di Gianfranco Mele
Introduzione
Che ruolo hanno avuto le erbe nell’ambito del tarantismo? Oltre ad avere impiego come medicinali da parte dei medici del tempo (molti dei quali e in ogni caso, a seguito della osservazione dei casi, hanno ammesso una superiorità del rituale musicoterapeutico), le vediamo inglobate anche nei contesti rituali, sia come presenze evocative di più antichi scenari naturali all’interno dei quali si svolgevano i riti, sia come strumenti complementari di guarigione. Non solo: nel caso dei cosiddetti cirauli o ceramati o tarantolari erano parte di un rito di tipo magico-medicinale che abbiamo descritto in precedenti occasioni.[1]
Analizzando il complesso dei loro impieghi a partire dai tempi più remoti, nei quali specifiche erbe erano considerate, a causa delle loro proprietà (reali e/o attribuite) strumenti salvifici per la cura degli avvelenamenti da morsi di animali, si può ipotizzare che la presenza nell’ambiente del rito di piante come la ruta, la menta, il basilico (sebbene nelle forme rituali pervenuteci relegate ad un ruolo ornamentale o, come asserisce il De Martino di “stimolo olfattivo”), possa costituire il retaggio di loro precedenti ruoli più attivi, e/o la rappresentazione delle virtù loro attribuite sin dalla antichità, ovvero rimedi e antidoti contro i veleni, contro le possessioni, insieme a tutta una serie di credenze magiche connesse al rapporto tra queste piante e gli animali velenosi.
Vi sono poi casi in cui rimedi a base di erbe sono impiegati sia nell’ambito di rituali medico-magici operati da maghi guaritori, sia da parte di medici settecenteschi e ottocenteschi: ad esempio, i vapori di vino bollito insieme a rosmarino ed altre erbe (ruta, salvia etc.) sono utilizzati sia dai cirauli calabresi che dai medici salentini e siciliani.
Le applicazioni immediate di aglio al fine di “non far passare il veleno” sono utilizzate sia dai medici che nella tradizione popolare, mentre vi è una lunga serie di più o meno complessi rimedi a base di erbe, impiegati esclusivamente nella tradizione medica, come l’ Acqua Vitale o l’ Elettuario Antifalangio utilizzati da Epifanio Ferdinando, la Teriaca o il Mitridazio utilizzati sin dall’antichità per i morsi di animali velenosi e suggeriti anche per la cura del tarantismo, e infine decozioni, tinture e applicazioni varie.
Nel caso mitico e atipico del “tarantismo” di Aracne, le erbe sono addirittura non già rimedio, ma causa della metamorfosi della fanciulla: qui non è un morso, non è il veleno inoculato da un aracnide a costringere il personaggio ad assumere quelle stesse movenze da ragno che assumono le tarantate salentine, ma alcune potenti erbe “infernali” che la dea utilizza per l’incantesimo.
La presenza delle erbe nei rituali
E’ nota la presenza di elementi vegetali nell’ambito dei rituali di tarantismo. In genere, a tale presenza sono attribuiti due significati: 1) la ricostruzione all’interno delle mura domestiche di un più antico scenario arboreo (laddove la stanza in cui si svolge il rito viene adornata di fronde, rami verdeggianti, pampini di vite); 2) l’impiego di erbe specificamente aromatiche come “stimolo olfattivo” (su questo aspetto abbiamo pochissima, benchè significativa documentazione).
Tuttavia, laddove si fa riferimento agli stimoli olfattivi la questione pare liquidata in termini di un generico sollievo offerto dal piacevole odore delle piante, trascurando approfondimenti in merito alle loro proprietà specifiche e ad antichi e tradizionali impieghi di quelle piante nella cura dei morsi di aracnidi ed altri animali presenti nella simbologia del tarantismo.
Non sfugge al De Martino la presenza di tali piante aromatiche nel rito, ed è proprio lui ad ipotizzarne l’impiego a fini di stimolo olfattivo.
Nel De Martino, la questione della ricostruzione dello scenario arboreo è ben distinta dalle osservazioni rispetto alla presenza di determinate piante aromatiche. Se difatti pampini di vite, fronde e rami di piante varie hanno un fine più che altro ornamentale e al tempo stesso rievocativo di un rito svoltosi più anticamente all’aperto, alle cosiddette piante aromatiche sembra assegnato un ruolo (benchè secondario) più immediatamente terapeutico.
Il De Martino riprende un passo della Caggiano, la quale nel 1931 aveva osservato il rito svolgersi così nelle campagne di Taranto:
“tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [2]
Le erbe aromatiche utilizzate nel rito osservato dalla Caggiano dunque sono: basilico, cedrina, menta, ruta, e vedremo più avanti, nei dettagli, cosa hanno in comune tali piante. Nel commentare il su riportato passo, il De Martino scrive:
“ I vasi di basilico, di cedrina, di menta e di ruta erano impiegati durante l’esorcismo come stimolo olfattivo: la tarantata di tanto in tanto odorava queste piante aromatiche allo stesso modo come contemplava i colori dei drappi o dei nastri, o si accostava a questo o quello strumento per entrare con esso in particolare rapporto. In altri termini l’evocazione non si compiva soltanto attraverso suoni e colori, ma anche gli aromi potevano avere la loro parte, per quanto relativamente minore, almeno a giudicare dal fatto che questo particolare del rito non trova altri riscontri nella documentazione diacronica”.[3]
Passiamo ora perciò ad approfondire il legame di queste erbe citate nel passo della Caggiano, con il tarantismo, con la sintomatologia a questo attribuita, e con le cure in genere dei morsi degli animali velenosi.
