Gli antichi toponimi dell’isola di Sant’Andrea*

di Nazareno Valente

 

A leggere gli autori antichi si può percepire la mutabilità e fugacità delle glorie terrene.

Brindisi ne è un evidente esempio: celebrata e rinomata in epoca romana, s’è eclissata insieme all’impero per poi riprendersi e declinare più volte nei successivi periodi. L’isola di Sant’Andrea, che ne chiude il porto, non poteva che subire la medesima sorte, anche se, proprio in questi giorni, il restauro di parte delle fortezze che vi sono ospitate l’ha riportata agli onori delle cronache cittadine. Allo stato attuale, da quando una diga l’ha collegata alla terraferma, l’isola non trova neppure più spazio nelle cartine geografiche, tanto da far ritenere pure ad illustri storici che essa esisteva solo nella fantasia dei geografi dell’antichità. Come se, non essendoci più, non può esserci mai stata. In definitiva, una specie di “isola che non c’è” all’incontrario.

Eppure in un lontano passato rappresentava una delle caratteristiche peculiari del porto brindisino e, come tale, suscitava l’attenzione di strateghi, geografi e storici che si soffermavano a coglierne gli aspetti basilari.

Lo stesso Cesare, impegnato nella scontro fratricida con Pompeo, ne evidenziò infatti l’importanza strategica narrando due episodi del tutto simili nei quali i pompeiani, presidiata l’isola, cercarono d’imbottigliare la sua flotta di stanza a Brindisi fallendo l’impresa per puro caso. Nella prima occasione, fu il maltempo a rendere impossibili le operazioni di approvvigionamento d’acqua costringendo gli occupanti, impediti a loro volta a rifornirsi autonomamente per la stretta sorveglianza imposta sul litorale dai cesariani, a desistere dal tentativo; nella seconda, è la fine delle ostilità a rendere vana la manovra.

Cesare mise in risalto le importanti funzioni di presidio e di difesa svolte da quell’isola situata proprio di fronte al porto brindisino («quae contra portum Brundusinum est»1), sebbene, tutto preso dal descrivere gli avvenimenti bellici, non si diede pena di tramandarcene il nome.

Lo stesso primo episodio è ripreso anche da Cassio Dione (II secolo d.C. – III secolo d.C.) che tuttavia non apporta nulla di nuovo alle nostre conoscenze, riferendo anch’egli solo la posizione frontale occupata rispetto al porto da quello che indica come un semplice “isolotto” («νησίδιον, nesìdion»2).

Forse per questioni metriche, pure il poeta Lucano (I secolo d.C.) si astenne dal riportarne il toponimo, per quanto la sua descrizione poetica colga gli aspetti principali che rendevano l’isola di Sant’Andrea famosa tra i naviganti ed essenziale per la specificità dell’approdo brindisino. Precisa infatti che lì non ci sarebbe stato porto, se la natura non l’avesse fornito di un’isola che accoglieva sui suoi scogli la violenza dei venti di maestrale, respingendone le onde stanche («portus erat, si non violentos insula Coros / exciperet saxis lassasque refunderet undas»3).

L’affermazione potrebbe apparire di per sé eccessiva in quanto attribuisce una così grande importanza ad un’entità poco più estesa d’un banale isolotto, e in aggiunta del tutto incomprensibile, se non contestualizzata con l’idea di porto che si aveva a quel tempo.

I greci ed i latini utilizzavano rispettivamente i termini di «ὅρμος, hormos» e di «statio» per indicare un approdo dove era possibile unicamente attraccare e quelli di «λιμήν, limèn» e di «portus» per le strutture che consentivano invece, oltre al semplice ormeggio, anche un’adeguata protezione dai venti e dalle onde provenienti dal mare aperto. Un porto per essere tale doveva pertanto avere un antemurale naturale o artificiale che ne custodisse l’imboccatura, come spiegava Vitruvio4, un illustre architetto del I secolo a.C. E la protezione naturale più appropriata per una rada era costituita appunto da un’isola, tanto è vero che in tali casi i greci utilizzavano il termine di «εὐλίμενον» (eulìmenon), vale a dire buon porto, che riservavano alle strutture portuali di grande pregio, come fa Strabone5 (I secolo a.C. – I secolo d.C.)  nel caso del porto di Brindisi.

