Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (I parte)

di Nazareno Valente

 

«Brindisi è inoltre fornita di un buon porto: entro un’unica imboccatura sono racchiusi diversi seni tutti dalla forma sinuosa che li pone perfettamente al riparo dai flutti e che li fa rassomigliare alle corna d’un cervo» («Καὶ εὐλίμενον δὲ μᾶλλον τὸ Βρεντέσιον: ἑνὶ γὰρ στόματι πολλοὶ κλείονται λιμένες ἄκλυστοι, κόλπων ἀπολαμβανομένων ἐντός, ὥστ᾽ ἐοικέναι κέρασιν ἐλάφου τὸ σχῆμα»)1.

Questa la più antica descrizione pervenutaci del porto di Brindisi dovuta a Strabone, uno storico e geografo vissuto tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., che pone in evidenza come lo scalo consentisse molteplici approdi, quasi fosse costituito da più porti. In particolare il geografo di Amasea rappresenta quello che per noi è il porto interno, vale a dire solo una parte dell’attuale complesso portuale brindisino, costituito com’è noto anche dal porto medio e dal porto esterno. In antichità il bacino che contiene i moderni porti medio ed esterno non era considerato un porto vero e proprio ma dai Romani una «statio» e da parte dei Greci un «ὅρμος» (ormos), perché consentiva unicamente di attraccare, mentre una struttura portuale — identificata rispettivamente con i termini di «portus» e di «λιμήν» (limén) — doveva permettere, oltre al semplice ormeggio, pure un’adeguata protezione dai venti e dai flutti, come riportato nella caratterizzazione di Strabone che utilizza appunto nel passo citato il vocabolo «λιμήν». A quei tempi, quando si parlava del porto di brindisi s’intendeva quindi il solo porto interno; il porto medio e quello esterno facevano invece parte della cosiddetta rada.

Che Strabone si riferisca al porto interno è chiarito anche da quell’unica imboccatura che ne consente l’accesso2 e che racchiudeva le varie insenature protette dai venti e dal mare aperto, allora composte dagli attuali seni di Ponente e di Levante e, con ogni probabilità, anche dal canale navigabile che scorreva nello spazio ora occupato da corso Garibaldi e dagli inizi di corso Roma.

I Greci caratterizzavano un porto di prestigio, in cui le navi trovavano un sicuro rifugio, con il termine «εὐλίμενος» (eulìmenos, buon porto), che è appunto la voce usata da Strabone per caratterizzare il porto brindisino che rimase di alto livello per secoli, almeno sino a “Lo Compasso de navegare”, un portolano del Duecento, ritenuto il più antico tra quelli conosciuti, dove viene presentato come «bom porto», per evidenziarne gli indubbi pregi ancora posseduti. Tuttavia, finiti i tempi in cui i grandi imperi (romano e bizantino) e le grandi monarchie (normanna, sveva, angioina, aragonese) presidiavano le rotte dell’Adriatico e ne proteggevano le coste, arrivarono periodi bui per Brindisi. Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento s’incomincia ad aver timore ad allontanarsi dalla costa. Ed i motivi sono presto detti, ormai l’Adriatico è uno spazio governato da altre nazioni e «perciò i marinai, pescatori e legni, che usano in questo mare, escono quasi tutti dal dominio Veneziano»3 e, soprattutto, essendo Terra d’Otranto, la provincia in cui è inserita Brindisi, quella più prossima «allo stato del Turco, sta in maggior pericolo di ricever danno da lui che tutto il restante Regno»4. Non a caso le sue coste sono disseminate di fortezze e di torri; protette stabilmente da ben 2.543 fanti locali e presidiate «in tempo di sospizione di armata Turchesca» da armigeri reali5. Il mare non è più una finestra aperta sul mondo, ma un varco da tenere sbarrato perché da lì possono arrivare terrore e morte.