Basilico, tarantole e scorpioni
La presenza del basilico nel rituale del tarantismo è descritta anche in un recente testo di Mario Salvi, che riporta una ricerca effettuata su Villa Castelli:
“La cura per guarire dagli effetti del morso di scorpioni, serpenti ecc. (dal dialetto: “sfogare la malinconia”) prevedeva l’intervento di musicisti e cantori che eseguivano uno specifico tipo di pizzica, detta tarantella, in cui le parti in minore (sonata a “malinconica”) si alternavano a quelle in maggiore, riprese dalla pizzica pizzica.
La signora Lucia De Marco (97 anni) madre del cantore Vito Nigro, ricorda che negli anni della prima guerra mondiale quando si dovevano curare le tarantate, di solito donne il cui marito era al fronte, venivano chiamati suonatori di Francavilla Fontana. Si trattava di un trio costituito da violino, chitarra e tamburello, quest’ultimo suonato da una donna.
La cura della “malinconia” si svolgeva nella casa dell’ammalata, di solito nell’ambiente più grande, che spesso fungeva anche da camera da letto. A terra era posto un vaso di basilico e, al centro della stanza, un oggetto che ricordava nella forma l’animale che aveva morso o spaventato la tarantata.
La terapia musicale durava spesso più di un giorno e in tal caso i musicisti si trattenevano nella casa finchè la tarantata non aveva “sfogato”. [4]
Il basilico, che come abbiamo visto è presente sia nelle osservazioni della Caggiano che in quelle del Salvi, ha un ruolo particolare e una lunga tradizione come erba magica e medicinale. Nel Medioevo era usato per cacciare i diavoli dagli invasati; si pensava inoltre che guarisse dalla melanconia, e per questo vi era l’antico detto “mentis nubila pellit” (caccia l’oscurità della mente).
Per Dioscoride il basilico ha numerose proprietà e impieghi medicinali, da diuretico ad antiinfiammatorio, e ha la particolarità di essere utile rimedio alle punture degli scorpioni (“dissero gli Arabi, che essendo trafitti dagli scorpioni coloro, che quel giorno han mangiato basilico, non sentono dolore alcuno”)[5]. Vi era però anche una credenza opposta: ovvero, secondo Plinio ad esempio, “non puo guarire, avendo quel giorno mangiato basilico, chi sia stato trafitto dagli scorpioni”[6].
Si era attribuito a questa pianta persino il potere di generare scorpioni e vermi: “dissero alcuni,che mettendosi trito sotto una pietra ne nascono gli scorpioni: o che masticato,e posto al sole se ne generano alcuni vermi.”[7] Una variante di questa credenza è nella tradizione popolare siciliana, laddove si crede che gli scorpioni possano nascere da foglie di basilico messe sotto un recipiente colmo d’acqua.
Nicholas Culpeper, medico e botanico inglese del XVII secolo, nel suo trattato Complete Herbal (1653) cita il medico francese Antoine Mizauld (1510-1578) che riporta la credenza secondo cui il basilico messo nello sterco di cavallo genererebbe bestie velenose, e un certo Hilarious che raccontava della credenza diffusa secondo cui odorare troppo il basilico faceva nascere scorpioni nel cervello.[8]
L’ “erba cedrina”
La cedrina citata dalla Caggiano è di difficile identificazione poiché questo nome volgare è attribuito sia alla Lippia citriodora che alla Melissa officinalis. Alla lippia sono attribuite proprietà antinfiammatorie, sedative ed antispasmodiche. Melissa officinalis ha proprietà sedative ed antispastiche, e in medicina popolare veniva utilizzata per il trattamento di isteria e stati d’ansia. Inoltre, come vedremo più avanti, la melissa ha avuto impiego nella cura di morsi di animali velenosi fin dai tempi della medicina antica, ed è citata anche nel trattato Centum historiae di Epifanio Ferdinando, il medico mesagnese del XVII secolo che si occupò di tarantismo.