Philipp GALLE, Pharos, ll Faro di Alessandria, 1572

 

Un’espressione del tutto simile riecheggia nel medievale «bom porto» che è appellativo attribuito nel portolano più antico, tràdito da un unico manoscritto risalente al 1296, “Lo Compasso de navegare”, a tutti quei porti che, protetti da un’isola, costituiscono un sicuro ricovero nei momenti più tempestosi. Così «Brandiczo [Brindisi] è bom porto» perché «denanti lo dicto porto à una isola che s’appella Sancto Andrea»6. In definitiva l’isola di Sant’Andrea ricopriva un ruolo di non secondaria importanza per lo scalo brindisino, essendo una delle caratteristiche che concorreva in maggior misura a farlo ritenere uno dei porti più rinomati dell’antichità, e proprio per questo godeva di giusta considerazione presso gli autori che la citavano spesso, pur trascurando di indicarne il toponimo, considerato che quello di Sant’Andrea è di chiara epoca medievale.

Quasi in contemporanea con il poeta Lucano anche il geografo Pomponio Mela s’interessò alla nostra isola e, per la prima volta, mentre elencava le isole del mare Adriatico, ne rese noto il toponimo. Egli, al termine d’un lungo passo, riporta infatti che, analogamente a quanto avviene per il porto di Alessandria d’Egitto, anche di fronte a Brindisi si trova un’isola chiamata Pharos («atque ut Alexandriae ita Brundisio adiacens Pharos»7).

È senza dubbio questo uno dei nomi in antichità assegnati all’isola brindisina, anche se occorre rilevare che, contrario a tale attribuzione, si dichiarò sin dal secolo scorso Silberman, il quale riteneva che Mela avesse preso una solenne cantonata nel collocare nelle vicinanze di Brindisi l’omonima isola di Pharos (ora Lesina/Hvar) che si trova invece molto più a nord sulla costa Dalmata8. In effetti Silberman non giustifica questa sua affermazione ed è talmente perentorio da far  sospettare che egli non fosse probabilmente neppure a conoscenza dell’esistenza dell’isola di Sant’Andrea, visto che nel frattempo era sparita dalle cartine geografiche. Lo s’intuisce dal fatto che fornisce unicamente la prova dell’esistenza dell’isola dalmata di Pharos, che però di per sé non preclude la possibilità che ve ne sia una di omonima nello stesso mare Adriatico. Ora, osservato che in antichità le omonimie non erano certo delle eccezioni — e di isole Pharos ce n’era più d’una, come per altro avviene tuttora per le isole chiamate di Sant’Andrea — la prova addotta risulterebbe risolutiva solo se vicino a Brindisi non ci fosse mai stata nessuna isola. Mentre nella realtà c’èra, e c’è tuttora, sebbene ormai unita alla terraferma.

Dello stesso parere di Silberman s’è dichiarato pure Braccesi, un illustre grecista tra i miei favoriti, che parla di contesto «quanto mai scorretto, se consideriamo che il geografo colloca l’isola dalmata di Pharos (Hvar/Lesina) nelle immediate vicinanze del porto di Brindisi»9.

Ora che Pharos sia il toponimo antico dell’attuale isola dalmata di Lesina non c’è dubbio alcuno, ma che una simile circostanza impedisca in linea teorica la possibilità che l’isola brindisina abbia avuto lo stesso nome appare un po’ azzardato, salvo, come già detto, che non si parta dal presupposto — peraltro errato — dell’inesistenza di un’isola nelle vicinanze di Brindisi. In pratica, come vedremo nel prosieguo, gli indizi confortano addirittura l’opinione di Pomponio Mela che non pare proprio sia incorso in un abbaglio così grossolano.

