di Davide Elia
Il Salento e la Repubblica
Quali erano stati in Terra d’Otranto gli effetti di tutti quei rivolgimenti? La notizia della proclamazione della repubblica a Napoli giunse a Lecce con la posta dell’8 febbraio. Il giorno dopo fu eretto l’albero della libertà in piazza Sant’Oronzo. In numerosi centri del Salento si ebbero analoghi festeggiamenti e manifestazioni di carattere anti-borbonico.
L’infatuazione repubblicana ebbe però vita breve: già l’indomani si erano spase voci di presunti prodigi compiuti da svariate immagini sacre in tutta la provincia, ricondotti dalla credulità popolare ad un moto di disgusto da parte del divino nei confronti del nuovo regime ateo e giacobino. Tra questi, il clamoroso segno dato dalla statua di Sant’Oronzo che, si disse, dall’alto della sua colonna aveva deciso voltarsi sdegnosamente per distogliere lo sguardo dall’albero della libertà. Questo bastò a provocare una sollevazione popolare che abbatté l’albero e ripristinò a Lecce l’obbedienza alla monarchia. Violento fu l’accanimento su coloro che in città erano stati i protagonisti dell’effimera proclamazione della repubblica.
Una sceneggiata ben riuscita
In quegli stessi giorni stava iniziando la singolare, per certi versi inverosimile impresa di un gruppo di avventurieri corsi. Una vicenda così grottesca da essere ripresa innumerevoli volte da storici e narratori; pertanto qui ci limiteremo a riassumerne soltanto i contorni principali. Erano sette poco di buono che avevano abbandonato la Corsica, ormai possedimento della Francia rivoluzionaria, per sfuggire alla giustizia e si erano dapprima stabiliti a Napoli, dove avevano abbracciato la causa legittimista. Tra di loro, spiccarono i nomi di Giovan Battista De Cesari, domestico, Francesco Boccheciampe, soldato disertore, e Raimondo Corbara, vagabondo. I sette si erano poi portati in Puglia per scortare fino all’Adriatico due principesse francesi di sangue reale che cercavano un imbarco per Palermo per fuggire dalla rivoluzione. Proprio in Puglia essi decisero di trattenersi in cerca di fortuna. Mentre erano di passaggio a Monteiasi, nacque per la prima volta tra il popolo la diceria che si trattasse di un gruppo di aristocratici. Poco dopo, il 14 febbraio, in una Brindisi in rivolta contro l’effimero governo repubblicano, Corbara venne scambiato per il principe ereditario (il futuro re Francesco I), a causa di una lontana somiglianza. Constatato l’entusiasmo che la presenza del presunto principe aveva suscitato in città e i vantaggi che avrebbe potuto portare alla causa legittimista mettendo a frutto la credulità delle masse, questa sceneggiata fu subito salutata con favore e sostenuta con convinzione dalla fazione realista. L’equivoco fu ulteriormente alimentato stabilendo che Boccheciampe e De Cesari si sarebbero a loro volta fatti passare rispettivamente per il fratello del Re e per il Duca di Sassonia. I corsi si spartirono anche compiti operativi per l’immediato: De Cesari e Boccheciampe, presentandosi con il titolo di “Incaricati di Sua Maestà”, avrebbero agito per il ristabilimento dell’ordine nella provincia, mentre Corbara, per evitare di restare troppo a lungo a Brindisi con il rischio di essere smascherato, si sarebbe recato a Corfù, dove era presente una squadra navale russa, per richiederne l’intervento contro la repubblica.
Imbarcatosi da Otranto il 19 febbraio, il Corbara non raggiunse mai l’altra sponda dell’Adriatico, poiché la sua imbarcazione fu catturata dai pirati barbareschi. Condotto in prigionia, fu infine liberato in Sicilia per intercessione degli inglesi e non prese più parte alle vicende di Terra d’Otranto.
Intanto, Boccheciampe e De Cesari capitanavano la controrivoluzione nel brindisino, reclutando milizie volontarie e intervenendo nei vari centri in cui scoppiavano sommosse popolari avverse alla repubblica. In quei giorni in Puglia non era ancora giunto un solo soldato francese.
Russi e Turchi alla presa di Corfù
Dicevamo che Corbara avrebbe voluto raggiungere Corfù per abboccarsi con i russi. In quel momento, l’antica fortezza veneziana dell’isola, ora in mano francese, era infatti assediata dalle forze coalizzate di Russia e Impero Ottomano, le cui squadre navali erano comandate, rispettivamente, dagli ammiragli Ushakov e Kadir bey. Il sultano era in guerra con la Francia poiché questa aveva attaccato l’Egitto, suo possedimento nominale. Per lo zar, invece, il casus belli era stato l’espulsione da Malta dei cavalieri dell’Ordine di San Giovanni, di cui era formalmente il Gran Maestro, operata da Napoleone di passaggio sulla via dell’Egitto. Il Regno di Napoli aveva sottoscritto un’alleanza con la Russia già nel novembre precedente, e con l’Impero Ottomano a gennaio.