Menta e animali velenosi
La menta è citata nel Dioscoride del Mattioli anch’essa come erba specifica contro i morsi degli animali velenosi, ed ha addirittura il potere di metterli in fuga: “scaccia tutta la pianta sparsa per terra i serpenti”.[9] Il Mattioli riferisce di proprietà ed usi comuni di varie piante della tribù delle Mentheae e quindi troviamo ad esempio che la calamintha “bevuta, ovvero impiastrata soccorre a i morsi delle velenose serpi”[10] e usata con vino “vale contra a veleni”[11], così come la Mentha pulegium “soccorre con vino a i morsi di numerosi animali”.[12] In medicina popolare, la menta e la mentuccia sono sempre state utilizzate a tali scopi. Nella tradizione salentina, oltre a credere che la pianta potesse far fuggire i serpenti, la si utilizzava anche come rimedio contro i veleni (sia l’infuso che la masticazione delle foglie). La mentuccia ha avuto impiego specifico come rimedio per coloro che venivano morsi dallo scorpione. Epifanio Ferdinando cita la calamintha come rimedio contro tutti i veleni[13], e la menta puleggio è citata come farmaco complementare nella descrizione di in un caso ottocentesco di tarantismo osservato dal medico calabrese Gaetano Spizzirri: in questo frangente la cura non era stata realizzata dal medico ma dai cirauli o ciraulari calabresi e lo Spizzirri era semplicemente testimone oculare dell’accadimento. Più avanti (nel paragrafo dedicato alla ruta), vediamo ancora come la menta puleggio sia citata anche dal Marciano.
La Ruta: da “herba de fuga demonis” a rimedio contro i morsi
L’ultima delle erbe citata dalla Caggiano è la ruta, una pianta utilizzata sin dai tempi più antichi come antidoto contro gli effetti dei morsi di animali velenosi. Plinio la cita come rimedio sia al veleno dei serpenti che a punture di scorpione, di ragno, di ape, di calabrone e di vespa; inoltre, contro la cantaride e la salamandra, e contro il morso dei cani rabbiosi. A questo scopo, fornisce indicazioni di utilizzo del succo di ruta bevuto con vino “in dose di un acetabolo”[14]; applicazioni di foglie tritate, oppure masticate, in impacco di miele e sale, oppure bollite con aceto e pepe. Plinio suggerisce l’impiego della ruta anche a livello preventivo rispetto alle aggressioni di animali velenosi:
“si dice che coloro che si siano cosparsi di succo e anche coloro che portano su di sé la ruta non vengano aggrediti da questi animali dannosi, e che i serpenti, se si brucia la ruta, ne fuggono le esalazioni”. [15]
Pare in effetti, da osservazioni condotte anche recentemente, che le vipere fuggano davvero questa pianta, forse per l’odore a loro particolarmente sgradevole.[16]
Nel capitolo dedicato alla “Difesa contra nimici malefici et venefici”, Cesare Ripa, nella sua Iconologia, riporta la figura di una “Donna che porti in testa un ornamento di pietre preziose […] in mano una pianta che abbia la cipolla bianca detta Scilla […] e al piede vi sia una donnola che tenga in bocca un ramo di ruta”.[17] Più avanti, nella descrizione della figura, il Ripa specifica, in riferimento alla donnola con ramoscello di ruta in bocca, che: “della donnola che porta la ruta in bocca scrivono tutti li naturali, che se ne provvede per sua difesa contro il Basilisco, e ogni velenoso serpente”.[18]
Teriaca e Mitridazio[19], antichi farmaci contenenti entrambi la ruta, sono indicati dal Baglivi e dal Boccone come cure per il morso delle tarantole[20], e si ritrovano anche indicate in un manoscritto anonimo (risalente alla fine del XVII sec. o inizi XVIIII) che parla delle cure per i veleni di ragni e tarantole.[21]
Anche Achille Vergari, medico di Nardò, nella sua opera “Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose” (1859) indica teriaca e mitridazio come antico rimedio, e rende noto che in alcuni luoghi “si usano ancora con successo i sughi di aglio, di cipolla, di ruta, di rovi, tanto localmente che internamente”[22] e infine ricorda che “Celso per le punture delle tarantole e degli scorpioni prescriveva l’applicazione dell’aglio con la ruta pesti e mescolati con l’olio”. [23]
Salvatore Pezzella, in una sua ricerca su antichi ricettari dell’Italia centrale, descrive la pratica del porre la ruta verde sulla parte interessata dal morso di tarantole o serpi.[24]
Ancora, sono menzionate ruta, menta (puleggio) ed altre erbe per la cura del tarantismo nel Marciano:
“Si sogliono anco curare i tarantati, come dice il Mattioli, con dar loro a bere la teriaca, il mitridato, ed altri diversi antidoti contro il veleno, e col fregar sopra la morsura l’aglio scarnificarla e suggerla, fomentandola prima col vino tiepido, o caldo, ove siano stati decotti prima la ruta, l’origano, il dittamo, il puleggio, il serpillo e simili”.[25]
Nel rinascimento la ruta era considerata Herba de fuga demonis[26] la qual credenza ha origini antichissime, difatti già Aristotele ne raccomanda l’uso contro gli spiriti e contro gli incantesimi. Nel Medioevo era pratica usuale depositare corone di ruta sulle tombe per allontanare gli spiriti maligni.
In medicina popolare la ruta era utilizzata anche per la sua azione antispasmodica, antiisterica, antinervosa: la ricetta utilizzata prevedeva l’impiego di “gr. 2 di foglie macerate per 1 ora in gr. 100 d’ acqua bollente”.[27]
Si può comprendere dunque come, a causa di questa mescolanza di credenze ed effettive proprietà, la pianta potesse godere di particolare considerazione anche nell’ambito delle cure per il tarantismo.
