Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (terza parte)

di Nazareno Valente

 

  1. Il tentativo risolutivo.

Ci si è soffermati un bel po’ sull’argomento riguardante l’orientamento del canale fatto da Pigonati, sperando così di non lasciare più spazio alla fantasiosa tesi, cara ad Ascoli, che lo considerava il principio scatenante dell’interrimento, quasi che, trovata la direzione ideale, tutto si sarebbe d’incanto aggiustato. E, sebbene possa sembrare strano, numerose sono le cronache locali le quali affermano tuttora che questa modifica risolse il problema dell’insabbiamento del porto interno di Brindisi, a volte favoleggiando addirittura sull’anno preciso in cui si azzeccò l’angolazione esatta del canale. Per quanto su questo specifico punto, non ci sia accordo: c’è chi racconta che capitò nel 1847 e chi propende per il 1856, tirando per forza ad indovinare, considerato che un simile fausto evento non è mai capitato.

Nella realtà, s’è potuto constatare che, se presumibilmente nel 1843 un esperimento un tal senso fu fatto da Albino Mayo, esso si risolse in un fiasco: modificato l’orientamento nel modo che si riteneva giusto, il canale continuò ad insabbiarsi né più, né meno, di come accadeva prima.

Tra le altre cose, l’ipotesi sull’errata direzione del canale che Ferrando Ascoli formulò nell’ultimo ventennio del XIX secolo, già alla fine del secolo precedente godeva d’un credito molto limitato, considerato che sin da allora si cercava di percorrere altre vie. Non è un caso che Pollio aveva pensato di far ricorso ad un molo per attenuare gli effetti dei venti da sud-est, ritenendo quindi che l’orientamento del canale non fosse certo la causa principale e che le origini dell’insabbiamento fossero dovute alla cosiddetta corrente “littoranea”, come con doppia “t” veniva allora chiamato tale fenomeno negli ambienti specialistici. Nello specifico neppure la trovata ideata da Pollio, rimasta per altro pura teoria e mai realizzata nel concreto, avrebbe risolto il problema, ma il principio andava per certi versi nel senso giusto: il canale andava in un qualche modo tutelato. Bisognava però capire bene da cosa.

In definitiva, però, tra gli addetti ai lavori prevaleva ormai l’opinione che l’interrimento fosse dovuto alla corrente litoranea e che, di conseguenza, bisognasse proteggere il canale da un simile effetto. Semplificando al massimo le cose, vediamo cosa s’intendeva per corrente litoranea.

Intanto, per capirsi meglio si dia un’occhiata ad una delle mappe già fornita per caratterizzare il porto brindisino, in modo d’avere un’idea precisa di com’era strutturato a quei tempi.

Si noterà come l’isola di Sant’Andrea fosse un’isola a tutti gli effetti, non essendo ancora collegata alla terraferma con una diga. In aggiunta non aveva tutti quei moli che da essa adesso si dipartono, così come non c’era una diga che collegava le Pedagne a Capo Bianco e neppure tutto quel cemento che ricopre Costa Morena. In queste condizioni avveniva che tutti i flutti del settore compreso tra Nord-Ovest e Nord-Est, passando per Nord, irrompevano nel porto attraverso la Bocca di Puglia (ora chiusa dalla diga) e per l’apertura tra l’isola di Sant’Andrea e le Pedagne. Ebbene gli studi fatti nel periodo borbonico si basavano sul concetto che la corrente litoranea, spostandosi lungo il litorale a Ponente dell’ingresso del golfo brindisino, raccoglieva lungo il suo percorso detriti, sabbia e materia d’ogni genere che poi introduceva nel porto e sospingeva verso l’imboccatura del canale, proprio a causa dei flutti prima menzionati. Tuttavia poiché la costa a Ponente del porto esterno è composta prevalentemente da roccia bassa non facilmente friabile, era poco probabile che il materiale raccolto e convogliato all’interno fosse di tale entità da creare gli interrimenti rilevati. Pertanto questa teoria era in effetti priva di reale fondamento, tuttavia, essendo ritenuta quella corretta, le eventuali soluzioni si cercavano sempre nel suo ambito, e tutti i vari insuccessi collezionati erano dovuti a questo preconcetto.

A lungo andare, invece di considerare sbagliata la teoria su cui si basavano i progetti, si diffuse la sensazione, divenuta sempre più certezza, che era l’impresa in sé, vale a dire il non fare insabbiare il canale, ad essere impossibile. Per questo motivo tutti i principali ingegneri dell’epoca, che avevano fatto studi o progetti sul porto brindisino, erano convinti dell’inutilità di fare ulteriori tentativi, in quanto ritenevano impossibile che si potesse ristabilire la navigabilità dei suoi seni interni. In altre parole, non c’era  soluzione al problema: qualunque cosa si fosse fatta, il canale era in maniera ineludibile destinato ad ostruirsi. Salvo non si volessero fare periodiche pulizie del canale, il porto interno non sarebbe stato in grado di andare oltre il piccolo cabotaggio.

