interno della Chiesa…» (Bozza et al. 2013, Allegato 01), nonché che, conseguentemente, la concreta individuazione e riconoscimento, nonché i criteri e le modalità del «Restauro di volte e pareti non interessate da dipinti murali» (Ibid.), siano stati a totale appannaggio di architetti e ingegneri, compresa la determinazione di “dove e cosa” sottrarre della materia superficiale presente.
A completamento di un quadro d’insieme delle superfici interne: è molto probabile la passata esistenza di una generalizzata impaginazione barocca della navata, costituita anche da elementi plastici, sia nelle pareti laterali sia in quelle lunettate, cioè altri altari e vari elementi d’arredo architettonico e liturgico. Tale deduzione trova anche un certo riscontro, oltreché in varie testimonianze locali di tipo verbale, nella consultazione di alcune vecchie stampe fotografiche, con Sant’Aloja in pieno degrado e invasa da detriti, conservate dal locale archivio parrocchiale.
LE SUPERFICI DELLA PARETE NORD
La campitura di fondo della Parete Nord conserva solo pochi e frammentari resti pittorici. Il pennacchio centrale raffigura un kantharos aureo (fig. 7)[13], si tratta del frammento intonacale di una più ampia quadratura ad affresco, forse appartenente al “testo a fondo biancastro” sopraccitato. A ogni modo, è una pittura di dubbio riconoscimento stratigrafico e cronologico, nonché, come tutti i brani pittorici superstiti della Cappella, largamente svilita da un notevole impoverimento materiale.
Lo “impoverimento materiale” rappresenta una questione campale nella critica e nella storiografia d’arte. Come il frequente fraintendimento di redazioni pittoriche intenzionalmente naïf, nonché gli abituali mancati riconoscimenti di avvenute manomissioni, anche la prassi di misconoscere o sottovalutare l’impoverimento materiale dei testi pittorici, costituisce un profondo vulnus nella generale estimazione della pittura salentina, e non solo di questa. In tutti i casi in cui la tecnica e la stesura adoperate abbiano previsto più strati di colore, come accade persino nella tecnica ad affresco, la perdita o il significativo impoverimento di uno o più strati conclusivi comporta una profonda alterazione svilente di tutto il dipinto. Si tratta di un deficit a volte difficilmente intelligibile da parte dello storico dell’arte che manchi di avvalersi anche del contributo di un RBC, lo specialista disciplinarmente dotato di una profonda e concreta cognizione della natura materiale dei dipinti e del loro funzionamento fisico in ogni loro stato, anche in termini visivi. Tutte le opere pittoriche interessate da fenomeni di impoverimento superficiale, anche più tenue di quello che affligge Sant’Aloja, a causa di innumerevoli accidenti materiali, che qui è impossibile approfondire, a un esame incompleto in materia di tecnologie dell’esecuzione e del degrado, dimostrano soprattutto una qualità originaria largamente inferiore al dato reale: un fenomeno endemico nei territori lungamente colpiti da stravolgimenti politici, socio-economici e culturali, come il Salento. In argomento occorre ricordare che l’opera di Sergio Ortese ha costantemente rivolto un’attenzione eccezionale e innovativa alla realtà materiale del Bene e, in conseguenza, anche all’approccio multidisciplinare di una corretta lettura del Bene stesso[14].
L’estremità destra della parete nord, nel suo attuale registro rasoterra, porta un riquadro comunemente riferito a sant’Aloja (fig. 8): vescovo benedicente, con mitria, pastorale e piviale di particolare raffinatezza. Nella restante campitura parietale considerata, sono presenti alcuni lacerti di buona qualità tecnica e pittorica, caratterizzati da una posizione stratigrafica ormai ingarbugliata che riguarda un’iconografia ancora indecifrata (fig. 9).
