di Egidio Presicce
Un’altra grande ed incomprensibile novità, diabolica secondo taluni, riguardava l’illuminazione senza petrolio od altro combustibile, per la qual cosa erano già evidenti ed avanzati lavori in corso. Nella piazza, centro di conoscenze varie, questo argomento s’infrangeva contro ostinate ottusità ed irriducibili incredulità. Quando giunse nell’opinione pubblica la voce “energia elettrica”, si verificò tutto un fiorire di immaginazioni che portarono la curiosità ai massimi livelli. Nella strada che porta alla stazione di Nardò Città era un continuo via vai di persone che andavano per sbirciare i segreti della misteriosa energia e dei lunghi fili metallici che dalla centrale, attraverso le terrazze e su pali di legno raggiungevano la piazza del Municipio. Il giovane sacerdote don Leonardo Filoni, essendo studioso ed appassionato di fisica ed elettrotecnica, tentava di informare ed istruire la gente su quanto era in preparazione. Tuttavia, si trovava dinanzi ad insormontabili difficoltà comunicative con chi sosteneva che i fili metallici, tesi per le vie della città, fossero sottili tubicini entro cui passasse il misterioso liquido per la nuova illuminazione.
Questa poco chiara “diavoleria” scatenò grande curiosità popolare che si accese ancor di più quando due personaggi forestieri, uno dei quali parlava lingua straniera, iniziarono a far trasportare, nei pressi della “Porta ti lu pepe”, strane apparecchiature destinate alla costruzione di una “centrale” per la produzione di “energia elettrica”.
I tempi per la nuova illuminazione erano maturi ed una mattina la gente in piazza venne attratta dall’operato di quattro operai, che alla base dell’obelisco erano intenti a montare scale di legno fermandole con cordami. L’operazione era destinata a portare alla sommità i cavi dell’energia elettrica, che la gente comune chiamava “li fierri filati”. Raggiunta la vetta ed assicurate le scale, affinché non avvenissero pericolosi spostamenti od oscillazioni, ripresero i lavori sospesi nella mattinata, con una piazza gremita di persone, ansiose di vedere la conclusione dell’insolita operazione. Il gruppo operante nell’apprensiva impresa era formato da Salvatore Presicce, elettricista direttore dei lavori, Frangiscu de Cupertinis, detto “lu lampiunaru”, Etture Santo, detto “lu paratore” e Cosimo Mollone, carpentiere. A salire sulla vetta fu Presicce che si portò, appeso a tracolla, un supporto metallico a forma di giglio su cui erano già state sistemate tre lampadine. L’aggeggio completo venne fissato nella mano destra della statua e quindi collegato con i cavi elettrici già predisposti. Fatto ciò, l’operatore iniziò la discesa e – giunto a terra – era atteso proprio sotto la scala dal commissario di pubblica sicurezza, con minaccia di arresto per l’operazione che avrebbe potuto causare panico in una piazza gremita di persone.
La pedante ed eccessiva rigidezza del commissario venne smorzata dagli applausi che vennero tributati dal pubblico che aveva assistito all’avventurosa scalata. Giorni dopo in piazza, in una domenica sera di fine maggio, mentre la banda cittadina prestava servizio come per ogni domenica dell’anno (come stabilito da contratto), improvvisamente vennero accese per la prima volta le prime tre lampadine elettriche sistemate in cima all’obelisco. L’evento colse di sorpresa l’intera piazza, che esplose in grida di festa e pubblica acclamazione per la nuova e brillante luce che metteva in ombra i quattro lampioni con la tremolante fiammella a petrolio. La banda, per l’avvenimento, troncò il pezzo in esecuzione attaccando immediatamente con la marcia trionfale dell’Aida di Verdi in un corale e coprente battimano che scandiva il tempo musicale con perfetto sincronismo. Fu per la Città una serata indimenticabile, si verificò tra le persone uno scambio di auguri come per il primo giorno dell’anno. Nel caffè di Rocca e nella cantina di Tisciticchio, una festosa ressa segnò un’occasione di larghi consumi. Con entusiasmo traboccante, gli operai dell’impresa luminosa erano stati tenuti, da amici e conoscenti, protetti da una barriera di bicchieri di vino. Tra i protetti era anche l’autore responsabile Salvatore Presicce, che da quella sera la gente di Nardò indicò come “Totò ti la luce” o “Totò l’elettricista” denominazioni che avrebbe poi portato per la vita.
Alcuni giorni dopo, sempre in piazza, venne installata una grossa lampada da 500 Watt, mentre nei quattro lampioni a petrolio si operò l’adattamento di una lampada da 150 Watt. Con questo ultimo intervento si considerò ultimata la fase operativa per l’illuminazione della piazza e si continuò a lavorare per l’allargamento della rete elettrica in tutta la Città, alimentata da un generatore che forniva energia a 110 Volt. Completata la pubblica illuminazione, si dette il via agli allacciamenti per l’illuminazione privata ed il primo impianto in assoluto fu fatto in Cattedrale, gratuitamente a scopo dimostrativo. Il secondo impianto venne realizzato nel palazzo del barone Tafuri, poi si passò al palazzo di don Peppino Personé in via Principe Umberto, poi ancora nel palazzo vescovile e così via, con evidente lentezza, furono realizzati altri impianti nelle nobili dimore. La rete elettrica raggiunse anche qualche abitazione della classe media, ove era ancora alta una sorta di diffidenza precedentemente diffusa circa quelle strane corde tese da terrazzo a terrazzo che avrebbero sostituito il petrolio. Altre incertezze e titubanze erano di natura economica, per cui la quasi totalità dell’opinione pubblica guardava questo progresso innovativo come un’indiscutibile espressione di grande lusso non certamente adatto ad ogni ceto del contesto cittadino.
(pubblicato in: Luci ed Ombre di un’Epoca. Nardò nel primo cinquantennio del ‘900: avvenimenti, personaggi, usi, costumi (Besa edit., Nardò 2019)
Nell’interessante capitolo non si specifica che a portare l’energia elettrica a Nardò e poi anche a Leverano e Porto Cesareo fu un imprenditore neretino, Ottorino Vaglio, industriale, proprietario tra l’altro di un imponente molino a cilindri di alta macinazione, di un pastificio e di una avveniristica fabbrica di ghiaccio.
Ottorino Vaglio. E’ un nome che mi ritorna in mente perchè ripetutamente pronunciato da mio padre (De Benedittis Salvatore, Nardò 1909) quando parlava della sua giovinezza. Conosciuto come “Totò Maresciallo” (forse perchè ci sarà stato qualche militare in famiglia) aveva sempre lavorato per don Ottorino, prima con il carbone e poi con l’energia elettrica. Quando poi l’azienda si ingrandì venne mandato prima a Leverano, poi a Salice e infine a Veglie ove perde il nome di “Maresciallo” e acquista quello di “Totò cabinista”, perchè responsabile delle cabine elettriche locali. I suoi ricordi erano focalizzati specialmente quando lavorava a Nardò perchè don Ottorino lo incaricava annualmente di illuminare la statua dell’Immacolata e papà, agile come era, montava una serie di scale per raggiungere la statua in cima alla guglia che procedeva ad accendere tra gli applausi della folla sottostante. Ci sarebbe da scrivere di più sull’attività di don Ottorino.