Con l’annessione del regno di Napoli al regno d’Italia, la questione del porto di Brindisi fu ripresa in esame e, sebbene si fosse ormai tutti persuasi che non ci fossero speranze per il porto interno, l’allora ministro Ubaldino Peruzzi decise ugualmente di fare un’ultima prova coinvolgendo nel progetto un ingegnere francese, Victor Poirel, residente in Toscana, che godeva di buona fama per aver diretto con successo i lavori di ricostruzione del porto di Livorno. Poirel fu così incaricato, con dispaccio del 15 maggio 1861, di «proporre i lavori occorrenti per ristabilire il porto di Brindisi lasciato in abbandono». Nel disimpegno di questo problematico compito, l’ingegnere francese chiese ed ottenne di essere coadiuvato da un ingegnere aretino del Corpo del Genio Civile, Tommaso Mati, che era già stato suo primo aiutante nelle opere per il porto di Livorno.

È utile a questo punto ritornare per qualche altro istante sulla configurazione all’epoca posseduta dal porto brindisino, utilizzando la relazione della commissione costituita dalla Camera dei deputati che, tra il 1861 ed 1862,  analizzò il progetto di restaurazione, in sede di predisposizione del disegno di legge.

«Nella provincia di Terra d’Otranto, quasi all’imboccatura dell’Adriatico, fra la punta di Penna ed il Capo Cavallo si apre un vasto golfo, in mezzo del quale un ampio profondo seno conterminato dalla punta di Mater Domini e dal Capo Bianco, in parte difeso dalle isolette denominate le Petagne e dall’isola, ove sorge il Forte di Mare, forma il gran porto esterno di Brindisi, ossia la rada. Il fondo del seno restringendosi tra le falde de’ colli soprastanti, si parte in due rami, o seni minori, i quali contornando una punta di terra, su cui ergesi la città, ed inoltrandosi sino allo sbocco di due valli, costituiscono il vasto porto interno». Dopo aver fornito lo scenario in cui era collocato il porto brindisino, la commissione riferì sugli aspetti tecnici. Si viene così a sapere che, a quel tempo, il porto esterno aveva una profondità dai 7 ai 18 metri in tutta la sua estensione e nella porzione del lato occidentale, denominata “Cala delle Navi”, poteva dare sicuro ricetto a moltissime navi di qualsiasi grandezza, anche quando erano in atto i fortunali. Nel porto interno il seno di ponente aveva una profondità dai 6 agli 8 metri nei trequarti della sua estensione, per degradare nella restante parte sino agli 0,5 metri, in prossimità delle spiagge; il seno di Levante aveva, invece, una profondità dai 4 ai 5 metri per metà della sua estensione e per l’altra metà da 1 a 3,5 metri. Il canale di comunicazione tra porto interno e rada (o, come diremmo noi, porto medio) aveva a sua volta una profondità dai 3 ai 4 metri, però decrescenti verso la foce, e queste pur limitate profondità si avevano «solo nel mezzo a guisa d’un solco tortuoso, che rende malagevole la navigazione sin delle più piccole navi». Quindi lo stato del canale rendeva precaria la comunicazione tra rada e porto interno e precludeva la navigazione e gli ormeggi in quest’ultimo. Le navi erano così costrette ad ormeggiare nel porto esterno, dove avrebbero potuto accedere in teoria da tre ingressi. Il primo a ponente dell’isola di Sant’Andrea, tra la stessa isola e la punta di Materdomini, denominata come sappiamo Bocca di Puglia; il secondo, a levante, tra Forte a Mare e le Pedagne ed il terzo dal Passaggio dei Trapanelli, tra le Pedagne e Capo Bianco. Tuttavia quest’ultimo accesso era di difficile transito sia per le scogliere che vi si addensavano, sia per l’ampia secca allora esistente che s’incontrava superata la sua imboccatura. L’ingresso per la Bocca di Puglia creava a sua volta grossi problemi, quando spiravano forti venti da sud, ed inoltre era di difficile transito per i bastimenti d’una certa stazza, sia per la strettezza, sia perché poco profondo. Di fatto l’unico ingresso agevole era quello tra Forte a Mare e le Pedagne che, in più, era talmente largo da «potervisi anche volteggiare».

 

La pianta della rada e del porto di brindisi del 1863 (figura n. 5) fornisce un utile riferimento visivo dei possibili accessi al porto esterno, delle secche esistenti, e dello stato in cui l’ultimo tentativo borbonico avevano lasciato il canale di comunicazione. Più che un canale aveva le sembianze d’un imbuto (figura n. 6) — si riteneva infatti che i detriti depositativi dalla corrente litoranea sarebbero defluiti con maggiore facilità, grazie alla ristrettezza dell’imboccatura — con un fondale che solo in alcuni punti raggiungeva i 5 metri e con ancora l’esistenza della secca angioina, che rendeva ancor più difficile la navigabilità in ingresso nel porto interno.

Il fallimento dell’ultimo grande progetto in cui i funzionari borbonici avevano dilapidato una cifra considerevole, senza ottenere in riscontro risultato alcuno, aveva lasciato un senso d’impotenza soprattutto nei tecnici napoletani che avevano partecipato al tentativo, convinti, come già s’è detto, che il porto interno doveva considerarsi perso per la grande navigazione. Sicché a Poirel e Mati, che erano andati a Napoli per acquisire il loro parere, oltre a prendere possesso della documentazione dei tentativi fatti in precedenza, non poterono che ribadire il loro convincimento, vale a dire che non c’era modo di evitare che il canale di comunicazione s’insabbiasse.