Serve innanzitutto rilevare che l’isola dalmata di Pharos visse il suo periodo di maggiore visibilità in concomitanza con le guerre illiriche che ebbero termine nel 219 a.C. In quella circostanza la sua città più importante, l’omonima Pharos, fu rasa al suolo e da quel momento l’isola finì in un cono d’ombra, tanto che nel periodo in cui Mela scrive — nella prima metà del I secolo d.C. —era un’isola del tutto anonima, a differenza del porto di Brindisi e dell’isola di Sant’Andrea che erano invece nel loro momento migliore. Per questo parrebbe già di per sé bizzarro che un addetto ai lavori del calibro del geografo andaluso abbia potuto confondersi in maniera così banale trattando di Brindisi che allora non era, come adesso, una comune cittadina ma una metropoli tra le più conosciute e frequentate.

Esaminando poi il passo e, soprattutto, l’elenco di isole proposto dal nostro geografo, ci si può accorgere di un’altra circostanza interessante.

In Adriatico, egli dichiara, ci sono le seguenti isole: «Apsoro, Discelado, Absirtide, Issa, Titana, Hydria, Elettridi, Corcira la Nera, Linguarum, Diomedea, Aestria, Asine, nonché Pharos vicina a Brindisi come l’omonima isola ad Alessandria»10. Ebbene dalle isole che si riesce ad individuare con un buon margine di sicurezza, vale a dire: Apsoro (Lussino/ Lošinj), Discelado (Pago/Pag), Issa (Lissa/Vis), Corcira la Nera (Curzola/ Korčula), Diomedea (Tremiti), si può facilmente evincere che Pomponio Mela segua nell’elencazione una direzione ben precisa, quella che va da nord a sud. Accorgimento usuale in resoconti del genere, che gli autori adottavano allo scopo principale di non mandare in crisi i lettori, per cui, prescelto un senso di percorrenza, esso veniva seguito in tutta la narrazione. Sarebbe pertanto davvero incomprensibile che il geografo, dopo essersi attenuto a questo criterio per tutto il tragitto dell’Adriatico, giunto a Brindisi, sua estremità meridionale, avesse deciso d’invertire all’improvviso il senso di marcia e, invece, di trattare dell’isola brindisina lì vicina, si fosse messo a parlare  di una località lontana qualche centinaio di chilometri. Uno zigzagare un po’ fuori dall’ordinario.

Un indizio ancor più significativo lo si può desumere basandoci sul significato letterale del passo che rende evidente come il geografo intendesse mettere in relazione l’isola, che  si trova vicina al porto di Brindisi, con quella prossima al porto di Alessandria e, in pratica, le due città stesse.

Era questo un parallelo proponibile in quel periodo: le due città erano entrambe celebri; i loro porti erano tra i più utilizzati e famosi; le rispettive isole risultavano comparabili per estensione, per disposizione rispetto alla rada e, quel che è più rilevante, per funzione, rappresentando infatti l’ideale barriera che rendeva i due approdi dei «portus», nell’accezione propria del termine.

D’altra parte, ritornando a Cesare ci accorgiamo che anche il famoso stratega sottolineava l’analogia tra i due porti e le rispettive isole utilizzando espressioni praticamente simili per rappresentarle. Come già riportato, egli descrive due episodi in cui l’isola brindisina è protagonista, e nel secondo la caratterizza con la seguente locuzione «insulam obiectam portui Brundisino»11, (l’isola situata di fronte al porto brindisino). Per descrivere l’isola di Pharos, posta di fronte ad Alessandria, usa termini analoghi («haec insula obiecta Alexandriae portum efficit»12)conferendole in aggiunta, con l’espressione «portum efficit», la stessa funzione che, come già citato, Lucano assegnava all’isola  brindisina, cioè a dire di essere l’elemento costitutivo del porto.