 

Brindisi, pertanto, non è più la porta d’accesso al ricco Oriente, quanto piuttosto un possibile cavallo di Troia di cui il «Saracino» potrà nella bisogna avvalersi per compiere le sue scorrerie. Il suo porto non è più una risorsa, ma un pericolo costante, e va pertanto interdetto. Così, sebbene ci siano già il Castello Alfonsino e Forte a Mare a vigilare sugli ingressi, a scanso di equivoci, si gettano sassi e terra nel canale di comunicazione con il porto interno perché sia «dal terreno in alcuna parte diminuito» e non consenta così l’ingresso delle grosse navi6.

Proprio a questa difesa passiva, seguita da una totale incuria, si devono i motivi principali del dilagare dell’ostruzione della foce del canale di comunicazione tra porto e rada che resero i due seni interni di fatto interdetti alla navigazione. Limitazione per lo scalo brindisino destinata a perdurare sino alla seconda metà dell’Ottocento tanto da farla diventare una caratteristica tipica della città, di cui si ricordava appunto il porto interno «ciccato» o «guasto».

Il mancato rinnovo delle acque del bacino interno creava in più degli stagni maleodoranti e un conseguente ambiente insalubre alimentato pure dalle paludi che, per colpa del mancato controllo del territorio e dei frequenti terremoti che ne avevano sconvolto l’assetto idrico, si andavano dilatando alle estremità dei seni dalle parti di Ponte Grande a ponente e di Ponte Piccolo a levante, e per l’appunto chiamate palude di Ponte Grande e palude di Ponte Piccolo o di Porta Lecce. Anche in questo caso, erano finiti i tempi in cui i Romani compivano una manutenzione maniacale dei corsi d’acqua. Quando i lavori di pulitura di porti e fiumi venivano fatti a regola d’arte, in modo che alvei e rive fossero resi liberi da qualsiasi pianta che potesse costituire causa d’impedimento o di pericolo per le navi che vi transitavano («ne quid aut morae aut periculi navibus in ea virgulta incidentibus fieret»7). Nell’ottica poi di «attenuare i danni di un’aria malsana» («quibus mitigetur pestifera lues»8), analoga attenzione si dava alla difesa dal paludismo ed al controllo delle acque reflue facendovi fronte con un corretto mantenimento e con regolari opere di bonifica.

Manutenzione e gestione del territorio che invece vennero a mancare con la caduta dell’impero romano con conseguente impaludamento dei canali — il Cillarese e il Palmarini-Patri, nelle vecchie mappe indicati rispettivamente con i nomi di Patrica e di Masina — che si riversavano nelle acque del porto interno nelle anse estreme di ponente e di levante. Un’altra palude, detta delle Torrette, s’era formata nella curva di entrata  del canale, dove si depositavano le alghe e vi stagnavano le acque piovane trattenute dal terriccio e dai cespugli che, soprattutto d’estate, producevano «orribile fetore»9. In più di fronte, dalle parti del molo di Porta Reale, si riversavano in mare gli scoli che confluivano nella depressione posta tra le collinette a nord e  a sud della città (di fatto l’attuale corso Garibaldi). Questo avvallamento che, come detto, in antichità era stato un terzo piccolo ramo del porto interno, diventava con l’aiuto dell’acqua piovana esso stesso un veicolo costante di trasporto di detriti, privo com’era di pavimentazione. Anche qui l’odore era così acre che la zona, pur centrale, era sgombra di abitazioni ed ospitava solo sparuti negozi collegati con le attività portuali. In definitiva contribuivano all’interrimento, alle paludi ed alla conseguente aria insalubre, balzane strategia di difesa, cause del tutto naturali ed una marcata inefficienza di fondo nella manutenzione e nella gestione del territorio.

