di Mario Colomba
Per alcuni decenni, fino all’inizio degli anni ’50, la preparazione del conglomerato veniva eseguita a mano, senza uso di mezzi meccanici, con una serie di operazioni successive, nel rispetto delle norme di cui al D.L. n.2229/1939
Nell’ambito del cantiere e, se era di piccole dimensioni, sulla pubblica via, si sceglieva un’area possibilmente pavimentata su cui si disponevano in piccoli cumuli, accostati ed allineati, i contenuti del numero di calderine di breccia necessarie per la formazione di ciascun metro cubo di conglomerato (che era formato per regolamento da mc. 0,800 di breccia, mc. 0,400 di sabbia di frantoio e q.li 3,00 di cemento); quindi, orientativamente: 70 calderine di breccia disposte in un rettangolo 7×10. sulla massa così predisposta, dopo averla spianata, si disponevano 35 calderine di sabbia e, dopo aver spianato il tutto, si spandeva uniformemente il cemento proveniente dal numero di sacchi di carta, da kg. 50 cad., necessari per il dosaggio del 3% di cemento.
Solo dopo alcuni anni si capì che era più agevole per i paleggiatori disporre la sabbia al primo strato, prima della breccia.
Ai lati della massa così costituita si disponevano, in posizione contrapposta, 2 o 4 paleggiatori che provvedevano a rivoltare il tutto e ad omogeneizzarlo a secco.
Successivamente, con le stesse modalità e con l’aggiunta di piccole quantità di acqua che veniva versata progressivamente (nella misura massima di 120 l x mc.), prima si inumidiva e poi si rendeva pastosa la massa, sempre rivoltandola continuamente con l’uso della pala, che così assumeva la consistenza e la caratteristica di conglomerato, pronto per essere trasportato in piano o in alto, con l’impiego delle calderine, e versato nel sito di impiego. Risultava difficile e faticoso limitare la quantità di acqua di impasto nella dimensione prescritta. Frequentemente, sia per facilitare la lavorazione che la messa in opera , si aumentava anche del 50% provocando una più intensa evaporazione nella fase di presa del legante con conseguente insorgenza di micro lesioni all’interno del manufatto, pregiudizievoli per la lunga conservazione.
Il getto del conglomerato, altrimenti detto calcestruzzo di cemento, comportava la preventiva bagnatura del sito di impiego e delle casseforme per evitare la perdita troppo rapida di umidità con pregiudizio della presa e indurimento del cemento. Successivamente mediante continua pilonatura, con l’impiego di pestelli o altri attrezzi manuali, veniva favorita la costipazione dell’impasto e la maggiore adesione della malta ai ferri di armatura ed alle casseforme per evitare quelle discontinuità che si manifestavano in superficie con i nidi di ghiaia.
La resistenza finale del calcestruzzo era spesso influenzata da un inadeguato assortimento granulometrico degli inerti. Infatti, la breccia che veniva usata inizialmente era caratterizzata da granuli delle dimensioni di circa 3 cm. con la quale la percentuale di sabbia prescritta dal regolamento con il corrispondente dosaggio di cemento era sufficiente a costituire la quantità di malta necessaria per avviluppare i granuli di breccia. Però, con l’introduzione di sezioni resistenti sempre più limitate ed il conseguente ravvicinamento dei ferri delle armature metalliche, si manifestò l’esigenza di una scelta granulometrica più sottile. Per conseguenza, la minore dimensione dei granuli di breccia esigeva una maggiore quantità di malta cementizia e quindi di sabbia. Tuttavia, la disponibilità di sabbia era molto limitata poiché proveniva dalla produzione di breccia con l’uso di frantoi a ganasce accoppiati a vagli rotanti che selezionavano limitate percentuali di sabbia rispetto al volume di breccia di diversa granulometria prodotto.
Per questo spesso si riscontra la presenza di conglomerati fortemente alveolati o confezionati con l’impiego di sabbia di mare, con evidenti influenze negative sulla resistenza e durevolezza del prodotto finito.
Solo negli anni ’60 il problema venne superato con l’introduzione di mulini che producevano sabbia in abbondanza dalla triturazione della breccia.
L’impiego progressivamente sempre più diffuso del conglomerato portò allo sviluppo di una tecnologia relativa sia al confezionamento che alla messa in opera di armature metalliche, casseforme, puntellamenti, ecc . e di maestranze di nuova generazione, che non avevano nulla in comune con quelle generate dall’arte muraria, costituite soprattutto da carpentieri e ferraioli.
All’inizio, il carpentiere era anche ferraiolo ma successivamente una più decisa specializzazione portò alla formazione di competenze distinte. Il carpentiere omogeneo con il mestiere del falegname, era abile soprattutto nell’impiego delle assi di legno per la formazione di casserature, di forma sempre più ricercata e complessa, che fossero in grado di sostenere sia il peso del conglomerato che la spinta orizzontale che, nel caso delle travi, poteva deformare le sponde verticali.
Per le armature metalliche si usavano tondini in ferro omogeneo lisci che , nei vari diametri, venivano tagliati con l’impiego di cesoie a mano, piegati alle estremità per la formazione degli uncini (ganci) o nelle varie sagome richieste per staffe e ferri piegati e messi in opera con legature in filo di ferro cotto. Non esistevano i tondini di acciaio ad aderenza migliorata.
Le coperture piane, che ebbero una discreta diffusione agli inizi del ‘900 nel nostro territorio, furono realizzate con travi in acciaio a doppio T disposte parallelamente con interasse di circa 65 cm.
Le estremità delle travi venivano incastrate nella muratura e gli interspazi venivano coperti con fette di tufo della sezione di cm. 25×12, ricavate dalla divisione in due parti di conci di tufo delle dimensioni di cm. 63x30x25 (pizzotti).
La scarsa coibentazione, l’accoppiamento con lastrici solari facilmente fessurabili a causa delle notevoli dilatazioni termiche dell’acciaio che provocavano frequentemente anche vistose fessurazioni delle murature portanti, la frequente formazione di ruggine, ecc. ne determinarono il disuso, favorito pure dall’adozione di una nuova tipologia di coperture piane che prevedeva l’impiego del conglomerato cementizio.
(continua)
Per la parte precedente vedi qui:
Molto interessante, grazie Marcello e grazie all’autore