Nella parte sinistra della parete settentrionale, due fregi geometrici dicromi, affrescati “a stampino”, incorniciano la Prima arcata (fig. 10): frontalmente, in parete, appare un motivo a base cromatica terra verde; lo stipite, compreso sottarco, è occupato da un differente motivo a base cromatica terra rossa. Entrambi i fregi dell’arco, benché la loro materia pittorica sia fortemente impoverita, costituiscono un interessante trompe-l’oeil destinato a simulare alcuni preziosi ornati del “Meridione normanno”, come i reali “bassorilievi con tarsie lapidee” dell’architettura palermitana.
È qui opportuno precisare che tutta la pittura murale, in sé, come ogni superfice architettonica decorata, costituisce un trompe-l’oeil, che, nell’occultare e proteggere la natura materiale del fabbricato, cerca, più o meno efficacemente, di evocare differenti spazi, tempi, forme, materie, oggetti, soggetti nell’intero ambiente.
Il fondo cieco della prima arcata, benché ormai prevalentemente lacunoso, costituisce un interessante palinsesto di testi pittorico-decorativi. La redazione di maggiore valore tecnico-artistico, forse la più antica tra quelle rilevabili nell’arcata, appartiene a una superficie già interamente istoriata “a buon fresco”, il suo frammento più significativo e bello, posto lungo il margine destro della metà inferiore del riquadro, raffigura magistralmente il palmo di una mano sinistra di presumibile appartenenza francescana: “mano francescana”. A ciò che resta della probabile figura francescana si affianca l’estatico profilo di un possibile monaco domenicano; a ragione o no, i mirabili frammenti evocano l’iconografia del celeberrimo incontro tra san Francesco e san Domenico (fig. 11).
Nella medesima arcata sono rilevabili anche frammenti di ulteriori strati policromi che, nell’area lunettata, risultano inconfutabilmente sovrammessi all’affresco “mano francescana”. Di là da tale primaria successione stratigrafica, gli strati policromi successivi al testo con “mano francescana”, pur esibendo una cronologia tecnicamente confusa, costituiscono comunque un’importante testimonianza della ripetuta metamorfosi iconografica dello scomparto. Una parte consistente dei frammenti superstiti, anche di significative dimensioni, posti soprattutto nella parte inferiore del riquadro, mostrano un fondo biancastro con tratti di disegno, giallastro, caratterizzato da geometrie elementari. Si tratta di una redazione che andò a sostituire quelle policrome sopraccitate, sovrapponendosi ai loro pochi resti. Tale “testo a fondo biancastro”, che potrebbe anche rappresentare una sorta di sinopia di manufatti plastici perduti, come un eventuale altare laterale, ha il difetto di potersi spacciare per complanare all’affresco “mano francescana”, soprattutto nelle attuali condizioni di sutura tra i relativi intonaci, nonché ha il pregio di costituire la prova materiale che lo stesso affresco “mano francescana” è stato sostanzialmente distrutto, massimamente demolito, in un tempo remoto e decisamente precedente alla realizzazione del “testo a fondo biancastro” stesso.
Poiché l’ultimo restauro ha generalmente rispettato la regola disciplinare del “tassello testimone[15]”, segnalerò volta per volta le superfici d’interesse che, come questa prima arcata, manchino di tale riscontro.
Nella parte destra della parete settentrionale, è largamente perduta la cornice pittorica in parete della Seconda arcata (fig. 12), ne resta un significativo brano al centro dell’archivolto; si tratta di una collana floreale, con moduli a spirale, in ocra dorata; la redazione pittorica del testo è radicalmente perduta, ridotta a solo disegno preparatorio condotto a fresco. Quanto al parallelo fregio che orna il sottarco e gli stipiti, rappresenta anch’esso una collana floreale: qui i moduli sono circolari e includono larghi fiori geometrici, sempre a base ocra dorata, e il disegno è realizzato a compasso. Anche questo testo, generalmente sopravvissuto, è largamente impoverito, innanzitutto nella sua redazione pittorica. Entrambi i bei fregi policromi che scandiscono il secondo arco, come già nel primo arco, simulano dei preziosi bassorilievi scultorei con incrostazioni lapidee: le evidenti ascendenze di epoca normanna, anche di tipo plastico, qui evocano direttamente la chiesa del santi Nicolò e Cataldo in Lecce.