Con il tempo i problemi si andarono accentuando, sicché i servizi portuali furono spostati prevalentemente sulla costa Guacina e nei presi di Forte a Mare, nell’attuale porto medio, e la rada incominciò ad essere chiamata «porto esteriore» mentre il porto storico, ormai ridotto alla semplice navigazione di barchette, assunse quello di «porto interiore» ed in molti portolani neppure più considerato un porto. All’arrivo della dinastia Borbone, la foce era più melma che mare ed i seni interni erano in una situazione precaria per altro non molto dissimile da tutti gli altri scali meridionali. C’era però un ritrovato interesse per i porti, diretta conseguenza questa della ripresa economica d’inizio Settecento che aveva impresso nuovi stimoli pure alle attività commerciali marittime. Non a caso sin dal 1734, anno di insediamento dell’amministrazione borbonica, il nuovo governo puntò subito a rinnovare le strutture portuali per adeguarle alle nuove esigenze.

Uno dei primi atti riguardanti Brindisi fu la decisione di costruirvi un lazzaretto — collocato a nord sull’isola di Sant’Andrea — che rendeva per certi versi evidente l’intenzione di Carlo di Borbone di riportare la città nella sua antica configurazione di porta per l’Oriente. Infatti la presenza del lazzaretto era allora condizione indispensabile per divenire uno dei possibili scali nei viaggi diretti a levante. Con ogni probabilità, in quell’occasione, la città si avvalse per la prima volta di una novità introdotta in campo finanziario dal regime borbonico. Riguardo alle spese concernenti le infrastrutture portuali, le comunità locali potevano infatti concorrere sia con propri fondi, sia istituendo delle apposite casse con fondi provenienti dalle rendite comunali, dai dazi e dalle gabelle derivanti dall’abolizione delle franchigie ecclesiastiche. E questo rendeva più agevole la possibilità di reperire liquidità per l’esecuzione di lavori d’interesse locale, senza intaccare quelli a bilancio. In pratica era un modo come un altro per la città di autotassarsi, qualora l’avesse ritenuto funzionale ai propri scopi.

Si iniziò pure nel concreto a pensare al restauro del porto. Ed è proprio di quegli anni un’accorata lettera dell’arcivescovo di Brindisi, Domenico Rovegno, indirizzata nel 1762 al re Ferdinando IV, che dà il segno della dolorosa condizione in cui versava la città di Brindisi.

Su ordine dei medici, l’arcivescovo si trova in convalescenza a Napoli, tuttavia il suo desiderio è di ritornare dal suo  «gregge» e per questo comunica che sta per ripartire per Brindisi con la consapevolezza, però, di «andare incontro alla morte»10. Il motivo della sua malattia «altro non è stato, che l’aere infetto della stessa città» che, «per la divisata cagione», è destinata alla rovina «se dalla M.V. non saranno presi gli opportuni rimedi»11. Gli abitanti sono infatti «oppressi da pericolose infermità, ed atterriti dalle mortalità continue, rilevandosi chiaramente da’ libri parrocchiali, che il numero dei morti in ogni anno è doppio di quello dei nati»12. E sarebbe già spopolata da tempo se, «mantenendo la città de’ singolari privilegi da passati sovrani di questo regno», non avesse potuto accogliere abitanti provenienti da altre zone13.

Il privilegio citato dall’arcivescovo riguardava l’esonero da qualunque gravame o vincolo feudale accordato a chi risiedeva a Brindisi per almeno cinque anni. Era questo il marchingegno utilizzato da secoli per mantenere in vita le zone depresse: piuttosto che intervenire sulla causa, si  concedevano bonus che, come al solito, erano un modo come un altro per rendersi graditi e lasciare però le cose al punto di partenza.

Per fortuna i tempi erano maturi per tentare di riportare a nuova vita il porto interno, e a non lasciarlo più ostaggio della poltiglia e degli odori nauseabondi. Anche se si dovette aspettare un’altra decina d’anni sopratutto a causa della grave crisi economica innescata dalla carestia del 1764. Era così il luglio del 1775 quando l’ingegnere Andrea Pigonati, direttore del Genio militare incaricato di progettare la riapertura del porto interiore, mise per la prima volta piede sul suolo brindisino. Fu il primo dei tanti tentativi non riusciti compiuti dai Borbone per risolvere i problemi d’una foce che, non appena ripulita, tornava senza scampo ad insabbiarsi nuovamente ma che, rispetto a tutti i successivi fallimenti, ha ottenuto gli onori della cronaca per il fatto che  sui lavori compiuti si sono addensate le spietate ed arbitrarie critiche degli storici e dei cronisti locali.

In sintesi, il progetto14 con cui l’ingegnere siracusano cercò di ridare funzionalità alla struttura portuale di Brindisi prevedeva la realizzazione di un canale, che mettesse in comunicazione il porto interiore col porto esteriore, e la bonifica delle principali paludi, vale a dire quella delle Torrette, che era nei pressi della foce del canale, e di quella di Porta Lecce o di Ponte Piccolo, che si trovava all’estremità nel seno di Levante. In questo modo Pigonati riteneva di rendere navigabile il porto interno e di risanare le condizioni ambientali della città. Quindi tutta una serie di lavori che l’ingegnere siracusano condusse con molto zelo tanto che, in poco più di due anni d’intensa attività, riuscì a far scavare un nuovo canale di collegamento (di fatto quello poi a lui intitolato); a colmare le principali paludi; a risanare il molo di porta Reale e, quel che più conta, ad aprire il cuore dei Brindisini alla speranza. Speranze che, come ben sappiamo, andarono ben presto deluse, ma, a differenza di quanto narrato nelle ricostruzioni approssimative di buona parte della cronachistica locale, non tutta la colpa dei successivi guasti è da ascriversi all’ingegnere borbonico, verificato che nei fatti concorse in maniera non banale la mancata manutenzione ordinaria da parte delle autorità locali15. Comunque sia, dopo nemmeno un decennio, il porto interno ripiombò nei suoi soliti problemi.

Il primo a lanciare specifiche accuse sull’operato di Pigonati fu Ferrando Ascoli che, riprendendo una critica fatta dall’ingegnere Tironi quando peraltro era già ritenuta priva di ogni fondamento, affermava in maniera categorica che Pigonati aveva commesso un errore colossale nell’orientare l’imboccatura del canale da lui scavato verso greco-levante, mentre avrebbe dovuto disporla nella direzione di greco «per metterla al riparo da ogni traversia e da ogni interrimento»16. Il che era in parte corretto per quanto riguarda le traversie, ma del tutto fantasioso riguardo all’interrimento che si era nel frattempo appurato non dipendeva dalla direzione del canale ma da cause del tutto naturali. Tuttavia, poiché questa storiella, diffusasi acriticamente da un cronista all’altro, passa ancora per buona, è tuttora convinzione comune che Ascoli avesse tutte le ragione del mondo ad incolpare Pigonati d’aver sbagliato i calcoli e che il canale s’insabbiasse proprio a causa dell’orientamento che lui gli aveva impresso. Per questo il buon Pigonati passa ancora adesso per un povero sprovveduto, mentre era un tecnico che gli stessi Brindisini, che avevano avuto modo di conoscerlo, apprezzavano soprattutto per la sua onestà17.

 

Nella realtà, era l’approccio al problema ad essere sbagliato, e quantomeno l’ingegnere siracusano, essendo il primo ad averlo affrontato, non poté contare su esperienze pregresse, a differenza di tutti gli altri che, sino a quando nel 1861 non si trovò la soluzione, perseverarono nel commettere gli stessi errori e non ottennero certo risultati migliori dei suoi. Ciò nonostante, Pigonati viene sempre presentato come l’unico responsabile di ottant’anni di insuccessi che, invece, accomunarono molti tecnici borbonici e non. Sarà magari stato per questa consuetudine a crederlo capace dei più banali errori che non c’è nefandezza, perpetrata in quel torno di tempo, che non gli venga inevitabilmente addossata.

Oltre all’errore della direzione del canale, di cui il lettore interessato potrà trovare tutti i dettagli in un mio precedente intervento18, Pigonati è accusato della demolizione di antiche costruzioni e di disastri ambientali.

Per quanto concerne i beni architettonici, in quegli anni sparirono infatti dallo scenario cittadino due antiche costruzioni: Porta Reale, che si trovava non molto lontana dai Giardinetti, e la chiesa di Santa Maria de Parvo ponte, che era dalle parti di Porta Lecce. Ebbene i più raccontano che Pigonati, avendo bisogno di pietre per mandare avanti i suoi lavori, se l’era procurate demolendo entrambi i monumenti. Non solo, sempre per lo stesso motivo, si dice avesse fatto abbattere una delle due torrette angioine, alle cui fondamenta si attribuisce la fantasiosa origine della secca, chiamata anch’essa angioina, che solo le mine riuscirono in seguito a distruggere; in questo caso, oltre a depauperare la città d’un bene artistico, Pigonati avrebbe causato anche un dissesto ambientale. Di malefatta in malefatta qualcuno è stato capace di narrare che persino ponte Grande, ancora in piedi quando l’ingegnere faceva da decenni parte del mondo dei più, fosse stato da lui demolito, quasi che anche da morto vagasse per le strade di Brindisi alla ricerca di pietre per il suo canale. Il che rientra nel nostro radicato vezzo di trovare un capro espiatorio a tutti i costi: capitò lo scorso secolo negli anni Cinquanta per la demolizione del parco della Rimembranza e del teatro Verdi (colpevole il “ciclone” che, in effetti, arrivò solo a proposito); negli anni Sessanta per gli scompensi edilizi e la mancata edificazione del nuovo teatro (colpevole un costruttore che i sussurri malevoli dicono abbia goduto di presunti privilegi per aver portato la locale squadra di calcio in serie B); in maniera simile, a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, l’Attila di turno fu appunto Pigonati. Eppure ci vorrà poco per dimostrare tutte queste accuse destituite di fondamento e scagionare così Pigonati dall’aver compiuto i disastri di cui lo si biasima senza ragione.

Iniziamo da porta Reale che, in effetti, scomparve in modo misterioso dallo scenario del porto brindisino insieme al suo molo proprio in quel periodo, tuttavia, i dati in nostro possesso discolpano del tutto l’ingegnere dell’amministrazione borbonica. L’ultima volta che un documento cita la famosa porta è nel riepilogo contenuto nella “Cronaca dei Sindaci di Brindisi” sui lavori fatti da Pigonati specificatamente su quelli realizzati sul canale e sui suoi argini, a conclusione di tutto l’intervento di ripristino del porto. Viene infatti riportato che i lavori, terminati con la posa dell’ultima pietra il 26 novembre 1778, erano stati iniziati sui moli del canale in maggio dello stesso anno con materiale (pietre) ricavato dalle case «della Corte, vicino la porta Reale»19. Quindi non solo qui è precisato dove Pigonati si era rifornito delle pietre necessarie «per il fabbrico del gran canale»20 ma è anche espressamente indicato che porta Reale era ancora bella e in piedi alla fine dei suoi lavori.

 

D’altra parte c’è il famoso dipinto di Jakob Philipp Hackert, “Baja e porto di Brindisi”del 1789 (figura n. 3), a confermarlo ritraendo il molo di porta Reale in piena attività, mentre le botti di olio vengono caricate sulle barche per poi essere trasportate sino alla Cala delle Navi nel porto esteriore dov’erano infine trasbordate sui bastimenti. La porta era così ancora in piedi ad oltre dieci anni dal compimento dei lavori di Pigonati. Da quel momento in poi della porta Reale non si ha più notizia ed è dalla mappa, ”Pianta della città, porto e rada di Brindisi” (figura n. 4), disegnata nel 1811 da Vincenzo Tironi, che il monumento ed il suo molo non vengono più citati. La demolizione avviene quindi tra il 1879 ed il 1811. Quando e perché, è difficile dirlo con precisione, non essendoci riscontri oggettivi. È però ugualmente possibile formulare un’ipotesi del tutto verosimile e coerente con il successivo svolgimento dei fatti.

 

Il tentativo di Pigonati non aveva sortito gli effetti sperati e già circa dieci anni dopo, mentre Hackert lavorava al dipinto, se ne  avviò uno nuovo di cui fu incaricato l’ingegnere Carlo Pollio. Ebbene, tra le opere realizzate da Pollio ci furono, nei pressi di porta Reale, la costruzione «della deputazione di sanità, che volle chiamare lazzaretto»; il riadattamento della strada del canale di scolo della Mena, poi rialzata sul livello delle acque del porto e che diede origine alla strada Carolina, poi divenuta corso Garibaldi, e l’edificazione d’un tratto di banchina «a cominciare dalla Sanità o lazzaretto verso ponte Grande per una lunghezza di canne 250»21. Con ogni probabilità il rialzamento del piano stradale della Mena, congiunto alla banchina costruita dalla Sanità verso ponente per più di 500 metri, dovette costare il sacrificio della porta Reale che si trovava appunto lungo le direttrici dei lavori. In merito, non ho potuto trovare documenti che l’attestino, tuttavia è questa l’ipotesi più plausibile, visto che è certo che porta Reale scompare tra il ritratto di Hackert e la mappa di Tironi e che, in quel ventennio, le uniche opere di rilievo effettuate su quella zona del porto sono quelle realizzate dal Pollio.

Secondo la cronachistica bene informata, nel corso del risanamento della palude che si trovava nell’estremo ramo di levante, sempre per penuria di materiale da costruzione, Pigonati abbatté poi attorno al 1777 la pregevole chiesa di Santa Maria de Parvo ponte. Questa  chiesa, che si trovava sulla strada che da porta Lecce conduceva fuori le mura della città a quello che era appunto il Ponte Piccolo (Parvo ponte), era stata edificata nel XII secolo grazie alle sovvenzioni del famoso ammiraglio Margarito da Brindisi. Già «diruta» ai tempi dei lavori dell’ingegnere siracusano è citata anch’essa nella “Cronaca dei Sindaci di Brindisi” quando si descrivono gli effetti benefici dei lavori di sanificazione compiuti nella zona dal «direttore del porto, d. Andrea Pigonati… fuori la porta di Lecce, e la chiesa nominata del Ponte, avendone avuto grande utile per l’aria la città»22. Quindi anche in questo caso è certificato che la struttura esisteva ancora, una volta colmata la palude che l’ospitava. In aggiunta la chiesa compare, sempre “diruta” circa trent’anni dopo nella mappa del Tironi (figura n. 5) e quindi non è stata certo smantellata da Pigonati.

 

Con ogni probabilità, la chiesa di Santa Maria de Parvo ponte fu demolita un poco alla volta, come avveniva a quei tempi per tutti gli edifici in rovina. Si deve infatti considerare che allora era usuale adoperare nelle costruzioni materiali di risulta, e che chi ne aveva bisogno faceva man bassa di pietre dalle costruzioni abbandonate perché in disfacimento.

 

Allo stesso modo, Pigonati è del tutto incolpevole anche per la distruzione di ponte Grande, non fosse altro perché in quella zona non ebbe neppure modo di operare. D’altra parte Ponte Grande risulta ancora in funzione nella mappa del Tironi e nella cartografia anche successiva, quantomeno sino alla carta di Benedetto Marzolla (figura n. 6) — redatta forse nei primi anni Quaranta dell’Ottocento — e rimase con ogni probabilità in piedi finché usato per superare la vallata omonima. Quando le acque e la palude di quella zona furono canalizzate (all’incirca tra il 1858 ed il 1862) e fu successivamente creato un nuovo invaso, non servendo più, il ponte fu con ogni probabilità demolito. Difficile poter dire con esattezza però quando e ad opera di chi. Dubito per altro che la sua struttura fosse, come taluni dicono, di epoca romana. In ogni caso sopravvisse molti decenni all’ingegnere siracusano.

