di Mirko Belfiore a colloqio con Antonio Di Castri.
Restando sul tema dei riti della Settimana Santa mi sono reso conto di come potesse essere interessante aggiungere alla mia personale visione da “migrante” il punto di vista di chi questi giorni li ha sempre vissuti in maniera più approfondita. Mi sono chiesto, chi meglio di un francavillese fatto e cresciuto, può raccontare le esperienze su questo momento liturgico coì pregno di tradizione e storia? Non ho dovuto fare molta strada e mi sono rivolto a una persona a me molto cara, il quale ha aperto il cassetto dei ricordi e si è fatto rivolgere alcune domande:
Carissimo Antonio, come hai vissuto nel tuo percorso di crescita, i riti che conducono verso la Settimana Santa?
Sin da piccoli ci si approccia a questo elemento fondante della cultura cittadina grazie alle istituzioni ecclesiastiche e scolastiche. Nelle prime escursioni della nostra città si coglie l’occasione per visitare i luoghi più simbolici come la chiesa di santa Chiara o della Morte, edificio dove gelosamente si custodiscono le statue dei Misteri. In noi piccoli, la visione di questi oggetti alimentava emozioni controverse, date non solo dallo splendore artistico e dalla carica drammatica ma anche dall’aura di mistero che oggi come allora aleggia intorno a queste opere d’arte. All’approssimarsi del periodo pasquale e insieme ai compagni del catechismo, si faceva qualche piccola vendita clandestina dei rametti di ulivi benedetti durante la Domenica delle Palme, a cui seguitava la frenetica realizzazione “ti lu piattu”, sempre decorato con gioia e orgogliosamente mostrato a tutto il vicinato, riti di passaggio che seppur semplici hanno accompagnato i miei passi verso l’adolescenza.
Da spettatore esterno, come posso comprendere in maniera completa cosa rappresenta per un francavillese vivere questo momento così antico e così fortemente radicato?
Dal mio punto di vista, forse questo è l’unico momento in cui la comunità si riunisce realmente in un atto di purificazione, partecipando a questa performance pubblica. In quei giorni a Francavilla succede qualcosa di inspiegabile, c’è nell’aria un senso di attesa, un momento di stallo che anticipa tutto quello che avverrà. Non è solo l’insieme, ma anche le singole funzioni che rapiscono nella loro carica di fede. Ad esempio, per me, la processione della statua lignea della Madonna dell’Addolorata, la quale disperata e melanconica vaga per la città “in cerca del Figlio” con quegli occhi carichi di disperazione, rappresenta una delle immagini più toccanti. Le attività frenetiche dei giorni successivi restituiscono poi, quel senso di partecipazione e concordia che in molti mesi dell’anno manca. La realizzazione degli addobbi dei Sepolcri, ricchi di colori, manufatti e riempiti dalla fitta selva dei numerosi “piatti”, rimane un vero e proprio momento di concordia.
Fra i ricordi che emergono, cosa mi puoi raccontare dei “Pappamusci”, queste figure sinistre e quasi minacciose, che durante il Giovedì e il Venerdì Santo camminano accoppiate lunghe le vie di Francavilla?
Sin da bambini si è sempre spaventati da queste figure piene di mistero. Ricordo la filastrocca che spesso i più grandi ripetevano per intimorirci al loro passaggio, in modo da evitare che disturbassimo il loro atto di penitenza: pappamusci alla squazata, pigghia la mazza e ddalli an capu (pappamusci scalzi, prendi la mazza e daglielo in testa). Il terrore di essere colpito da quei lunghi bastoni, mi portava al silenzio e all’osservazione, unita a quella forma di rispetto che scaturiva al loro battere, usato sia durante il momento del saluto che nell’abbraccio simbolico. Ciò che mi ha sempre affascinato sono proprio questi atti rituali di riguardo, non solo verso il luogo di pellegrinaggio, ma anche verso l’altro fratello penitente, il quale si ritrova nella stessa condizione. C’è ordine in questi atti ma anche tenerezza, sentimenti che traspaiono quando tra di loro si sistemano la mozzetta o il cappello fuori posto, oppure quando un adulto incoraggia il bambino a proseguire nel suo cammino. I pellegrini spesso sono padre e figlio e in questo si può riconoscere un atto di trasmissione della tradizione, simbolo di quel legame che li univa.