Il riquadro attribuito a Sant’Aloja, già rilevato nell’estremità inferiore destra del fondo della stessa parete nord, appare successivo alla scompartitura degli archi, della quale non rispetta affatto né gli spazi né la materia.
Il fondo cieco dell’arco, benché fortemente lacunoso, rivela ancora una presumibile “Annunciazione di Maria”. In alto, sotto a una sfera dorata, certamente impoverita delle stesure finali, appare una ghirlanda di serafini e cherubini. La restante figurazione si colloca in uno spazio architettonico delineato dalla sommità di un muro in laterizi, da un impiantito a scacchi e da una fascia basamentale, forse costituita da gradini, caratterizzata da probabili incrostazioni lapidee, non dissimili da ciò che nella parete presbiteriale occupa il registro basamentale. Di là dalla suggestiva e bella illustrazione di un tendaggio fortemente oblungo che custodisce le sacre scritture, è possibile intravedere, e intuire, sia l’arcangelo Gabriele, a sinistra, sia, a destra, la Vergine, forse sorpresa di fronte a un filatoio. Nel malfunzionamento pittorico di questa scena mutila, pure ancora apprezzabile, è da considerare anche un effetto del degrado poco conosciuto: sotto alla candida catena di nuvole che accolgono l’ordine alto degli angeli, un cielo già azzurro, avendo ormai interamente perduto tutto il suo pregiato pigmento azzurro, che fu regolarmente steso a secco su un fondo morellone, appare in un’ingannevole continuità cromatica con la sottostante, e decisamente terrena, parete in laterizi.
Anche qui, sembra mancare alcun “tassello testimone” delle consistenti attività di restauro. In questa scena, come spesso nell’intero registro contiguo all’attuale impiantito, è particolarmente cruenta la cesura orizzontale esercitata dall’attuale piano di calpestio.
LE SUPERFICI DELLA PARETE LUNETTATA PRESBITERIALE
Sono le cornici con fregi policromi delle arcate cieche laterali a connotare l’attuale l’impaginazione prebarocca della Cappella, tuttavia anche l’intera Parete lunettata presbiteriale (fig. 13) è analogamente scandita da una cornice, ormai largamente lacunosa e poco leggibile, realizzata lungo i margini delle superfici contigue: le estremità˗sud della volta a botte e delle due pareti laterali. Si tratta sempre di motivi floreali stilizzati a stampino, qui affrescati a base terra verde. I frammenti più evidenti di tale cornice presbiteriale insistono in: lato sinistro della volta (fig. 14); estremità sinistra della parete-sud (fig. 15).
Potrebbero appartenere a una fase prebarocca anche le “finte incrostazioni lapidee” dell’attuale fascia rasoterra che, malgrado siano state private dell’originario registro basamentale con gradini, e versino in un generale stato di degrado, conservano una qualità sorprendente e di raffinata impostazione classica. L’intera fascia di zoccolatura, è composta da specchiature dipinte su tre differenti piani verticali:
- Il normale piano di fondo che, nell’affiancare l’altare, presenta da entrambi i lati un’incrostazione circolare, con sottile bordura marmorea, inscritta in uno scomparto rettangolare.
- Le due estremità laterali del registro di zoccolatura, costituite dal segmento verticale di un pilastro sporgente, portano un’incrostazione romboidale, con sottile bordura marmorea, posta in uno scomparto quadrangolare.
- Il paliotto dell’altare maggiore, ridotto a un palinsesto fortemente lacunoso e discontinuo, oltre a una probabile figurazione con simboli, conserva alcuni brani riferibili a dei finti marmi.