Altre testimonianze: malva e altre erbe
Un’altra testimonianza sulla presenza di erbe, è raccontata da Sergio Torsello e Vincenzo Santoro che riportano il caso di Nena, la tarantata 76enne di Alessano che utilizzava una malvacea (molto probabilmente Malva sylvestris):
La sua odissea, o meglio, il suo stato di agitazione “senza orizzonte”, cominciava qualche giorno prima del 29 giugno, la festa di S. Paolo, il solo capace di scendere a patti col ragno, lui che aveva dominato la vipera biblica, e poteva liberarla dal “rimorso” del ragno che opprime col suo mitico rigurgito. Girava di casa in casa, Nena, ad amici e parenti chiedeva i “fiureddhi”, una specie di malva spontanea dal forte potere sedativo, la sola cosa che riuscisse a regalarle qualche sollievo. Poi tornava a casa, si chiudeva in una stanza e cominciava a ballare.[28]
In effetti la malva, oltre ad essere considerata pianta medicinale utile ad ogni malattia (“la malva da ogni male salva”), ha avuto, sin dai tempi del Dioscoride, fama di pianta che cura gli avvelenamenti causati dai morsi dei ragni:
“Giova la decozione della malva fatta insieme con le sue radici bevendola a tutti i veleni mortiferi: ma bisogna che coloro che la bevono, continuamente la vomitino. Vale medesimamente ai morsi de i ragni, che chiamano phalangi…” [29]
L’amica Sandra Taveri mi riferisce della presenza ornamentale di violaciocca a Ceglie e di gelsomino a Cisternino in alcuni riti di tarantismo. Anche qui, c’è da ricordare che in passato l’infuso di fiori di violaciocca mescolato al vino è stato utilizzato come antidoto per i morsi di animali velenosi, mentre il gelsomino ha avuto utilizzi come analgesico e antispasmodico.
Infine, nell’opera del De Martino è riportato il caso di Michele di Nardò, giovane pescatore di 18 anni, che suole annusare non meglio specificati “fiori di campo” alla ricerca di un sollievo o nel tentativo, come dice il De Martino, di “ottenere dall’olfatto quello stimolo che non veniva dall’udito o dalla vista”.[30] Il tentativo di autocura da parte del giovane di Nardò è citato anche in altro passo della ricerca del De Martino, quello in cui riferisce delle osservazioni della Caggiano nelle campagne di Taranto. Dopo aver citato lo scenario rituale con presenza di erbe descritto dalla Caggiano, lo studioso ricorda e correla a questo il caso di Michele, il quale “durante l’esorcismo musicale occasionalmente odorava dei fiori di campo, proprio come se cercasse di trarre degli stimoli olfattivi quanto non riusciva ad ottenere da quelli sonori e cromatici”.[31]
Tra magia e medicina
Vedremo dettagliatamente più avanti, anche se ne abbiamo già fatto diversi cenni, come nell’ambito delle cure mediche (sia quelle specifiche del tarantismo che quelle rivolte più in generale ai morsi di animali velenosi) vengano utilizzate le stesse erbe (ed altre, dalle analoghe proprietà) che abbiamo visto esser presenti (secondo alcune testimonianze) nei rituali del tarantismo. La differenza fondamentale sta però nel fatto che mentre nel caso del rituale costituiscono una mera presenza (una sorta di complemento d’arredo dal De Martino individuato come finalizzato a funzionare come stimolo olfattivo), nel caso delle cure mediche le piante vengono ingerite sotto forma di preparati o utilizzate, dopo decozione e miste a vino, per bagni e vapori. A tale proposito, si potrebbe già osservare che in ambito magico-popolare sono ritenuti sufficienti la semplice presenza o il possesso di una pianta perchè essa infonda le sue proprietà (vi sono numerosi esempi in ambito etnografico che evidenziano questo aspetto: ad esempio una pianta ritenuta afrodisiaca “funziona” come tale non solo se ingerita, ma anche se portata addosso o lanciata verso la persona che si intende ammaliare). C’è però un caso significativo di commistione della sfera del magico con quella medica: si tratta di un episodio al quale già abbiamo accennato nel paragrafo dedicato alla menta. Nel 1827 sulla rivista “L’Osservatore Medico” appare un articolo firmato da Samuele Spizzirri, allievo in medicina e nipote del medico calabrese Gaetano Spizzirri. Il giovane Samuele rendiconta dettagliatamente intorno ad un caso osservato da suo zio: nel luglio del 1826 un giovane di Marano (prov. Di Cosenza) viene morsicato da ben due tarantole mentre lavora nei campi. Segue, nella narrazione, la descrizione di una serie di sintomi conseguenti il morso, tra i quali un continuo “tremore convulsivo” che spingeva l’infermo a danzare. Vano è l’intervento di un chirurgo che applica nella parte colpita (l’avambraccio sinistro) “un bottone rovente” : a quel punto, il padre del ragazzo manda a cercare un ciraularo[32] il quale, dopo aver pronunciato dinnanzi al malato i suoi segreti carmi, interviene con medicamenti a base di erbe (il medico che assiste all’intervento riconosce unicamente, tra queste, il Rosmarino). Il giovane guarisce in tre giorni, e come medicinali oltre al bagno di vapori di vino ed erbe prende, da prescrizione, un succo di menta puleggio:
“Il padre del paziente avendo una cieca fiducia in taluni cerretani di Mendicino, conosciuti col nome di Ciraulari, mandò tosto a cercare il più perito, il quale non appena giunto pronunciò i suoi superstiziosi carmi; applicò con la man dritta, dapprima sulla coscia sinistra, e quindi sulla dritta, e quasicchè tocco dalla mano di Medea, cessa come per incantesimo nel paziente il tremore, da prima nel sinistro, e quindi nel dritto lato; risultamento, che noi lasciamo alla considerazione del lettore per decidere, se debba o no attribuirsi alla morale influenza. Ciò ch’è certo però è che il villano Esculapio avendo fatto prendere al suo infermo, precedentemente coperto con mantello di lana, un bagno dei vapori di vino, dentro del quale avea fatto bollire, in vase di rame, le sue eroiche erbe, tra le quali noi potemmo distinguere il rosmarino, l’infermo al terzo giorno si ritrovò guarito, senza aver preso internamente altro rimedio che un bicchiere di succo di puleggio che gli defaticò lo stomaco”.[33]
Lo Spizzirri prosegue citando poi brevemente un altro caso, quello di un quarantenne sempre di Marano, morso anche lui dalla tarantola. L’uomo viene guarito dallo stesso “cerretano” o “ciraularo” nel giro di tre giorni e con lo stesso metodo.