Se ne stava persuadendo pure Poirel, molto meno Mati che, essendo l’aiutante, aveva dovuto sobbarcarsi il lavoro di riordinare ed esaminare tutti documenti ed i rilievi idrografici esistenti nell’archivio napoletano sul porto di Brindisi, e s’era quindi potuto fare un’idea più precisa di come stavano le cose. In poche parole l’opinione dei tecnici riprendeva, come già accennato, quella di Afan de Rivera: per loro bisognava abbandonare i seni interni, o al più  ridurli a bacini di commercio per piccole imbarcazioni, e creare, ex novo, un comodo porto commerciale nel seno esterno, nel quale avrebbe potuto trovare spazio pure una rada o un avamporto. Mati invece, già dall’esame delle carte idrografiche, s’era persuaso del contrario: c’era una possibile soluzione al problema, per altro neppure tanto sofisticata, e si poteva  evitare l’interrimento del canale, ristabilendo quindi la piena funzionalità dei seni interni, che lui trovava «bellissimi». Tuttavia si astenne, in quella sede, dal fare obiezioni, ritenendo necessario innanzitutto studiare di persona il porto analizzzandone «il regime della costa esterna, nonché quella della lingua di terra nella quale apresi il canale di comunicazione fra il seno esterno e quegl’interni; canale soggetto a continui e rilevanti interrimenti».

Mentre Poirel e Mati aspettavano che un piroscafo della regia marina arrivasse a Napoli per trasportarli a Brindisi, l’ingegnere francese si ammalò gravemente e la missione fu sospesa. Mati rientrò così a Livorno con tutta la documentazione raccolta sul porto di Brindisi, certo che la questione non sarebbe stata ripresa prima della guarigione del suo diretto superiore. Ma, per fortuna del futuro del nostro porto, così non avvenne. Il ministro Ubaldino Peruzzi, impaziente che la questione del porto di Brindisi fosse definita in breve tempo, considerandola di estrema urgenza  per i futuri risvolti commerciali con l’Oriente, non volle attendere che Poirel si riprendesse. Così, con decreto del 17 luglio 1861, incaricò Mati di studiare la situazione e di «presentare, entro breve termine, un progetto di massima». Come dire che si sovvertivano tutte le gerarchie: la direzione veniva data ad un aiutante il cui grado era inferiore alla maggior parte degli ingegneri con cui avrebbe avuto a che fare. Questo creò malumori e pose Mati in una situazione di disagio sin dall’inizio di questo suo estemporaneo incarico.

Sulla nave che da Livorno lo portava a Napoli, Mati incontrò il barone Nisco, parlamentare del regno, il quale, sapendo dell’incarico affidatogli, dopo avergli parlato a lungo delle vicende del porto di Brindisi e di tutto il denaro che s’era sprecato invano, lo invitò, appena giunti a Napoli, a partecipare ad una riunione dei principali ingegneri napoletani che lui aveva di proposito organizzato. La riunione avvenne e fu per Mati scoraggiante, sia per le difficoltà che gli venivano esposte, essendo la gran parte dei suoi interlocutori contraria che un tentativo fosse effettuato, sia per il fatto che tutti i convenuti erano ingegneri capo oppure ispettori mentre lui era un semplice ingegnere ordinario di prima classe. Quelli, che in questa particolare circostanza erano dei semplici interlocutori, sarebbero divenuti al momento opportuno suoi giudici, considerato che per l’alto ruolo ricoperto avrebbero sicuramente fatto parte della commissione incaricata di valutare il suo progetto. Dal loro attuale atteggiamento, comprese sin da subito l’opposizione che avrebbe incontrato, qualunque fossero state le sue proposte.

Mati giunse alfine a Brindisi in agosto con un piroscafo francese, noleggiato dal governo italiano per raccogliere gli sbandati dell’esercito napoletano, che ormeggiò nel porto esterno nella Cala delle Navi, quindi poco distante dal canale e poté subito rendersi conto che i fondali limitrofi erano talmente interriti da «non permettere il passaggio che di piccole barche». Constatò inoltre che ben pochi porti, e forse nessuno del Mediterraneo, erano stati favoriti dalla «natura come quello di Brindisi» che quindi, messo in condizione di funzionare a pieno regime, era attrezzato con i suoi seni interni e quello esterno «a soddisfare a qualunque siasi esigenza del commercio e della navigazione». Per il resto, gli furono sufficienti una ventina di giorni per confermare la convinzione, già formatasi a Napoli, che non vi sarebbero state soverchie difficoltà per far sì che il porto di Brindisi tornasse perfettamente in funzione.

Gli scandagli fatti e gli accurati esami delle coste esterne ed interne del golfo, soprattutto la costa Guacina e la costa Morena, rispettivamente a ponente ed a levante del porto esterno, gli avevano fatto comprendere quali erano le cause dell’interrimento cui erano soggetti il canale e le zone limitrofe. Le summenzionate coste presentavano infatti manifesti indizi di grandi corrosioni antiche e recenti che facevano comprendere come i «potenti interrimenti» fossero dovuti «quasi esclusivamente dalle avvertite corrosioni e che bastava impedire queste per rendere possibile la conservazione dei fondali del porto esterno, nel canale di comunicazione con i seni interni e nelle zone più prossime al detto canale». Di fatto Mati aveva constatato che la costa Guacina e, soprattutto, la costa Morena, essendo composte di incrostazioni «arenarie conchilifere, commiste a strati di terra», erano soggette «a progressiva soluzione e a corrosioni continue» creando dei depositi sia a nord-ovest, sia a nord-est del canale. Per questo andavano protette con un «rivestimento» per evitare questo fenomeno di corrosione continua: la costa Morena con scogliera  alla base di tutto il tratto tra Fiume Grande e Fiume Piccolo e analogamente la costa Guacina per un buon tratto a partire dalla sponda occidentale del canale.  Inoltre ad ulteriore protezione della bocca del canale, e sempre per garantirsi da depositi di materiale in prossimità della foce, il Mati prevedeva che dalla punta più sporgente della Costa Morena, a destra di Fiume Piccolo, fosse edificata una diga che avanzasse verso nord per circa 500 metri. Appurò infine che il contributo ambientale negativo dato dalle vallate di Ponte Grande e Ponte Piccolo ai seni interni era limitato e comunque tale da poter essere tenuto a freno con «periodiche escavazioni».