Serve ricordare che sull’argomento anche Plinio il Vecchio sottolinea lo stesso concetto — ed usa in aggiunta lo stesso verbo, «efficio», sia pure nella forma passiva — quando, elencando anch’egli le isole che si trovano nel Basso Adriatico, riporta che non ve ne sono degne di essere citate, tranne quelle poste davanti a Brindisi che, grazie alla loro posizione, ne formano il porto («ante Brundisium, quarum obiectu portus efficitur»13). In definitiva, non appare certo artificioso che le due isole potessero condividere lo stesso nome.

Viste tutte queste similitudini tra i porti di Brindisi e di Alessandria, non è per nulla insensato ipotizzare che Pomponio Mela volesse accostare proprio le entità che espressamente indica: l’isola brindisina di Sant’Andrea e quella egiziana, accomunate in aggiunta da uno stesso nome, e che, pertanto, non avesse alcuna intenzione di scomodare l’isola dalmata spostandola per giunta di sede. In definitiva l’omonimia evidenziata dal geografo sembrerebbe del tutto lecita, anche tenuto conto che, come già riportato, una simile evenienza non era affatto eccezionale a quei tempi. Appare pertanto del tutto verosimile che il toponimo antico dell’isola brindisina fosse per l’appunto Pharos, come indicato nel passo in discussione.

Se non bastasse, c’è un ulteriore motivo a sostegno d’una tale tesi. Per poterlo illustrare, occorre ripercorrere brevemente la storia dell’isola dalmata di Pharos e, in particolare, della città che aveva lo stesso nome.

Siamo al 219 a.C. quando, come ricordatoci da Polibio, il console Emilio occupò la città d’origine greca di Pharos e la rase al suolo («ὁ δὲ στρατηγὸς τῶν Ῥωμαίων Αἰμίλιος τὴν μὲν Φάρον εὐθέως  ἐξ ἐφόδου παραλαβὼν  κατέσκαψε»14). Da questo momento in poi, sebbene non sia possibile neppure abbozzare i successivi sviluppi, le conclusioni appaiono facilmente desumibili, vale a dire l’isola finì sotto la sfera d’influenza romana. Resta un documento epigrafico15, d’incerta datazione, dal quale si desume che Pharos cercò di riaccostarsi all’antica metropoli di Paro, richiedendo soccorso per ricostruire la distrutta città, e che la madrepatria mostrò attenzione alla richiesta. Non è invece dato di sapere se l’aiuto si concretizzò o no; in ogni caso, non modificò lo stato delle cose e venne così sancito il definitivo distacco dell’isola dal mondo greco. Come ulteriore conseguenza, la città di Pharos non fu ricostituita nel suo sito originario e divenne possesso romano. Ce lo ribadisce il testo del trattato, stipulato nel 215 a.C. in chiave antiromana tra Filippo V e Annibale, in cui si conviene che, se gli dei avessero concesso loro la vittoria nella lotta contro Roma, l’Urbe non avrebbe avuto più potere su tutta una serie di isole tra le quali Pharos16.

Successivamente la città non viene più citata nelle fonti che trattano dei rapporti tra Roma ed i Dalmati17 e  da quel momento, insieme all’omonima isola, sparisce dalla storia per poi ricomparire in un passo di Plinio il Vecchio che ci fa conoscere un dettaglio interessante: l’isola e la città vengono identificate con un nuovo nome, Pharia («et cum oppido Pharia»18). Il modo succinto con cui Plinio tratta la questione fa sospettare che tale modifica fosse ormai acquisita da tempo — magari già nelle prime fasi della conquista — e che il nuovo toponimo non fosse altro che la versione latina della precedente denominazione greca.

Ora, considerato che Pomponio Mela operò in un periodo di poco precedente a quello di Plinio, si può presumere che, all’occorrenza, avrebbe usato anch’egli la denominazione utilizzata nel mondo latino, cioè a dire Pharia, e non quella di Pharos in uso in quello greco.