Sopra all’altare maggiore, unico sopravvissuto nella Cappella, dentro un’apposita nicchia muraria quadrangolare, restano chiare tracce di una pala realizzata ad affresco, il cui soggetto appare ormai pressoché indecifrabile.
La materia muraria presbiteriale manca di qualsiasi cornice o altra discontinuità tra il lunettone e la parete stricto sensu. Una piena continuità tra lunettone e parete è confermata anche dalle redazioni pittoriche identificabili, benché largamente frammentarie e lacunose:
- Il suggestivo testo pittorico più antico, di carattere prebarocco, in alto, è rappresentato, sia a sinistra sia a destra, da pochi frammenti di una suggestiva folla di donne e uomini; in basso, nell’estremità a destra, comprende alcuni frammenti di una probabile punizione infernale ( 16 – 18). L’insieme dei suoi frammenti suggerirebbe trattarsi di un “Giudizio universale”.
- Del testo più recente, di ispirazione barocca, si riconosce solo un grande drappo con fiorami ( 19): possibile contorno di una popolare “Madonna del Rosario”.
Sembrano assenti dalla parete est “tasselli testimone” del “restauro conservativo 2013-2015”.
LE SUPERFICI DELLA PARETE SUD
Tra le imposte dei due archi, come già a nord, la campitura di fondo della Parete Sud è affrescata con un kantharos aureo. Tale frammento pittorico, oltre a un impoverimento nella materia superstite e un’enigmatica attribuzione stratigrafica e cronologica, è più lacunoso dell’omologo contrapposto.
Per il resto, la campitura di fondo a sud è priva di resti pittorici, con l’eccezione un frammento rilevabile nella sua estremità sinistra: una stesura tendente al bianco con tratti di disegno “giallastro” a geometrie elementari. Come altrove rilevato, anche tale frammento potrebbe costituire la “sinopia” di un manufatto plastico perduto e, inoltre, presenta molte analogie con il “testo a fondo biancastro” sopraccitato. Le premurose azioni di restauro su questa superficie paiono mancare di “tassello testimone”.
L’insieme pittorico-decorativo che ci è pervenuto nella Terza arcata (fig. 20), a sinistra nella parete meridionale, si distingue per una serie di singolarità, tanto da poter rappresentare l’esito di una completa revisione, o un successivo completamento, rispetto alla prima matrice prebarocca ancora intuibile in ognuna delle altre tre arcate. L’arco che comprende il dipinto è l’unico a presentare, da entrambi i lati, una rientranza in corrispondenza della sua linea d’imposta: gli stipiti sono intenzionalmente più larghi dell’arco (fig. 21). Questa cornice pittorica, la meglio conservata delle arcate, è sormontata, in chiave, dall’antico monogramma di Cristo “IHS”, detto “Cristogramma” e, dopo l’anno 1541[16], emblema gesuitico. Frontalmente rappresenta una ricca collana floreale, realizzata a mano libera in ocra gialla, terra rossa, grigio e nero. Si tratta di un fregio, di ispirazione romanica, alquanto regolare, ma totalmente privo della geometria che caratterizza ogni altra omologa scompartitura della Cappella. Il parallelo fregio che orna il sottarco e gli stipiti, rappresenta anch’esso una collana floreale e porta gli stessi caratteri tecnici ed esecutivi; qui la redazione manuale, meno fitta, oltre al grigio, è condotta esclusivamente a sanguigna.