Samuele Spizzirri in una nota conclusiva ipotizza che il principale ingrediente del bagno di vapori nel quale sono state decotte varie erbe medicinali sia l’ Acanthus mollis. L’ acanto ha avuto in effetti utilizzo come lenitivo per eritemi e punture di insetti, e inoltre era considerato in antichità una pianta de fuga demonis come la Ruta. Tuttavia quella dello Spizzirri resta una ipotesi dal momento che nel composto di erbe suo zio riesce a riconoscere unicamente il rosmarino. Peraltro, vi sono numerose piante (come vediamo anche dalle varie citazioni inserite in questo lavoro) utilizzate nel corso della storia sia propriamente medica che magico-medicinale come rimedio specifico ai morsi di animali velenosi, altre utilizzate per ottenere sudorazioni, oppure ancora con duplice funzione. Descriveremo più avanti una caso analogo, in cui un tarantolato viene trattato, in Sicilia, con inalazione di vapori caldi di vino in cui son stati bolliti rosmarino, ruta, salvia ed altre erbe, ma questa volta il terapeuta è un vero e proprio medico.
Medicina, erbe e tarantismo
In conclusione, le testimonianze rispetto alla presenza di questa tipologia di erbe nell’ambito dei rituali del tarantismo sono troppo poche per poter affermare con certezza che fossero là presenti per le loro qualità di agenti anti-veleniferi e/o per altre loro proprietà (reali o attribuite) medicinali o magico-medicinali quali quelle che abbiamo sin qui riportato. Si può però ipotizzare che la loro presenza derivi da un più antico e definito ruolo (del quale via via la presenza stessa è rimasta a livello meramente simbolico o come debole retaggio di un impiego più attivo e concreto). In tal caso, il divario tra elementi tipici del rito e rimedi medici sarebbe meno eclatante di quanto si sia sempre creduto. Difatti, si tratta delle stesse erbe indicate sia nella medicina popolare che nella letteratura medica di ogni tempo (dall’antichità sino all’ Ottocento) come specifiche per la cura di morsi di tarantole, scorpioni, serpenti e animali velenosi in genere. Cè un passo del Mattioli significativo al proposito:
“Imperochè il lungo suono e il lungo ballare provocando il sudore gagliardamente vince al fine la malitia del veleno di questi animali: come che in quel mezo, che si suona, si gli dia delle theriaca, del mithridato, e dell’altre cose, che universalmente valgono ai morsi delle serpi, e degli aspidi”.[34]
Ancora più significativi, i casi dei tarantolati calabresi descritti da Samuele Spizzirri che abbiamo riportato di sopra: là, una mistura di erbe decotte son parte di un bagno a base di vapori di vino che il ciraularo somministra ai suoi pazienti, nell’ambito di un rituale di tipo medico-magico nel quale hanno una parte essenziale anche carmi e manipolazioni.