In definitiva, oltre alle soluzioni specifiche previste per evitare che il canale si ostruisse, creando di conseguenza estese paludi nei seni interni, e che altre parti della rada s’insabbiassero, il progetto di Mati riorganizzava complessivamente il porto in modo da poterlo porre in competizione con i principali porti nel commercio con l’Oriente. In prima battuta, vista la necessità che lo scalo fosse funzionale in concomitanza con l’apertura del canale di Suez, il progetto prevedeva l’esecuzione dei lavori più urgenti. Pertanto, alfine di liberare dagli interrimenti il canale, il porto interno e la rada, e per difendere la rada, o porto esterno, dai venti, il Mati progettava per l’immediato futuro, oltre a proteggere le coste Guacina e Morena dai fenomeni di erosione, i seguenti lavori:

  1. di chiudere con una diga la Bocca di Puglia, in modo da impedire la formazione di depositi fatti dai venti dominanti da nord-ovest; inizialmente la diga sarebbe stata costituita da una semplice gettata e, in seguito, munita di coronamento, banchine e muri di difesa;
  2. di costruire altre due dighe, la prima lunga 400 metri con inizio la punta del telegrafo di Forte a Mare e direzione mezzogiorno scirocco (SSE); la seconda, già prima descritta, con inizio la punta più sporgente della costa Morena, così che le testate incontrandosi con la direzione di greco-levante (ENE) difendessero la rada dai venti di traversia; anche in questo caso inizialmente si sarebbe trattato di semplici gettate;
  3. riaprire il canale di comunicazione tra porto esterno e porto interno, corredandolo da entrambi i lati da robusti muri di sponda ed alla profondità di 10 metri, in modo che la sua minore larghezza alla foce non fosse inferiore agli 80 metri e che s’allargasse con curve regolari sino ad unirsi con i muri di sponda del porto interno;
  4. di distruggere le varie secche;
  5. di costruire banchine sia nel porto interno, sia nella rada.

Le dighe proposte avrebbero creato un avamporto, come si diceva allora, ben protetto dai venti e dalle correnti, dove con sicurezza, ed in alternativa ai seni interni, avrebbero potuto trovare ricovero i bastimenti che non avessero avuto necessità di inoltrarsi sino alle banchine del porto interno. Di fatto adesso è lo spazio che contraddistingue il porto medio, dove vengono in prevalenza svolte le attività portuali. Oltre a questo scopo, avrebbero concorso anch’esse a preservare le coste dai fenomeni di erosione.

Operando in questo modo Mati assicurava che si poteva porre riparo ai problemi sino ad allora evidenziati dell’interrimento e dell’impaludamento nei due seni interni, portando allo stesso tempo beneficio alla situazione ambientale della città.

Cosa che, a lavori appena abbozzati, avvenne.

Fu quindi l’ingegnere Tommaso Mati a risolvere i problemi del nostro porto, e noi Brindisini dovremmo serbarne ricordo, dandogli così merito del futuro meno problematico cui, grazie al suo progetto, andò incontro la città. Depistati però dalle fantasie cronachistiche, è già tanto se sappiamo che egli sia mai esistito.

In definitiva, la soluzione era stata finalmente trovata, e non era legata all’orientamento del canale oppure alla corrente litoranea, quanto piuttosto al regime delle coste e delle spiagge. Iniziava però a quel punto la parte difficile del percorso, perché bisognava ottenere il consenso delle autorità.

Come Mati aveva temuto, il suo progetto, presentato il 25 novembre 1861, fece arricciare il naso a più d’un ingegnere. A manifestare il maggiore dissenso erano soprattutto quelli che, nel passato regime, s’erano interessati della questione senza riuscire a venirne a capo. Fortuna volle che in quel lasso di tempo fosse divenuto ministro dei lavori pubblici Luigi Federico Menabrea — ritenuto dai più un retrogrado ma che studiava da sé i progetti e non si lasciava suggestionare dalle opinioni altrui — il quale, invece, trovò valido il documento presentato da Mati.

Altra circostanza fortunata fu che, proprio al momento opportuno, si schierò a favore del progetto di restaurazione del porto un personaggio allora di grande influenza per i suoi trascorsi militari: il generale Bixio. Se per il porto interno di Brindisi non fu intonato il de profundis, molto si deve all’ingegnere Tommaso Mati che trovò la soluzione tecnica al problema dell’interrimento del canale di comunicazione. Ma non piccolo merito ebbero, come meglio si vedrà nel prosieguo, i generali Luigi Federico Menabrea e Nino Bixio.