Il dipinto racchiuso nel fondo dell’arco cieco, benché inferiormente lacunoso, nonché troncato di netto dall’attuale impiantito, è ancora largamente godibile: si tratta di una rappresentazione della “Natività di Gesù”. Le modalità compositive e redazionali della scena, pure di singolare semplicità e fortemente didascaliche, dimostrano una sicura conoscenza dell’affresco e una chiara capacità tecnica, come prova la stessa conservazione del manufatto. Tali caratteri pongono l’opera tra le sopraccitate “redazioni pittoriche intenzionalmente naïf”, frequenti nella pittura salentina e spesso oggetto di valutazioni alquanto sommarie. Su tali opere si potrebbe citare un’infinita e alta bibliografia, a partire dalle fonti cappadoce come “Elogio di san Teodoro” di Gregorio di Nissa e fino alle interessanti monografie contemporanee, tuttavia mi limito a considerare che alcuni dipinti eseguiti magistralmente e con occhi semplici, offrono un’emozione angelica e certamente sono intenzionalmente indirizzati all’attenzione degli umili e a quanto resti di infantile in ogni persona, secondo un indirizzo evangelico: «…i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: Chi dunque è più grande nel regno dei cieli? Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. …È meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco. Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli…» (Matteo, cap. 18, vers. 1-11).
Questa arcata è una delle parti che evidenziano la dichiarata incompiutezza del recente recupero. Benché assente qualsiasi “tassello testimone”, risulta evidente come il, pure consistente, intervento non sia andato oltre agli smontaggi e alle operazioni di primo disvelamento. Tra l’altro emergono alcune gravi problematiche, tra cui:
- L’opera è interessata da microflora e da perniciose efflorescenze saline.
- Molte superfici necessitano ancora di consistenti azioni sottrattive.
- Le operazioni di integrazione plastica sono ancora prive di coerenza in termini, non solo funzionali ed estetici, anche conservativi.
- La corretta conservazione della scena è ostacolata dalla innaturale altezza dell’attuale piano di calpestio.
La cornice della Quarta arcata, posta nel lato destro della parete meridionale, presenta una grande affinità con l’omologa dell’opposta prima arcata ed è formata da due paralleli fregi geometrici dicromi, affrescati a stampino: frontalmente, in parete, appare un motivo circolare a base cromatica terra verde; lo stipite, compreso sottarco, è occupato da un differente motivo a base cromatica di nero e terra rossa. Entrambi i fregi, pure largamente impoveriti, evocano un bassorilievo con tarsie lapidee dell’antico “Meridione normanno”.
Quest’ultima arcata (figg. 22 e 23) è occupata da una “Incoronazione di Maria”, presumibile scena finale di un ciclo mariano. La parte celeste della composizione è offesa da una grande lacuna, largamente coincidente con la figura del Bambino. La parte terrena della composizione, delimitata da una ghirlanda di nuvole, appare ormai decapitata, nella sua parte superiore, da una lacuna che la attraversa orizzontalmente in corrispondenza del capo delle figure maggiori. In basso, è questo il dipinto maggiormente mutilato dall’impropria quota dell’attuale pavimento, maggiorata di circa ottanta centimetri rispetto al piano originale. Una piena interpretazione di questa scena potrebbe portare nuova linfa alla conoscenza dell’intero fabbricato, soprattutto per la probabile presenza delle figure dei committenti o donatori, una coppia signorile prostrata ai piedi del sacro evento: a sinistra un uomo (fig. 24) e a destra una donna (fig. 25).
Nonostante un “tassello testimone”, resta da chiarire la posizione stratigrafica di alcuni frammenti appartenenti a una differente redazione, forse persino coincidenti con la “sinopia” di un manufatto plastico sovrammesso. Inoltre, proprio in prossimità dello stesso “testimone”, nella fascia apicale del dipinto, è presente uno scalino che potrebbe rappresentare sia la linea di contatto di due differenti testi sia l’errata interpretazione operatoria dell’originaria comunione tra due giornate di un unico affresco.
Anche in questa arcata è evidente la dichiarata incompiutezza dell’ultimo intervento, e tra l’altro emerge:
- La presenza di microflora e di efflorescenze saline.
- La necessità di consistenti azioni sottrattive, soprattutto nella metà inferiore del dipinto.
- L’insufficienza o inadeguatezza, anche in termini conservativi, delle integrazioni plastiche in opera.
- La notevole sovrapposizione al dipinto dell’attuale pavimento.