Epifanio Ferdinando, nel capitolo dedicato alle cure del morso della tarantola del suo Centum Historiae, cita, oltre ai composti (teriaca, mitridazio) diverse erbe come efficaci contro i veleni: l’ “herba Anchusa” (una Borraginacea), la mentuccia (o calamintha), il timo serpillo, l’ artemisia, il camedrio, il rafano, il nasturzio, l’aglio per uso esterno.[35]
Epifanio elenca anche una serie di rimedi provenienti dall’antica medicina, quali i semi di Pastinaca già indicati dal Dioscoride, il decotto di melissa, l’impiastro di foglie di origano e l’origano in polvere bevuto nel vino, il decotto di centaurea minore assai consigliato da Galeno, la nigella bevuta con vino, l’ aristolochia con vino, il succo di foglie di gelso, il cumino, i semi di agnocasto, il succo di piantaggine già raccomandato da Plinio come rimedio contro morsi e veleni, l’ elettuario di Albucasi (ruta, mnta, piretro, assafetida), gli asparagi cotti nel vino, l’olio di assenzio (Artemisia absinthium) per uso esterno, l’ essenza di rosmarino.[36]
Uno dei medicamenti a base di erbe prescelti da Epifanio è la sua Acqua Vitale. Tale acqua nasce dalla distillazione di una serie di elementi vegetali: fiori di citrus, foglie di quercia, cardo benedetto, scabiosa, acetosella, sonco, salvia, maggiorana, fiori di lavanda, assenzio, rosmarino, tussilagine, melissa, pimpinella, borragine, lentisco, ruta, cipero, alloro, ginepro, corteccia di citrus, tormentilla, curcuma, cinnamomo.[37]
Altro rimedio straordinario per Epifanio è l’ Elettuario Antifalangio, così composto:
“Prendi un’oncia di frutti di mirto e tamarice; semi di pastinaca, nigella, agnocasto, dauco, anice, cumino e origano una dramma; terra sigillata e bolo armeno orientale due dramme di ciascuno; centaurea minore, aristolochia rotonda, mezza dramma di ciascuna; foglie di melissa, trifoglio bituminoso, camepizio e abrotano mezzo pugno di ciascuno; teriaca ottima e mitridato due dramme di ciascuno; succo di cipolla, di aglio, di piantaggine, di atrepici e di edera depurati, quanto basta in parti uguali: si ottenga uno sciroppo col miele. Con questi ingredienti si faccia un elettuario, aggiungendo acquavite quanto basta”.[38]
Non mancano nella trattazione di Epifanio altri consigli e rimedi di carattere non vegetale, come lo sterco di capra applicato sulle morsicature, i lavaggi delle ferite con acqua marina calda, l’induzione con vari mezzi di sudorazione abbondante, il pane masticato applicato sulla morsicatura, il falangio ridotto in polvere e bevuto con vino, il cervello di gallina con pepe, la cantaride (Lytta vesicatoria) nel suo ruolo di “veleno che agisce contro il veleno”, i bagni di sabbia calda o di cenere calda, il bagno in acqua di mare. Epifanio conclude che tutte queste terapie sin qui descritte sono sicuramente efficaci per espellere il veleno della tarantola, ma in Puglia il rimedio più utilizzato ed efficace è quello della musica (come altri medici dei suoi tempi, Epifanio ammette che la “terapia” funziona ma le attribuisce una spiegazione razionale: la musica serve ad espellere il veleno tramite il sudore “con tanto scuotimento del corpo, le forze assopite del veleno, messe al sicuro e tranquille, vengono rimosse e cacciate fuori dal sudore”).[39]
A proposito delle ulteriori “tecniche” suggerite da Epifanio a base di acqua marina, acqua calda e balneazioni, non possiamo non ricordare il ruolo che tali rimedi hanno avuto sia nella medicina antica che nella specifica tradizione del tarantismo. Come già abbiamo evidenziato in altra occasione, la presenza dell’elemento acqua nel rituale di cura è una costante che, se tardivamente si manifesta con la presenza di bacinelle e tinozze piene d’acqua nell’ambiente del rituale domiciliare, presenza interpretata dal De Martino come mera rievocazione di un più antico “scenario acquatico”, suggerisce in realtà un continuum con forme più antiche di cura a base di balneazioni.[40] Allo stesso modo, può essere che la presenza delle “erbe aromatiche” negli ambienti domiciliari in cui si svolgeva il rituale musicoterapeutico fosse l’eco di un ruolo o di una compresenza più attiva di determinate piante nell’ambito della cura medico-magica popolare.
Tornando alle cure mediche del tarantismo, come diversi suoi colleghi anche il Baglivi riferisce in merito alla azione del Rosmarino attraverso diverse ricette (spirito rosmarinato di vino, essenza distillata di rosmarino assunta assieme all’acqua teriacale); cita inoltre come efficaci rimedi la corteccia di limone, l’issopo, la melissa.[41]
Abbiamo già riferito dei rimedi a base di ruta ed altre erbe suggeriti dal Vergari. Ancora, il Vergari elenca applicazioni di tinture aromatiche, [42] e inoltre, dopo aver suggerito cataplasmi emollienti per i pazienti, al fine di medicare la parte ferita, consiglia:
“Dopo curata la parte, i morsicati si facciano stare in letto, facendo lor prendere decozioni diaforetiche, di rosmarino, di foglie d’aranci, di melissa, d’issopo, di serpillo, di edera, di salvia, di ruta, di fiori di viole, di tiglio, di sambuco ec. Con gocce d’ammoniaca liquida. Taluni hanno usato con successo il vino poderoso, e l’alcoole, soli o con teriaca o con polvere di roccasecca” [43]
Vediamo qui nel testo del Vergari comparire anche l’edera, e in una nota a margine il medico neretino specifica che secondo Eliano “I cervi morsicati dalle tarantole velenose trovano il di loro rimedio nell’edera”.