 

  1. Lo scontro parlamentare sul progetto Mati.

Allegato agli atti parlamenti, un prezioso disegno inedito (figura n. 7)  riassume con chiarezza come il progetto di restaurazione del porto brindisino presentato da Mati intendesse realizzare un avamporto, delimitato dalla diga tra Materdomini e l’isola di Sant’Andrea e dai due moli rispettivamente da edificarsi da Forte a Mare, con direzione mezzogiorno scirocco (SSE), e dalla costa Morena con direzione tramontana (nord). La diga ed i moli  summenzionati avrebbero inoltre coadiuvato le scogliere “salvaripa” delle coste Morena e Guacina nel proteggere la foce ed il canale di comunicazione da futuri interrimenti, consentendo così l’accesso di qualsiasi tipo di bastimento nel porto interno.

Era un progetto per certi versi rivoluzionario che proprio per questo sollevò da più parti critiche d’ogni genere. Le disapprovazioni più numerose riguardavano i due moli che, pur avendo il pregio di rendere l’avamporto più protetto dai venti, rischiavano tuttavia di renderlo di più difficile accesso per le navi a vela. Qualcuno temeva inoltre che  il molo di costa Morena avrebbe potuto essere esso stesso una causa d’insabbiamento del canale e non già uno strumento idoneo a prevenirlo. Tali considerazioni traevano in genere spunto dal fatto che a quei tempi  la navigazione a vapore non s’era ancora del tutto imposta, e molti dei “vecchi” ammiragli erano più avvezzi  alla navigazione a vela, la quale non amava gli ostacoli ed il dover fare manovre per superare strettoie, come quella prevista tra i due moli, soprattutto quando non si godeva del favore del vento.

C’era però un’altra necessità che in quel periodo era sorta con la nascita del nuovo regno: quella di un’adeguata difesa marittima. Occorre infatti ricordare che a quel tempo le coste adriatiche erano sotto la minaccia dell’allora tradizionale nemico, l’Austria, che aveva le sue basi sull’altra sponda e che estendeva il suo dominio ancora su tutto il Triveneto. E questa minaccia era resa ancor più inquietante dal fatto che, proprio l’uso del vapore, consentiva lo spostamento rapido di notevoli contingenti di truppe e che la sponda italiana dell’Adriatico era, con l’eccezione di Ancona, sguarnita di basi navali che potessero difenderla. Gli Austriaci, ben più attrezzati, avrebbero pertanto potuto senza eccessivo sforzo attaccare il Basso Adriatico, del tutto indifeso, e costituire in breve tempo una testa di ponte, poi difficile da scacciare. Per questo motivo la marina militare aveva pensato di rafforzare la difesa marittima creando altre basi, e gli unici porti attrezzati per ospitarle erano allora Manfredonia e, soprattutto, Brindisi. Il nostro porto era particolarmente favorito perché i suoi seni interni avrebbero potuto permettere di ormeggiare in acque tranquille, proprio ciò di cui le navi corazzate a vapore, ancora del tutto sperimentali, avevano maggiormente bisogno. Sicché la marina militare, avendo interesse all’uso del porto interno brindisino, avrebbe preferito che i soldi fossero stati spesi per il suo potenziamento piuttosto che per evitare l’interrimento del canale, cui si sperava in un qualche modo di ovviare senza però adottare il sistema alquanto oneroso di scogliere e di moli proposto da Mati. A tutti i mugugni si aggiunse il parere sfavorevole del Consiglio superiore dei lavori pubblici che, a quel punto, sembrò sancire la fine anticipata del progetto.

Il ministro Menabrea, però, pur non essendoci l’assenso del Consiglio superiore dei lavori pubblici, ottenne ugualmente dal re l’autorizzazione a presentare al parlamento il progetto di legge che prevedeva lo stanziamento di 6 milioni «per i lavori più urgenti di ristorazione del porto di Brindisi», da effettuarsi tra il 1864 ed il 1869, secondo quanto previsto dal progetto Mati.

Con tanti spifferi che facevano temere il peggio, il progetto approdò così alla Camera dei deputati il giorno 22 luglio 1863, avendo almeno acquisito, sia pure con qualche distinguo, il parere favorevole della commissione incaricata dell’esame preliminare del disegno di legge proposto. La commissione, ricordata con il nome del suo relatore, Devincenzi, sottolineava a ragione che era necessario pensare anche alle infrastrutture — la cui mancanza comportò appunto che lo scalo brindisino con il tempo finì per perdere peso rispetto a Marsiglia, che si riappropriò così del ruolo di capofila nei viaggi per l’Oriente — e ad un’azione più incisiva riguardo la bonifica dell’entroterra brindisino, per migliorare le condizioni ambientali della città.