Sembrerebbe a questo punto evidente che il geografo andaluso non sia incorso in nessun errore e che la Pharos indicata nel passo incriminato non fosse altro che l’isola prossima al porto di Brindisi, quella che conosciamo appunto con il nome di Sant’Andrea. In pratica la svista pare piuttosto degli autori moderni che, forse, non erano a conoscenza delle modifiche intervenute a seguito della costruzione della diga che ha collegato l’isola alla costa. Ciò che più stupisce è che nella stessa distrazione siano incorsi alcuni cronisti brindisini, che continuano a rifarsi alle medesime argomentazioni per contestare il toponimo proposto da Pomponio Mela.

Avviene così che si dia invece credito ad un’altra denominazione, sempre  presente nelle fonti letterarie antiche. Il grammatico Verrio Flacco (I secolo a.C. – I secolo d.C.) nel suo dizionario ci dà infatti nota dell’esistenza dell’isola di Bara (o Barra) «non lontana da Brindisi» («quae non longe est a Brundisio»19), da cui furono scacciati i futuri fondatori della città di Bari.

Inizialmente quel «non longe» mi pareva indirizzasse all’isola di Saseno e non a quella di Sant’Andrea che, in effetti, più che “non lontana” è “vicina” a Brindisi. Pertanto quest’ultimo toponimo mi lasciava perplesso facendomi ritenere che quello di Pharos fosse l’unico certo. A distanza di tempo, mi sono dovuto ricredere. Sia il nome di Pharos, sia quello di Bara, sono ugualmente attendibili perché, sebbene vocaboli di origine diversa,  si rifanno ad una funzione completamente assimilabile. Per la precisione a strutture, di foggia in parte differente, ospitate nel corso del tempo sull’isola per soddisfare un’esigenza basilare della navigazione manifestatasi  sin dalle origini: quella di segnalare con fonti luminose i principali punti di riferimento per tenere la rotta e quelli di particolare importanza, tipo gli ingressi dei porti e le zone che potevano celare insidie, quali ad esempio le secche. Senza entrare nel dettaglio, si cercò di risolvere il problema  in vari modi: dapprima con fuochi accessi sui promontori o nelle vicinanze di templi; in seguito con strutture sempre più composite, che servivano pure per vigilare, presidiare gli approdi e fare mercato; per finire con complessi più articolati che consentivano di tutelare il luogo dai malintenzionati, di dare consigli sugli attracchi, di commerciare e di segnalare il posto con una lanterna la cui luce fosse visibile in lontananza. Questa, collocata sulla sommità della costruzione, era costituita da un grande braciere posizionato in una struttura di forma cilindrica, che consentiva la diffusione della sua luce a 360°, grazie ad una serie di specchi ustori. Nacque così (III secolo a.C.) il Faro di Alessandria, ideato nella forma appena descritta da Sostrato di Cnido e che rappresentava una delle sette meraviglie del mondo antico. Ora poiché la torre contenente questa novità tecnica fu edificata sull’isola alessandrina di Pharos ne acquisì il nome e, quindi, chiamata appunto “Faro”, come riferitoci da Cesare:  «Faro è una torre di grande altezza e mirabile fattura costruita su un’isola da cui prende il nome»20Pharus est in insula turris magna altitudine, mirificis operibus exstructae; quae nomen ab insula accepit»).

 

L’innovazione fu naturalmente accolta con grande favore e riproposta, anche se non nelle stesse forme mirabili, in tutti quei luoghi in cui era necessario svolgere compiti del genere. In breve tempo divennero talmente usuali da non suscitare neppure un marginale interesse degli autori e questo spiega come mai le fonti antiche siano tanto avare nel fornire notizie sulla collocazione dei fari e, soprattutto, sulle loro fattezze. È pertanto evidente e del tutto scontato che, pur nel silenzio delle fonti letterarie, anche il porto di Brindisi  — che, serve ricordare, a quei tempi ferveva di attività ed era tra i principali scali del mondo conosciuto, e non l’anonimo luogo attuale — abbia ospitato un faro e, non stupirebbe neanche un po’, se esso fosse stato edificato proprio sull’isola di Sant’Andrea. Il nome di Pharos, riportato da Pomponio Mela, trova così ulteriore conforto.