Il 15 febbraio da Palermo era partito per Corfù anche Antonio Micheroux, plenipotenziario di Ferdinando IV, di origini fiamminghe. Era stato incaricato dal sovrano di ottenere l’invio di un contingente russo per sedare possibili rivolte a Messina, la città siciliana maggiormente sospettata di covare malcontento verso la dinastia. Maria Carolina fantasticava l’invio di “almeno 3 mila russi a Messina, e poi gli altri faranno il loro sbarco sia in Puglia o in Calabria”; tuttavia da questi dovevano essere “esclusi i cosacchi, turchi, greci, albanesi non arregimentati”, ritenuti inaffidabili perché pericolosamente indisciplinati. Alle istruzioni che aveva fornito a Micheroux, però, il re aggiungeva che, definito l’accordo per il contingente da destinare a Messina, si sarebbe potuto chiedere ai russi ed anche ai turchi di inviare ulteriori truppe sul continente per combattere i francesi, e in quel caso sarebbe stato sufficiente “un grosso corpo di truppa di qualunque nazione, sia regolata, sia irregolata”. Sarebbe a dire che Ferdinando non badava a scrupoli pur di ottenere la riconquista del regno, incurante di far patire alle popolazioni l’invasione di soldatesche straniere, anche irregolari e pronte al saccheggio, e per di più appartenenti al nemico secolare, il Turco. Ricordiamo che ancora per tutto il secolo XVIII il meridione d’Italia era stato ancora funestato da incursioni piratesche provenienti da basi situate in territori nominalmente soggetti al sultano di Costantinopoli.
Giunto a Corfù, Micheroux dovette mestamente constatare la poca consistenza delle forze alleate che fronteggiavano i 3000 francesi asserragliati sull’isola. Sulle navi erano infatti presenti soltanto 1800 russi e, da parte ottomana, 3000 albanesi. Questi erano sudditi del noto Ali Pascià, governatore di Giannina che sarebbe passato alla storia per la sua ribellione al sultano nel 1820, ma che già in quel 1799 non faceva mistero di preferire una condotta autonoma e addirittura non mancava di manifestare simpatia per i francesi e per le idee di cui erano portatori.
L’emissario borbonico prese atto delle accuse reciproche degli alleati: i turchi rimproveravano a Ushakov, cui spettava il comando congiunto, una certa inazione; l’ammiraglio russo, di contro, si lagnava per il mancato arrivo di consistenti truppe albanesi di rinforzo, promesse con la consueta leggerezza dagli ottomani. Dopo innumerevoli rinvii, reticenze e reciproci sospetti tra gli alleati, l’assalto a Corfù venne dato il 1° marzo. Un efficace cannoneggiamento dalle navi consentì poi lo sbarco delle truppe, che in breve ottennero la capitolazione della guarnigione francese: mentre i russi combatterono lealmente e risparmiarono i nemici che si arrendevano, le milizie ottomane compirono una carneficina (“mozzano il capo indistintamente ai morti, ai feriti e ai vivi”).
L’atteso sblocco delle operazioni che sarebbe dovuto seguire alla presa di Corfù non fu né immediato, né consistente come sperato. Micheroux si adoperava perché le due flotte si presentassero davanti alle coste pugliesi per infondere coraggio nelle città di fede realista (e in tal senso giungevano a Corfù richieste da comuni pugliesi come Trani, Brindisi, Lecce e Otranto), prima di proseguire alla volta di Messina. Nulla però era ancora deciso allorché Micheroux, il 10 marzo, ripartì per Palermo, dove arrivò il 19 successivo. In Sicilia l’inviato ebbe modo di comprendere che la corte borbonica non era affatto interessata allo sbarco in Salento di truppe turco-russe, che avrebbero dovuto essere unicamente impiegate per la riconquista di Napoli; nessuna rilevanza veniva data alle province pugliesi, per le quali sarebbe bastata un’azione dimostrativa della flotta di fronte alla costa.
A Micheroux, tornato nuovamente a Corfù il 9 aprile, Ushakov fece tuttavia sapere che un trasporto di truppe via mare fino a Napoli sarebbe stato troppo dispendioso e la via più ragionevole da seguire sarebbe stata piuttosto quella di uno sbarco sulle coste pugliesi e una prosecuzione della marcia via terra.
Il 13 aprile partì una squadra navale composta da 5 legni: una corvetta e due fregate russe, una corvetta e un brik tripolino, quest’ultimo praticamente un’imbarcazione pirata e, come tale, “regalo” che Micheroux trovò alquanto indigesto. A bordo, sotto il comando del commodoro Aleksandr Sorokin, erano trasportati 250 soldati russi, un numero non inferiore di marinai e 10 cannoni.
Durante la navigazione, la squadra incrociò un’imbarcazione di emissari otrantini, i quali portarono la notizia della caduta di Brindisi ad opera di una spedizione francese partita da Ancona. Boccheciampe, che aveva guidato la difesa della città, era stato preso prigioniero e da quel momento di lui si persero per sempre le tracce.
(continua)
per la I parte vedi:
Il proseguimento della piccola storia conferma l’occidentalizzazione della Russia ad opera dei rispettivi Zar, processo interrotto da Lenin e realizzato da Stalin, poi ripreso, pur con tanti distinguo, da Krusciov e con molta effusione limbatica nell’ultimo trentennio, fino ai recenti “avvenimenti” ucranei che hanno portato l’orologio della storia indietro di parecchi secoli.