Il Vergari continua elencando una serie di altri rimedi tra cui i bagni d’acqua calda, e le cure segrete dei cosiddetti “Tarantolari, Ciarauli, Benedetti di S. Paolo ecc”. [44]
In una successiva lunghissima nota a margine, infine, il Vergari elenca una serie di antichi rimedi in disuso “per l’avvelenamento de’ falangi”: ne ritroviamo moltissimi, con varie combinazioni di erbe già elencate in questo scritto, e altri che ricomprendono singolari preparazioni nelle quali son presenti anche solanacee tropaniche, papavero da oppio, cicuta ( un antidoto fatto di succo di papavero, pepe, mirto e altri ingredienti con aggiunta di vino, un altro in cui insieme al papavero e varie erbe è presente anche la radice di mandragora, l’antidoto di Eraclide di Taranto in cui si ritrovano succo di cicuta, altea, pepe, mirto ed altre erbe, un antidoto fatto di vino e datura, e vari altri).
Il medico siciliano Giovanni Meli (1740-1815) cura il caso di un sacerdote morso dal ragno provocando la sudorazione del malato attraverso l’inalazione di vapori ottenuti facendo bollire “un mezzo barile di vino unitamente allo rosmarino, alla salvia, alla ruta, alle fronde di frassino, alla radice di genziana, allo scordio, all’abrotano e ad altre erbe amaricanti”. [45]
Paolo Boccone (1633-1704) nella sua trattazione giudica molto efficaci i rimedi proposti dal Baglivi e li ricapitola, dopo aver evidenziato come a suo parere, se si opera un intervento tempestivo con aglio pesto sulla parte offesa, il veleno “non passa più oltre”, e la persona morsicata “non patisce alcuno impulso al ballo, perchè non è seguita alcuna fermentazione”.[46] Il Boccone indica questo rimedio come empirico e tradizionale, provato dall’esperienza degli abitanti di Brindisi che solgono utilizzare tale intervento, insieme all’uccisione, ove possibile, del ragno per esser sicuri di non patire ciclicamente il ritorno dell’esperienza del male.
Le erbe come agente eziologico nel “tarantismo” di Aracne
Concludo questa rassegna sul ruolo e la presenza delle erbe nel tarantismo con la citazione di un mito spesso rievocato quando si va alla ricerca delle origini della credenza e del rito o di collegamenti tra questi ultimi e tradizioni antiche. Nel ricollegare il fenomeno popolare al mito di Aracne, in genere non si presta molta attenzione ad un particolare: come Athena trasforma Aracne in ragno. Ecco il passo, tratto da Le Metamorfosi di Ovidio, che ci interessa:
“… nell’atto d’andarsene, la cosparse di succhi d’erba infernali, e subito, a contatto col malefico filtro, le caddero i capelli e con essi il naso e le orecchie; la testa si fa minuscola ed è piccolo anche il corpo, tutto quanto; sui fianchi sottili zampe al posto di gambe spuntano; il resto lo occupa il ventre, da cui quella emette un filo e, ormai ragno, tesse la tela come faceva”.[47]
Athena non si serve dunque di un ragno e del suo veleno per compire il suo incantesimo (procedimento pure utilizzato in ambito magico e descritto dal Della Porta nella sua Magia Naturalis[48]), né di astratti o mistici poteri: utilizza uno strumento naturale, quelle erbe infernali in grado di provocare alterazioni psicomotorie in chi le assume, assai ricorrenti in ambito stregonesco.
Nel caso del mito di Aracne siamo dunque in presenza di un tarantismo “atipico”: l’agente eziologico non è il veleno del ragno, ma quello contenuto in alcune erbe. Esiste difatti una serie di piante utilizzata in ambito stregonesco per incantesimi finalizzati alla trasformazione di uomini e donne in animali. Tali piante sono identificabili in alcune Solanacee tropaniche che provocano effetti allucinatori e delirogeni (ma su questo argomento mi soffermerò nei dettagli in un prossimo articolo).
Note
[1] Gianfranco Mele, Cirauli, sanpaolari:i maghi serpentari del sud in La Voce di Maruggio, 2 ottobre 2021 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/cirauli-sanpaolari-i-maghi-serpentari-del-sud.html vedi anche Gianfranco Mele, Il tarantismo e i “cirauli” calabresi. Due casi riportati su L’Osservatore Medico nel 1827, La Voce di Maruggio, 12 ottobre 2021 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/il-tarantismo-e-i-cirauli-calabresi-due-casi-riportati-su-losservatore-medico-nel-1827.html
[2] Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72
[3] Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Net Nuove Edizioni Tascabili, 2002, pag. 131 (1a edizione Il Saggiartre, Milano, 1961). Come vedremo più avanti, il De Martino cita anche un altro caso nel quale un tarantato (Michele di Nardò) cerca di trarre sollievo da alcuni non meglio identificati “fiori di campo”.