Sin dall’inizio della discussione si poté comprendere che non spiravano certo venti favorevoli. A sfavore parlò soprattutto il contrammiraglio Napoleone Scrugli, in buona parte perché ancora legato alla navigazione a vela, un po’ perché, per il ruolo ricoperto, non poteva esimersi dal farsi portavoce delle esigenze della marina militare. La proposta era da lui ritenuta non solo inadeguata ma addirittura deleteria, tanto da fargli prevedere a chiare lettere che avrebbe portato il porto brindisino alla sua definitiva rovina. Propugnatore della teoria della corrente litorale, di cui abbiamo già fatto cenno la volta scorsa, egli così argomentava: «Questa corrente [litoranea] diviene più forte allo spirare dei venti di tramontana», appunto come avveniva all’ingresso della Bocca di Puglia, ed «è impossibile allontanare la torba che la corrente seco porta, quindi non si eviteranno i suoi sedimenti se non rispettando o promuovendo possibilmente il suo ordinario corso». In pratica, per garantirsi dall’interrimento, il contrammiraglio riteneva fosse sufficiente allargare il canale, quasi a farlo sparire, e «darsi inoltre alla bocca interna del canale una minore ampiezza, onde le acque acquistassero in quel punto maggiore velocità. Egli è per sua natura evidente che le acque medesime, una volta entrate nel porto, debbano, reagendo, sortirvi, e quindi in quel punto egual forza riacquisterebbe nel riflusso la corrente nel riportar fuori quelle arene che seco dapprima conduceva… [così] da lasciare il canale sempre scevro da interrimento, e quindi non ostruito l’adito al porto». Mentre, a sua detta, la proposta di Mati, chiudendo la Bocca di Puglia, creava maggiori complicazioni. In aggiunta, la previsione dei due grandi moli avrebbe lasciato una via di accesso così «angusta e difficile che le arene per rigurgito di corrente vadino a depositarsi lì nei porti ove le acque restano nella massima quiete e senza affatto moto». Pertanto, impedire che la corrente faccia il suo corso e che la «torba una volta gettata sulla costa non possa essere dalla corrente medesima ricacciata, che ne avverra? che l’interrimento ne sarà l’effetto». Infatti, a suo giudizio, le correnti «non trovando più la Bocca di Puglia» avrebbero portato nel porto interno «tutte le torbe e tutto il materiale» che poi, sopraggiunta la calma, le acque avrebbero deposto con la conseguenza di insabbiare  «in pochissimi anni il vostro porto». Quindi il progetto Mati non solo creava ostacolo alla navigazione ma rischiava di ostruire ancor più il canale. In conclusione, Scrugli proponeva che la Camera sospendesse «qualunque progetto pel porto esterno di Brindisi», concedendo i soli «fondi necessari ai lavori pel porto interno e canale di comunicazione».

In pratica, sarebbe stato come continuare a non affrontare il problema dell’interrimento alla fonte e consegnarsi ad un nuovo fallimento. Malgrado ciò, l’intervento di Scrugli fece in un qualche modo  presa sui deputati, mettendo in imbarazzo anche chi era inizialmente favorevole alla proposta. Suggestionato dalle sue vivaci critiche c’era già chi invitava alla prudenza ritenendo meglio, prima d’iniziare i lavori, di consultare «una commissione composta da uomini di mare, e soprattutto di persone del luogo» per verificare la bontà della soluzione proposta. Sicché, insieme a qualche preannuncio di voto negativo, sembrava farsi spazio il rischio di un possibile rinvio che avrebbe comportato un pericoloso stop del progetto. Fu a questo punto che intervenne il generale Bixio il quale con molta decisione espresse totale apprezzamento al piano predisposto da Mati, dando così una significativa svolta all’andamento della discussione.

Sin dalle prime battute si schierò a favore dei proponenti e della commissione istruttoria, dei cui consigli sulle bonifiche e sulle infrastrutture si dichiarò in totale sintonia. Riguardo alle obiezioni di Scrugli trovava corretta la sua analisi condotta «da un punto di vista che potrebbe dirsi marittimo, ma nel senso nautico come un tempo poteva intendersi, cioè dal punto di vista della sola marina a vela». Le sue argomentazioni erano però basate su un concetto, a suo avviso, «ristretto» e «del tempo passato» mentre il porto di Brindisi, così come pensato da Mati, si rivolgeva al futuro ed alle navi in rotta per l’Oriente, quindi ad una navigazione  fatta esclusivamente «a vapore ed a vapore misto», dove la vela non avrebbe più trovato spazio. Per questo Scrugli era in errore: «Brindisi sarà un gran porto per la marina a vapore e lo sarà secondario per quello a vela». Di conseguenza, rispetto al passato, «è necessario che il porto interno di Brindisi abbia un avamporto»;  un avamporto con  «i vantaggi della rada senza gl’inconvenienti dei porti, che abbia dunque superficie vasta, acque tranquille, facilità all’imbarco e sbarco di passeggeri». In questo modo i «vapori della Compagnia peninsulare» la cui stazza raggiungeva «le tre mila tonnellate» e una lunghezza media «da 80 a 100 metri» non sarebbero stati in ogni caso costretti «a penetrare all’interno del porto». In altre parole, «l’avamporto e l’insieme dei lavori proposti per il porto di Brindisi risponde ai bisogni ed alle necessità generali che si vogliono in un porto di vera importanza commerciale», in quanto il porto interno avrebbe potuto ricevere qualunque bastimento e vi sarebbe stato spazio «per lo stabilimento dei magazzini». I timori del contrammiraglio Scrugli erano quindi infondati, in quanto: «Ci sarà dunque profondità d’acqua, sicurezza, facilità di sbarco, facilità di approdo, facilità di partenza. Quali vantaggi si possono desiderare maggiori? Se non che l’onorevole Scrugli, il quale, se non ha preso di mira la marina a vapore, ha potuto avere in vista quella a vela, si dà fastidio che col progetto presente venga chiusa la bocca di Puglia, per cui i bastimenti a vela correrebbero pericolo con certi venti, e sarebbe più difficile l’entrare nel porto». Dopo aver poi ricordato che i porti inglesi erano strutturati nel medesimo modo perché ormai nell’ottica d’una marineria indirizzata alla navigazione a vapore, Bixio lanciava un’altra frecciatina nei riguardi del contrammiraglio, sottolineando che anche per una nave a vela non ci sarebbero state difficoltà ad entrare nel porto di Brindisi, salvo per chi conta d’avere «sempre il vento in poppa» oppure a non «aprir gli occhi».

Bixio trovò poi modo di stuzzicare Scrugli anche sulla menzionata teoria della corrente litorale: «egli ha voluto entrare nella questione delle correnti, questione che io reputo molto scabrosa. Né vale il citare autorità, perché in quanto ad autorità a tale riguardo ne troviamo per tutte le opinioni». In ogni caso, «il ragionamento dell’onorevole Scrugli non ha, a mio modo di vedere, alcun fondamento, e che perciò si debba respingere l’ordine del giorno da lui proposto». Allo stesso modo andavano respinte tutte le obiezioni fatte da altri parlamentari sulle questioni finanziarie. Infine, così Bixio concluse il suo intervento: «Il mio voto è che l’impianto del porto di Brindisi si faccia nel miglior modo e prontamente».

Come ebbe modo di sottolineare lo stenografo, il suo intervento riscosse «vivi segni di approvazione».

Il successivo intervento stizzito di Scrugli ebbe poco effetto. Invitò nuovamente a sospendere i lavori: «questi lavori così grandiosi nei quali si buttano a mare tanti denari senza ritrarne nessun utile; sospendeteli per ora. Una commissione che voi ordinerete, composta di tutte le branche dello scibile, marini, ingegneri, gente del luogo, questa giudicherà con cognizione di causa il progetto del Mati». Nel frattempo si sarebbe potuto pensare al canale, allargandolo sino ai 100 metri da lui proposti. Ribadiva che diga e moli avrebbero avuto l’effetto opposto a quello desiderato e cercò, forse con troppa eccessiva foga, di instillare il dubbio che il progetto presentato era del tutto inutile: «sinché della sua bontà non siate convinti, perché, Dio buono, volete gittare immense somme inutilmente? Pur qualche dubbio vi deve scendere nell’animo. Calcolatemi un uomo da nulla; ma infine più volte ho navigato in quei mari, e quando vi dico: badate che voi sbagliate, queste parole debbono almeno farvi restar alquanto in dubbio».

In effetti i 6 milioni di lire in gioco erano allora una cifra enorme e, su questo spesa  invero fuori dell’ordinario, Scrugli puntò per mettere sul chi vive coloro che l’ascoltavano e indurli così alla cautela. Tuttavia, accentuando troppo i toni, ottenne l’effetto opposto: invece di spaventare, suscitò ilarità, quest’ultima evidenziata dallo stenografo, a commento della fine del discorso di Scrugli.

Prese a questo punto la parola il ministro Menabrea il quale sottolineò che, a seguire il consiglio dell’onorevole Scrugli, si sarebbe ricaduti negli stessi errori commessi nel passato. Pigonati, Pollio, Mayo e tutti gli altri avevano fallito appunto perché avevano pensato al canale, alla sua larghezza ed al suo orientamento, senza preoccuparsi di quello che avveniva nella rada e di quale fosse lo stato delle coste. Per questo tutti quei lavori erano risultati inutili in quanto, avevano scavato e rivangato il canale, senza adottare preliminarmente nessun accorgimento per tutelare le coste dalla corrosione, ed i problemi d’insabbiamento si erano prontamente riproposti. Neppure con l’ultimo tentativo, per il quale solo dal 1852 al 1861 s’erano spesi l’equivalente di 4 milioni di lire, si era riusciti ad ottenere risultati concreti ed il porto di Brindisi si trovava «in condizioni peggiori di quel che fosse quando furono iniziati i primi lavori. Ora, signori, ciò che vi propone l’onorevole Scrugli non è né più né meno che quello che fu tentato per ben tre o quattro volte e che riuscì così malamente e cagionò inutilmente enormi spese».

Spiegò poi che la diga ed i moli previsti dal progetto Mati dovevano essere edificati prima di dar mano ai lavori sul canale, perché essi stessi aiutavano, insieme alle scogliere, a proteggere la costa Guacina e la costa Morena dai flutti e dai venti, in modo da non subire quei processi di corrosione che creavano depositi di materiale, causa principale dell’interrimento. Infatti «la massima parte delle materie sono trasportate all’interno del porto verso la bocca di Puglia, e che di più le onde le quali corrodono la costa Guacina provengono da questa bocca di Puglia». Ed era evidente «che la prima idea fu quella di chiudere questa bocca. Inoltre vi sono anche le materie provenienti da corrosione della costa Morena, le quali sono portate da altri venti ed anche dalle onde. Se è perciò anche necessario d’impedire che le materie provenienti da questa corrosione siano portate alla bocca del porto interno, ne nasce la convenienza di formare anche quel molo che si attacca alla costa Morena e si estende dal sud al nord». In definitiva bisognava prima proteggere la rada dal trasporto di materiale che avevano sino ad allora prodotto l’interrimento. «Una volta che questi lavori saranno terminati, si potrà poi procedere nell’ordine inverso da quello proposto dall’onorevole Scrugli, perché si avrà allora la sicurezza che i lavori di scavo non saranno più compromessi dai depositi provenienti da queste correnti». Fece presente poi che «queste conseguenze non sono basate sopra un semplice ragionamento, ma sui risultati» e sull’esperienza data dagli errori passati: il progetto che veniva presentato alla Camera «non lo fu a caso, ma formò esso l’oggetto di lunghi studi». Assicurò infine che le bonifiche sarebbero state trattate «simultaneamente alla questione del porto».