LE SUPERFICI DELLA CONTROFACCIATA LUNETTATA
In entrambe le estremità laterali, il registro basamentale della Controfacciata lunettata mostra traccia muraria della base di un pilastro sporgente; si tratta di un carattere morfologico meglio rilevabile nella opposta parete presbiteriale, dove analoghi tronconi sono più integri e conservano la loro interessante finitura superficiale. L’architrave del portale appare fortemente manomessa, la tipologia costruttiva non esclude che in precedenza potesse avere natura lignea, carattere consueto in simili ambiti storici e culturali. La finestra del lunettone e il portale d’accesso, cioè entrambe le bucature di controfacciata, conservano tenacemente dei frammenti di scialbatura preparatoria a calce. La restante nuda parete è interrotta, nel lato sinistro, solo dalle tracce di una cornice, ultima testimonianza materiale di un ampio scomparto affrescato (fig. 26).
Nel lato destro la controfacciata custodisce l’unico suo brano pittorico superstite, pure gravemente mutilo e fortemente impoverito: un’elegante “Madonna di Costantinopoli” (fig. 27). Si tratta di un’iconografia, giunta dall’Adriatico con il massiccio esodo di cristiani seguito alla caduta di Costantinopoli del 1453, che evoca un mitico episodio costantinopolitano: Maria arresta miracolosamente un tentativo arabo di invasione della Metropoli con il fuoco, probabile riferimento al grande assedio guidato da Maslama nel 715-717 (Calia 2013). Nel medesimo riquadro mariano, in prossimità del “tassello testimone”, è presente una netta lacuna di profondità, di equivoca origine perché caratterizzata dall’eterogeneità dei suoi conci rispetto al relativo contesto murario.
LE CONCLUSIONI
Il recente recupero ha sottratto l’antica Cappella da sicura dissoluzione. A ogni modo, Sant’Aloja presenta un funzionamento ancora alterato in termini di contesto e di identità architettonica, a tal punto da approssimarsi a una condizione di rudere.
Per quanto il paragone possa sbigottire i non addetti ai lavori, “il restaurare”, di là dalle qualità in gioco e dagli esiti, presenta un’affinità con le prestazioni di una “stazione di servizio”, che vanno da un rifornimento minimo, fino al pieno, magari corredato da un completo check-up e conseguenti messe a punto: in entrambi i servizi, a meno che non ci si trovi in panne, quanto richiesto è largamente condizionato dalle disponibilità economica e di tempo del committente.
I possibili provvedimenti in campo di restauro spaziano da una minima attività d’urgenza atta a evitare danni notevoli all’opera, o un’attività strettamente manutentiva, o conservativa, fino al “restauro” propriamente detto che, partendo da un progetto multidisciplinare e globale, giunga dovunque con accuratezza. È fondamentale sapere che un buon progetto di restauro, multidisciplinare e onnicomprensivo, è suscettibile, in un secondo tempo e con diligenza, di suddivisione in lotti esecutivi.
Sarebbe ancora possibile, senza cadere in un anacronistico restauro stilistico, recuperare parte del naturale contesto dell’affascinante e prezioso sito di Sant’Aloja, nonché ripristinare, in termini non falsificatori, un migliore funzionamento della sua forma e del suo apparato iconografico.
Alcuni dei temi irrinunciabili, che un progetto multidisciplinare e globale dovrebbe svolgere, per un “restauro” di Sant’Aloja, procedendo dall’insieme verso il particolare, sono:
- Riqualificazione paesaggistica e viaria dell’intero sito che è naturalmente caratterizzato proprio dalla presenza dell’antico edificio religioso.
- Ripristino di condizioni adeguate del sagrato e dell’area che circonda la Cappella.
- Approfondimenti e riconversione del Fabbricato rurale contiguo alla Cappella.
- Approfondimenti e riqualificazione di eventuali spazi ipogei della Cappella o del Fabbricato rurale contiguo.