Come può un giovane avvicinarsi a queste cerimonie, così avvolte da una sacralità quasi invalicabile?
Il rito è ancora attuale proprio perché è un atto performativo, codificato, ritmato. Il Venerdì Santo, impressiona per l’atmosfera assordante di silenzio che si può udire in città interrotto solo dal suono della “trenula”. Un suono secco e duro che annuncia nelle chiese e per le vie cittadine la morte di Cristo. Da quel momento in poi, l’interruzione delle attività tutte è d’obbligo e l’unico mormorio incessante che si ode è quello della preparazione dei gruppi statuari sapientemente allestiti all’interno della chiesa della Morte. A pochi passi, si preparano le enormi croci dei “Crociferi”, i quali assemblano con maestria e trepidazione gli oggetti che useranno successivamente. Quando la processione ha inizio i cittadini sono lì presenti. La caccia al posto più favorevole dove osservare il passaggio della processione porta molti a sistemarsi ore prima per individuare il punto migliore, anche sfruttando i balconi di amici e parenti. Questo per avere la migliore visuale possibile dove poter osservare il passaggio lento di quelle opere che in modo straziante restituiscono il dolore del Cristo. Un dolore che viene proiettato su sé stessi soprattutto al passaggio dei crociferi, i quali trascinano il loro pesante peso fra la preghiera e gli umili affanni di fatica per la stanchezza e il peso. Purtroppo, l’evolversi di questo evento cittadino in evento turistico toglie qualcosa a questo momento. Ricordo il silenzio delle folle cittadine al passaggio della processione, ora ci sono flash e chiacchiereccio, perché c’è chi vive quel momento come uno show. Il turista viene, guarda, scatta e va via. Non vive l’esperienza a pieno, non assapora tutti i passaggi che si effettuano per arrivare a quel momento. I giovani probabilmente ora mostrano disinteresse proprio per questo, perché nel momento in cui un atto così viene massificato perde della sua unicità pur nella sua replicabilità. Attenzione, non parlo di nostalgia dei vecchi tempi, perché sicuramente l’esperienza che ho vissuto io è differente da quella che hanno vissuto i miei genitori, i miei nonni. Si chiamano riti della Settimana Santa, non a caso, perché appartengono alla comunità, l’apertura all’ospite è insita nel rito stesso, ma non per questo si deve snaturare la sua funzione sociale e culturale. Il rito è efficace grazie al suo linguaggio semplificato e comprensibile ai tanti. Per questo ci deve essere da parte dei cittadini un interesse nel preservare questi eventi non come un monolite intoccabile, ma renderlo fruibile agli altri con la consapevolezza del valore che esso ha per chi lo vive sin dall’inizio.
Che cosa rimane di tutto ciò, sapendo che quest’anno, dopo due lunghi anni, si tornerà a godere di tutto ciò, riassaporando quel senso di normalità?
Questo è, per i fuorisede come me, il momento del ritrovo, in cui la famiglia si riunisce e vive la Pasqua come un momento di gioia e spensieratezza, in alcuni casi di riappacificazione. A ciò aggiungo la mia personale speranza che si possa ritornare anche a quei momenti fatti di baci e abbracci, gesti che hanno una loro importanza e che stanno alla base di tutto quello che s’è detto sino ad ora. Quando torno a Francavilla e ospito i miei amici, spesso li porto ad osservare le statue, racconto loro quale posizione le stesse hanno nella processione e mi dilungo nella spiegazione delle varie fasi, lasciandoli stupefatti di tutta questa partecipazione. Quando sono solo invece, amo ritagliarmi un momento per andarle a visitare nel silenzio della mia intimità, così da poter godere in pieno della loro bellezza e delle emozioni che da esse scaturiscono. Ritornare a vivere tutti questi frangenti con quella libertà che per due anni ci è stata negata, per me rappresenta un sollievo dell’anima e una speranza che tutto possa riprendere con uno spirito nuovo.