Alla fine della discussione, la Camera, dopo aver respinto l’ordine del giorno presentato da Scrugli, approvò il progetto di legge relativo al porto di Brindisi con 148 voti favorevoli e 52 contrari.

C’è da ricordare che il fenomeno di erosione cui era soggetta la costa Guacina era già stato rilevato dalla commissione costituita nel 1834 dal re Ferdinando II, che aveva anche previsto la costruzione di «una scogliera atta a garentire la parte più esposta della costa Guacino [ndr. Guacina], a sinistra della rada». Ed anche quella che interessava la costa Morena era a piena conoscenza degli ingegneri dell’epoca borbonica, tanto che Luigi Giordano nel suo progetto per il porto di Bari, riporta che la parte dell’anzidetta costa che si trova tra Fiume Piccolo e Fiume Grande «ha per lunghi tratti una scarpa verso il mare quasi verticale, di più o men notevole altezza, composta di terra, bolo, e tufo carpino, disposti per lunghi e spessi strati; una sì fatta scarpa così pronunziata della costa, è normale alla direzione dei venti boreali, che la pongono in franamento continuo». Tuttavia nei lavori eseguiti dal 1842 al 1860 non era stato previsto nulla per proteggere la costa Morena da questo franamento continuo che depositava il materiale che poi causava l’ostruzione del canale Pigonati. Quindi, sebbene l’erosione cui erano soggette le coste a ponente ed a levante del canale fossero state individuate, esse non furono ritenute la causa principale dell’interrimento del canale, tant’è vero che Giordano, dopo averne parlato, sottolineava che il problema dell’approdo brindisino è l’impossibilità di mantenere la profondità «data alle acque del canale di comunicazione tra lo stesso porto e la rada». Concludendo poi che «la qual cosa si otterrà sicuramente, se sarà possibile d’impedire gli interrimenti nella rada stessa, o piuttosto di spiegare le cagioni onde essi derivano». È del tutto evidente quindi che, per i tecnici borbonici, le erosioni delle due coste non spiegavano «le cagioni» dell’interrimento, forse perché continuavano a dare maggior rilievo alla corrente litoranea ed ai sedimenti portati alle estremità dei seni dalle vallate di Ponte Grande e Ponte Piccolo.

Va dato pertanto merito a Tommaso Mati d’aver considerato che la corrente litoranea non poteva avere da sola la forza di convogliare materiale a sufficienza per insabbiare il canale e tantomeno poteva esserne causa «il tributo di torbide» arrecato dalle vallate di Ponte Grande e di Ponte Piccolo. In merito a queste ultime, era bastato rilevare che gli scandagli nel seno di Ponente dapprima crescevano per poi degradare andando verso la bocca del canale, per desumere che l’interrimento del canale non poteva derivare dal materiale che i torrenti scaricavano nei seni interni perché, nel caso, sarebbe avvenuto l’opposto. E d’aver di conseguenza compreso che il problema era causato dalle erosioni cui sottostavano la costa Guacina e, soprattutto, la costa Morena e che bastava, tramite scogliere e moli, proteggerle dai flutti e dalle correnti per risolvere il problema. L’immagine, “Porto di Brindisi rilevato nell’anno 1872” (figura n. 8), mostra appunto le due scogliere edificate a protezione delle coste per evitare che fossero erose creando quei depositi di materiale che poi ostruivano il canale.

Dopo ottant’anni e più di tentativi falliti, Mati riuscì finalmente, avendone compreso le cause, ad impedire che il canale continuasse ad insabbiarsi. Se quindi il porto di Brindisi poteva voltare pagina ed avere un futuro diverso fu tutto merito dell’ingegnere aretino.

Ironia della sorte, nei racconti sul porto brindisino, è già tanto se Mati viene citato en passant: storici e cronisti locali in genere lo ignorano. Figuriamoci a dargli il merito per aver risolto un problema che, ad un certo punto, sembrava senza possibile soluzione.

Così come per la favola dell’errato orientamento del canale, anche in questa circostanza non poco peso ha avuto la fervida fantasia di Ferrando Ascoli il quale trovò assurdo il sistema di moli previsto da Mati, tanto da rivolgersi a lui con un beffardo: «perdoni il signor ingegnere», mentre ne criticava il piano progettato. E qui in effetti siamo all’assurdo: Mati aveva disegnato il porto di Brindisi con cinquant’anni di anticipo rispetto a quello che avrebbero poi fatto le autorità militari in previsione delle operazioni belliche della grande guerra, ed il marino Ferrando Ascoli trovava modo di bacchettarlo.

C’è sempre un motivo a tutto.

E forse si deve a questo strano giudizio d’un cronista poco documentato — oltre a chi, leggendolo, l’ha copiato passivamente prendendo tutto per oro colato — se Tommaso Mati è rimasto per i Brindisini un perfetto sconosciuto.

(3 – fine)

 

Riferimenti bibliografici

 

  1. Il tentativo risolutivo.

Camera dei Deputati, “Relazione della commissione relativa alla ristorazione del porto di Brindisi”, sessione 1861-62.

(A cura di R. SALVESTRINI), op. cit.

  1. Lo scontro parlamentare sul progetto Mati.

Camera dei deputati, “Tornata del 22 luglio 1863”, sessione del 1863.

Camera dei deputati, “Tornata del 23 luglio 1863”, sessione del 1863.

GIORDANO L., op. cit.

 

 Per la prima parte clicca qui:

Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (prima parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 Per la seconda parte clicca qui:

Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (seconda parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

 

 

 

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