Ma la necessità di segnalare di notte alle navi le secche e gli ingressi dei porti era presente ben prima che i fari fossero ideati. E, come già riferito, tale incombenza era soddisfatta con dei fuochi posti al culmine dei templi oppure sulle sommità di alte torri che i greci chiamavano «πύργοι» («pyrgoi»), termine che in senso stretto indicava un bastione o una costruzione fortificata, ma che veniva usato in aggiunta per indicare una torre o la sua parte superiore. Ebbene il grammatico Esichio, nel suo glossario del V secolo, mette in relazione il termine «βᾶρις»21baris») con quelli di «πύργος» («pyrgos»), che come appena riportato individuava pure l’estremità della torre che fungeva da faro ante litteram; di «τεχος» («teichos»), anch’esso con valore figurato di riparo, e di «πλοον» («ploion») un’imbarcazione non meglio precisata. Ne dobbiamo desumere pertanto che «baris»  poteva assumere una duplice accezione, quella di nave (che è il significato in genere assegnatole dai dizionari) e in aggiunta quella di riparo fortificato e di presidio portuale. Si consideri infine che in antichità esisteva, all’estremità meridionale del Capo di Leuca, una cittadina che si chiamava Baris22 — la Vereto di epoca romana, collocabile nelle vicinanze dell’attuale Patù —  che costituiva un approdo e un riconosciuto posto protetto di scambi commerciali. In definitiva il termine Bara denota più d’un riferimento con strutture sulla cui sommità, prima dell’avvento dei fari, venivano accesi fuochi segnaletici che indirizzavano i naviganti, ed è perciò del tutto plausibile come toponimo dell’isola di Sant’Andrea. Considerata la posizione dell’isola rispetto al porto ed alla città,  era questo infatti il posto di gran lunga più idoneo per collocarvi una postazione che vigilasse ed al tempo stesso facesse conoscere ingresso e rotta da seguire per l’approdo. Non a caso, in periodi successivi, s’è fatta la stessa scelta collocandovi per scopi analoghi il castello Alfonsino e, in tempi più recenti, lo storico faro non da tanto smontato. Quindi sia Bara, sia Pharos erano nomi per davvero appropriati e, allo stesso tempo, adatti a documentare che in antichità l’sola di Sant’Andrea aveva ospitato una struttura con un pyrgos poi sostituito da un faro, quando quest’ultima novità tecnica aveva preso  il sopravvento.

Per concludere un’ultima considerazione. Diversamente da Pomponio Mela, che utilizzava termini d’uso più comune, Verrio Flacco intendeva con la sua opera preservare la conoscenza di vocaboli rari o eruditi. Per questo, con ogni probabilità, a cavallo dell’inizio dell’era volgare in cui operarono i due autori, Bara era voce poco utilizzata mentre il toponimo Pharos era d’uso più frequente. E ciò era forse dovuto alla circostanza che i pyrgoi erano ormai un lontano ricordo, a differenza dei fari che erano sempre più attuali. Ne consegue pure che Bara era il nome più antico ed era stato coniato prima di quello di Pharos.

 

 

* Rivisitazione d’un articolo pubblicato con lo stesso titolo sulla rivista “Il delfino e la mezzaluna”, Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, n. 6-7, Nardò 2018.

 

Note

1 CESARE (I secolo a.C.), La guerra Civile, III 23, 1.

2DIONE (II secolo d.C. – III secolo d.C.), Storia Romana, XLI 48.

3 LUCANO (I secolo d.C.), Farsaglia, II 617-618.

4 VITRUVIO (I secolo a.C.), De Architectura, V 12, 2.

5 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 6

6 (a cura di) B.R. MOTZO, Il compasso da navigare,  Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, