Una macchina del tempo in forma di libro: Il Salento dei primi del ‘900 di Palumbo e Resta
di Giuseppe Corvaglia
Già nel 2021, leggendo il libro di Eugenio Imbriani “Fiabe e canti dell’antica Terra d’Otranto “, avevo scoperto le meravigliose fotografie di Giuseppe Palumbo e oggi le Edizioni Grifo ce ne offrono una antologia quasi completa nel libro “Il Salento nel Novecento – Come eravamo nelle immagini di ieri”.
Il libro, oltre alle presentazioni di Luigi de Luca e all’introduzione di Hervè Cavalera, si arricchisce di uno scritto di Antonio Resta che spiega in maniera efficace quello che potrebbe sembrare un film, ma che, invece, è un vero e proprio viaggio nel tempo in un mondo apparentemente lontano, ma non così distante.
Chi ha la mia età alcune di quelle immagini se le ricorda (ricordo le strade sterrate e le ginocchia sbucciate); altre emergono dai ricordi dei racconti degli anziani.
E se il pregio del libro può sembrare la sontuosa raccolta di foto che ci mostrano luoghi, volti e vita del Salento nella prima metà del ‘900, lo scritto di Antonio Resta è significativo e davvero bellissimo perché descrive quella vita e quella società contadina che ci mostrano le foto fin nel più minimo dettaglio.
Uno dei pregi di questo libro, come detto, sta nella collezione di foto, ma è particolarmente importante anche la loro genesi.
Giuseppe Palumbo, con una sensibilità e una perspicacia non comuni, vede questo mondo che sembra abbia una sua solidità, una sua immutabilità e invece si appresta a scomparire e a mutare sia che si tratti degli uomini che lo popolano, sia che si tratti di luoghi.
Allora prende macchina fotografica e bicicletta (ma non solo) e gira il Salento a immortalare luoghi e volti, monumenti e situazioni, oggetti e natura.
Quelle foto, fatte nell’arco di diversi decenni, le offrirà al Museo Castromediano a costituire un archivio fra i più completi e un documento prezioso frutto della sua curiosità ma anche della consapevolezza di cui parlavo prima.
Attento ai luoghi trasformati dal tempo e dalle intemperie, ma anche dall’incuria, attento pure alla Natura mirabile sia quando la doma l’uomo sia quando da esso non si fa domare, Palumbo non resiste a immortalare anche gli abitanti di quei luoghi catturando negli sguardi, nelle posture e negli atteggiamenti, sensazioni, stupore, rabbia, gioie, dolori e dignità.
Ed ecco un documentario in bianco e nero, senza sonoro che, però, parla… eccome se parla!
Il testo di Resta davanti a quella mole di immagini potrebbe sembrare un corollario e invece è parte indispensabile di quella macchina del tempo con tutta la sua complessa descrizione, fatta di odori, sapori, suoni quasi percepibili nella descrizione, che associata alle immagini riporta proprio fisicamente in quei luoghi, e fa rivivere eventi di normale quotidianità o anche inusuali o ancora straordinari.
E lo fa con una cura delle informazioni, con una meticolosa sistematicità, con una esaustività per ogni argomento trattato di quella povera vita, che sono davvero mirabili.
Inizia con discrezione a raccontare la vita di tutti i giorni del Salento dei primi anni del ‘900, una vita povera, molto distante da quella che viviamo noi, ma poi ci accorgiamo che ce la descrive senza trascurare alcun aspetto e lo fa con tratti, mi verrebbe da dire pennellate, essenziali, senza fronzoli, ma efficacissime.
Parla del ciclo della vita e della morte, ma anche del desinare, del lavoro nei campi, di come i contadini si procuravano quel lavoro, di cosa facevano le donne, di come giocavano i bambini di come passavano il tempo i grandi con immagini che a qualcuno, in qualche caso, potrebbero sembrare manchevoli di qualcosa, ma che, a ben vedere, vanno a trattare con efficacia tutti, ma proprio tutti, gli aspetti.
Approfondirli tutti (come lo stesso autore ha fatto per i giochi di una volta in un libro dello stesso editore) avrebbe reso il testo un “mattone” interessante, più esauriente, ma non così gradevole.
Il libro si legge tutto d’un fiato ed è davvero una lettura divertente; subito dopo ci si sente contenti di averlo letto ma ne vorremmo ancora. Allora al lettore, che comprende che si è parlato di tutto, che ha visto la gran parte di cose che pensava perdute, non resta che sfogliarlo di nuovo per rivedere le immagini e leggere qualche passo, rinnovando il godimento.
Dal mio punto di vista penso che sia un libro da leggere per ogni salentino per almeno due ragioni. Una è intuibile: se non conosci le tue radici, anche quando queste sono scomode, non hai una tua identità.
E conoscere le proprie radici non vuol dire vagheggiare un ritorno al passato, ma vuol dire riflettere sul presente, capire cosa c’era di buono del passato che abbiamo buttato via e che potremmo recuperare e quali delle cose belle del presente sono valori da custodire e quali, pur sembrando allettanti piaceri o vantaggi fugaci, si rivelano poi disvalori o rischi dissennati per la nostra felicità e il nostro benessere.
La seconda ragione, non meno importante, è che una lettura, non dico attenta, ma utile, ci farebbe vedere che la condizione dei nostri nonni in termini di diritti umani e soprusi, di livello culturale e di credenze, di restrizioni sociali e di condizioni igieniche, di libertà e di benessere, non era molto diversa da quella di popolazioni che, con dispregio, etichettiamo come arretrate, incivili, barbare, rimaste ancora nel Medioevo e se leggiamo questo libro capiremo che nel Medioevo, nella inciviltà e nella arretratezza c’erano i nostri nonni, quelli che ci tenevano sulle ginocchia a farci galoppare con ” hoppi, hoppi cavallucciu…”
Se capissimo questo forse non saremmo più censori spietati nel giudicare quegli uomini e quelle donne e li capiremmo quando decidono di partire o di lasciar partire i propri figli esponendoli a pericoli potenzialmente mortali e allora, forse, saremmo non dico più benevoli, ma almeno più cauti nel giudizio.
Il libro costa 10 euro in edicola con Il Quotidiano e penso che sia una operazione editoriale meritoria per chi come l’editore Grifo e il Quotidiano, trova questi tesori e ce li mette a disposizione per poterne fruire comodamente.