Ai tempi dell’intervento di Pigonati, sulle opposte sponde del vecchio canale Angioino, si trovavano i resti delle due torrette costruite dagli Angioini nel lontano 1279 per impedire che la città fosse attaccata con truppe da sbarco dalla parte del mare. La più grande, fabbricata sulla riva di ponente, era originariamente collegata all’altra torretta con una catena che, in caso di bisogno, un congegno tendeva in modo da precludere l’accesso al porto interno. Con il passare del tempo simili metodi di difesa divennero anacronistici e le due torri subirono successivi riadattamenti, tant’è che Pigonati, all’iniziò dei suoi lavori, attesta ancora l’esistenza della maggiore — risistemata però per alloggiare le guardie della dogana — ed i soli «avanzi»23 di quella edificata a levante. Il dipinto di Hackert evidenzia l’integrità della torretta adattata a dogana e, sulla riva opposta, la presenza dei resti dell’altra torretta, ben un decennio dopo la conclusione delle opere del Pigonati. Questa testimonianza grafica può quindi essere usata per confutare una surreale ipotesi avanzata da Ferrando Ascoli, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento.

Afferma appunto l’Ascoli che Pigonati, nel fabbricare il molo a ponente del canale, trovatosi in difficoltà per la penuria di materiale, «impiegò le pietre estratte dalla diruta casa della Torretta fabbricata dagli Angioini»24. E poi prosegue: «Di questa torretta rimasero le fondamenta che aperto il canale, furono intieramente ricoperte dalle acque, formarono col tempo una secca abbastanza estesa, chiamata secca Angioina»25. In definitiva, a detta dell’Ascoli, la secca, che sarebbe divenuta in effetti fonte di gravi alterazioni per l’agibilità del porto brindisino, era diretta conseguenza di uno dei tanti errori compiuti dal Pigonati, a cui doveva quindi addebitarsi anche questo ulteriore guasto.

Già lo stesso interessato aveva precisato d’aver sopperito alla mancanza di materiale con il «cavar pietre dall’isoletta»26, vale a dire dall’isola Angioina, ma le affermazioni dell’Ascoli sono come visto palesemente smentite pure dal dipinto di Hackert. La cosa ancor più curiosa è che tutti i successivi autori, ritenendo la supposizione dell’Ascoli credibile, l’hanno propagata sino a farla passare per una delle tante verità incontrovertibili.

Eppure, dovrebbe essere noto agli addetti ai lavori che il canale Angioino fu preservato da Pigonati non per il transito ma al solo fine di agevolare lo scorrimento delle acque e non sconvolgere il naturale flusso delle correnti. In pratica era stato solo ripulito ed aveva quindi un fondale basso per altro intervallato, dove cambiava direzione, da un rialto (n. 6, figura 2) che lo rendeva impraticabile anche alle barchette. Se poi si tiene conto che era il luogo più soggetto ad insabbiarsi, gli allagamenti erano in effetti un evento quasi del tutto impossibile. In ogni caso, il dipinto di Hackert smentirebbe già di per sé le supposizioni fantasiose dell’Ascoli ma, in merito, ancora più eloquente appare la documentazione disponibile.

 

La cartografia della seconda metà del XIX secolo ha infatti rappresentato in maniera chiara la situazione che s’era creata nel porto brindisino ed è pertanto sufficiente esaminare una qualsiasi pianta dell’epoca per ricavare che la secca Angioina, oltre ad essere molto estesa, si trovava proprio nel punto in cui sino a poco tempo prima era posizionata l’isola Angioina ed i suoi estesi bassi fondali (n. 7 della mappa di Tironi). È quanto emerge in tutta la sua evidenza in un particolare del “Piano generale del porto di Brindisi” del 1866 (figura n. 7): la secca ha due lati ampi più di cento metri ciascuno ed è disegnata proprio dove una volta c’era l’isoletta omonima. Appare a questo punto ovvio che le fondamenta di una torretta alta pochi metri non avrebbero mai potuto generare una secca di simile sviluppo, la cui origine era molto più semplicemente dovuta ai lavori per l’abbassamento dell’isola Angioina iniziati formalmente nel 184227 e conclusisi ben oltre il 1860. È infatti nelle mappe di quegli anni che nello scenario del porto brindisino la secca incominciò a prendere il posto dell’isoletta. Non fu quindi la mania demolitrice del Pigonati a crearla, per il semplice motivo che questa preesisteva, come si evidenzia pure dal disegno di Tironi, e fu in seguito ampliata dal «profondamento dell’isola Angioina», come si desume con precisione da una relazione di metà Ottocento28. Scavata quindi sino a restare poco al di sotto della superficie del mare, l’isola Angioina ed i bassi fondali vicini non potevano che trasformarsi in secca. Con buona pace della bizzarra versione dell’Ascoli che, anche in tempi recenti, trova numerose adesioni.