[4] Mario Salvi, Domenico Caramia, La pizzica nascosta. L’organetto nella musica e nei canti tradizionali di Villa Castelli, Edizioni Kurummuny, LE, 2010, pag. 25
[5] Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride, Pezzana, Venezia, 1744, pag. 332
[6] Ibidem
[7] Pietro Andrea Mattioli, op. cit., pag. 333
[8] Nicholas Culpeper, The complete herbal, 1653 (ried. Milner & Sowerby, 1858, pag. 47)
[9] Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride, Venezia, Valgrifi, 1555, pag. 359
[10] Ibidem
[11] Ibidem
[12] Pietro Andrea Mattioli, op.cit., pag. 353
[13] Epifanio Ferdinando, Centum historiae, seu observationes et casus medici, Venezia, 1621, pag. 264
[14] recipiente per l’aceto, e unità di misura pari a lt. 0,068
[15] Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, XX, 132-133
[16] Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 231
[17] Cesare Ripa, op. cit., pag. 147
[18] Cesare Ripa op. cit., pag. 148
[19] Antico rimedio a base di 20 foglie di ruta, sale, 2 noci e 2 fichi
[20] Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in: Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 105
[21] A.A.V.V., Sulle tracce della taranta, CRSEC – Regione Puglia, 2000, pag. 57
[22] Achille Vergari, Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, Napoli, Stamperia Società Filomatica, 1839, pag. 32
[23] Ibidem
[24] Salvatore Pezzella, Fitoterapia e medicina tra passato e presente: alcuni ricettari dell’Italia centrale, secc. XV-XVII, svelano i segreti delle piante curative, Orion Edizioni, 1997, pag.159
[25] Girolamo Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Napoli, Stamperia dell’Iride, 1855, pag. 182
[26] Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, 1996, ried. 2016, pag. 230
[27] Antonio Costantini, Marosa Marcucci , Le erbe le pietre gli animali nei rimedi popolari del Salento , Congedo Editore, pag. 117
[28] Sergio Torsello, Storia di Nena la tarantata, Pietre, marzo 1999, pag. 8
[29] Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride, Pezzana, Venezia, 1744, pag. 297
[30] Ernesto De Martino, op. cit., pag. 81
[31] Ibidem, pag. 131
[32] I ciraulari (o cirauli, cerauli, ceravoli) sono ( in Calabria e Sicilia) una sorta di maghi-guaritori-incantatori specializzati nel curare dal morso di serpenti o domare serpenti e scorpioni. Si veda al proposito Gianfranco Mele, Cirauli, sanpaolari:i maghi serpentari del sud, cit.
[33] Samuele Spizzirri, Osservazioni sul morso della tarantola, del sig. Gaetano Spizzirri, Medico in Marano, in L’ Osservatore Medico, Giornale di Medicina e delle Scienze Affini, Anno V n. XIX, 1 ottobre 1827, pp. 145-146
[34] Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anarzabeo, Valgrifi, Venezia, 1568, pag. 385
[35] Epifanio Ferdinando, Centum historiae, seu observationes et casus medici, Venezia, 1621, pag. 264
[36] Epifanio Ferdinando, op. cit., pag. 265
[37] Epifanio Ferdinando, op. cit., pag. 161
[38] Eipifanio Ferdinando, op. cit., pag. 266
[39] Epifanio Ferdinando, op. cit., pag. 268
[40] Gianfranco Mele, Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d’acqua, Fondazione Terra d’Otranto, novembre 2019 https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/25/antiche-cure-e-rituali-del-tarantismo-presso-il-mare-le-sorgenti-e-i-corsi-dacqua/
[41] Traggo il passo del Baglivi cui mi riferisco, dal testo di Arturo Viglione Il Tarantismo, studio clinico della malattia che per secoli aveva sconfitto i Medici, Pacini Editore, Pisa, 2012, pag. 200
[42] Achille Vergari, op. cit., pag. 32
[43] Achille Vergari, op. cit., pag. 33
[44] Achille Vergari, pp. 34-36
[45] Giovanni Meli, Capitolo di lettera in cui si descrivono gli effetti estraordinari del veleno d’un Ragnatello, in A.M. Spadafora, “Opuscoli di autori siciliani”, t. XII, Stamperia de’ Santi Apostoli, Palermo, 1771
[46] Paolo Boccone, Intorno la tarantola della Puglia, in Museo di fisica e di esperienze variato, e decorato di osservazioni naturali, note medicinali, e ragionamenti secondo i princìpi de’ moderni, Venezia, 1621
[47] Ovidio, Metamorfosi, IV, vv. 129 – 140
[48] Giovanni Battista Della Porta, La Magia Naturale, Giunti Demetra Ed., 2008, pag. 158, titolo ed edizione originale Magia Naturalis, sive de miraculis rerum naturalium, libri XX, Napoli, 1859
L’articolo è davvero molto interessante e completo e offre una visione diversa del tarantismo che può completare la comprensione del rituale coreutico musicale ma che comprendeva altri elementi che potevano coinvolgere altri sensi influenzando la psiche del soggetto.
L’articolo mi ha fatto venire in mente un’altro evento del Salento, la festa di San Donato a Montesano Salentino. Anche lì, in un contesto diverso, i soggetti malati di epilessia, avevano un rapporto personale e particolare con il Santo. Lì è presente una gran quantità di basilico, sulla statua del santo, ma anche su bastoni da portare in processione.
Credo che la componente olfattiva diventasse parte di quelle situazioni sensoriali che portavano al trance.
consiglio a chi volesse approfondire questo bellissimo libro che ho trovato i rete di Donato Margarito che si intitola La festa di San Donato: possessione e catarsi.