- Copertura.
- Morfologia degli esterni, scala di accesso, timpano, ecc.
- Trattamento superficiale degli esterni.
- Recupero dell’originale piano calpestio interno, con riqualificazione dell’altare maggiore e della fascia basamentale delle pareti.
- Restauro delle superfici interne completamente nude.
- Restauro degli affreschi lacunosi o frammentari.
Nella dinamica progettuale di un restauro, l’azione su alcuni elementi o particolari costituirebbe in sé la ragione e l’ispirazione di molteplici altre azioni, anche d’insieme. A esempio, il ripristino dell’originale piano di calpestio interno avrebbe immediate ripercussioni a catena: sulla facciata, sull’attuale accesso, sulla lettura della morfologia e degli affreschi interni, sul rapporto della natata con il sagrato, con i possibili spazi ipogei, con i probabili collegamenti del fabbricato rurale, con l’insieme viario, e via approfondendo. Analogamente, un trattamento delle superfici murali lacunose e con lacerti pittorici, indirizzato a una maggiore leggibilità di quanto pervenuto e attenuazione di quanto sia andato perduto, oggi preponderante, costituirebbe anche la ragione e l’ispirazione di una reimpaginazione esterna, meno rustica dell’attuale, della Cappella e di tutti i suoi contorni.
Tutto ciò consegue dalla premessa del mio esimio invitante: «…la pubblicazione… sarà utile a estendere la conoscenza delle opere pittoriche e con ciò ad assicurare alle stesse una più ampia conservazione e valorizzazione.» (Ortese 2018, p. 1).
Note
[1] Storica regione francese attorno a Limoges.
[2] Regnante nel Meridione d’Italia e originaria dalla contea francese di Angiò.
[3] Generosa indicazione di Filippo G. Cerfeda, valente storico-archivista salentino, che ha attestato la presenza di tale dizione popolare in vari documenti d’archivio datati tra la metà del XVI e il XVIII secolo.
[4] Storico dell’arte (Lecce 1971 – Milano 2019).
[5] RUDERIZZARE – Termine disciplinare del restauro. Atto o effetto di un’azione tendente a spingere un’opera, di là dalle sue dimensioni e dai suoi funzionamenti (anche estetici), al carattere di rudere, cioè a un’intrinseca incompiutezza e frammentarietà (nonché frequente fragilità materiale e funzionale). Può trattarsi di processi volontari e no, consapevoli e no.
[6] Vedi anche: Costantini 2018, pp. 65-66.
[7] Un restauro conservativo, concluso con una solenne “Riapertura al culto” nella tarda mattina del 22/11/2015. L’intervento fu finanziato dalla locale “Parrocchia Visitazione di Maria Vergine”, con cofinanziamento del “Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale”. Una targa, infissa sul lato sud della muratura esterna, recita: «Repubblica Italiana /Regione Puglia /Unione Europea – LEADRE+ Misura 323 Tutela e riqualificazione del patrimonio rurale». Riporto, qui di seguito, un elenco dei principali connotati documentari dell’Intervento che, assieme al corposo progetto, è stato possibile consultare:
a) 1° Deposito del Progetto, presso MBAC-SBAP-LE, Prot. 06/05/2013.
b) Autorizzazione MIBAC-SBSAE d. Puglia in Bari, Prot. 20/09/2013.
c) Autorizzazione MBAC-SBAP-LE, Prot. 28/11/2013.
d) Autorizzazione MIBAC- Beni Archeologici d. Puglia in Taranto, Prot. 10/02/2014.
e) A.L. (presumibilmente relativa alla Cappella), deposito in Uff. Tecnico Comunale, Prot. 24/06/2015.
[8] Vedi: Bozza et al. 2013.
[9] Vedi: Bozza et al. 2013, Allegato 02.
[10] Vedi anche: Ortese 2012, pp. 77-81, 119.
[11] Spesso denominato “Editto di Saint Cloud”.