(1 – continua)

 

 

 

 

 

 

 

Note

1 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 6.

2 Sino ad i lavori iniziati tra il 1863 ed il 1864, la rada aveva tre possibili ingressi: la Bocca di Puglia, spazio ora occupato dalla diga che congiunge la cala Materdomini all’isola di Sant’Andrea; lo spazio tra Forte a Mare e le Pedagne e il passaggio dei Trapanelli, anch’esso ora occupato da una diga.

3 C. Porzio, Relazione del regno di Napoli al marchese di Mondesciar, viceré di Napoli, tra il 1577 e 1579,  in Collezione di opere inedite o rare di storia napoletana, Officina tipografica, Napoli 1839,  pp. 17 e 18.

4 Ibidem, p. 18.

5 Ibidem, p. 19.

6 Ibidem, p. 19.

7 Gellio (II secolo d.C), Notti attiche, XI 17.

8 Columella (I secolo d.C), Res Rustica, I 4.

9 A. Pigonati, Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il Regno di Ferdinando IV, Michele Morelli, Napoli 1781, p. 12.

10  D. Rovegno, Rappresentanza dell’Arcivescovo di Brindisi al Re per l’apertura del porto, Manoscritto ms_L1, Miscellanearum Tomus I, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. de Leo”, Brindisi, 193v.

11 Ibidem, 193r.

12 Ibidem, 194r.

13 Ibidem.

14 N. Valente, Quando Pigonati scavò il canale nel porto di Brindisi, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 254, pp. 36-39.

15 N. Valente, Il porto di Brindisi: la favola di come il canale andava orientato, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 255, pp. 30 e 31.

16 F. Ascoli, La storia di Brindisi, Forni editore, Sala Bolognese 1981, p. 371.

17 Anonimo, Sulle opere del porto di Brindisi eseguite sotto la direzione del tenente colonnello Albino Mayo, Brindisi s.d. In questo pamphlet dell’Ottocento, redatto da Brindisini inviperiti contro i tecnici borbonici per le ruberie da loro perpetrate, Pigonati viene presentato come uno dei pochi funzionari onesti.

18 N. Valente, Il porto di Brindisi: la favola di come il canale andava orientato, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 255, p. 33; N. Valente, La lunga agonia del porto interno di Brindisi, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 256, p. 34.

19 P. Cagnes – N. Scalese, Cronaca dei sindaci di Brindisi (1529 – 1787), A cura di R. Jurlaro, Amici della “A. De Leo”, Brindisi 1978, p. 460.

20 Ibidem.

 21 F. Ascoli, Cit., p. 373.

22 P. Cagnes – N. Scalese, Cit., pp. 459 e 460.

23 A. Pigonati, Cit, p. 12.

 24  F. Ascoli, Cit., p. 367.

25 Ibidem.

26 A. Pigonati, Cit, p. 72.

27 S. Morelli, Brindisi e Ferdinando II o il passato, il presente e l’avvenire di Brindisi, Del Vecchio, Lecce 1848, p. 118.

28 l. Giordano, Intorno alla struttura di un nuovo porto in Bar”, Fratelli Cannone, Bari 1853, p. 26.

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