[12] RBC, acronimo di “restauratore di beni culturali”, titolo professionale regolamentato.
[13] Voglio precisare che una buona parte delle asserzioni di questo articolo in tema iconografico e storico-artistico scaturiscono da lucide osservazioni di Sergio Ortese nei sopralluoghi congiunti, oltreché dal nostro sistematico e piacevole scambio interdisciplinare.
[14] Basti considerare che i saggi di tutti i cinque regolari volumi della collana di Ortese vedono la costante presenza di due soli autori: il loro ideatore e curatore e me stesso, proprio in quanto RBC di sua fiducia.
[15] TASSELLO TESTIMONE (o Tassello di riscontro) – Termine disciplinare del restauro. Dal lat. tessella, dim. di tessĕra. Il “tassello” nel disvelamento e nel restauro di un’opera è sempre una determinata e circoscritta superficie entro cui il testo sia stato operato o no in modo specifico. Nel “testimone” la superficie non è stata affatto operata, allo scopo di conservare una testimonianza materiale, o riscontro, dello stato precedente all’intervento di disvelamento o di restauro.
[16] Anno in cui fu adottato come proprio sigillo da Ignazio di Loyola.
Bibliografia
Bozza R., Alicino S., Arthur P., Stefanelli E.M. 2013, Progetto Esecutivo di Valorizzazione e Restauro Conservativo Architettonico e del Patrimonio Iconografico Murale della Chiesa detta “di Sant’Aloya” (Sec. XV-XVI) in Cerfignano (Comune di Santa Cesarea Terme – Provincia di Lecce), Arcidiocesi di Otranto˗Parrocchia “Visitazione di Maria Vergine” in Cerfignano. Febbraio 2013, n.14 fascicoli.
Calia A. 2013, Costantino nelle fonti ottomane dell’età di Mehmed II. Enciclopedia Costantiniana Treccani 2013. https://www.treccani.it/enciclopedia/costantino-e-costantinopoli-sotto-mehmed-ii-l-eredita-costantiniana-dopo-la-conquista-ottomana-di-costantinopoli_%28Enciclopedia-Costantiniana%29/ (visitato il 11/11/2021).
Costantini G.M. 2018, Breve Analisi delle Superfici, in Castelfranchi M.F., Ortese S. (a cura di). Muro Leccese. Chiesa di Santa Marina, Il Più Antico Ciclo Nicolaiano del Mondo Bizantino, Galatina (LE).
Matteo (Vangelo secondo…), Il Discorso sulla Comunità dei Discepoli – Chi è più grande nel regno? Testo CEI, 2008, https://www.bibbiaedu.it/CEI2008/nt/Mt/18/ (visitato il 11/11/2021).
Ortese S. (a cura di) 2012, ICS, Sannicola, Abbazia di San Mauro, Gli affreschi sulla serra dell’Altolido presso Gallipoli, Galatina (LE), Lupo Editore, Dicembre 2012.
Ortese S. 2018, Pubblicazione Chiesa di Santa Loja in Cerfignano. Proposta sommario, Lecce, 02/12/2018.
Stendahl 1960, Roma, Napoli e Firenze, in Terenzi A. (a cura di), Milano-Firenze.
Giuseppe Maria COSTANTINI, restauratore di beni culturali, dal 1983 esercita attività libero professionale operatoria e no, con un’esperienza a livello nazionale di oltre trecento interventi documentati. Oltre a un’Alta Formazione, presso la Scuola Regionale per la Valorizzazione dei Beni Culturali di Botticino-Brescia, in Restauro dei Dipinti Mobili e Murali, è specializzato in Scienze della conservazione nonché in restauro delle opere lapidee e dei dipinti contemporanei. Sistematicamente attivo anche nella ricerca disciplinare, dal 1985 ha prodotto vari articoli scientifici e dal 1993 è periodicamente impegnato nelle docenze a contratto.
info e contatti: costantinistudio.com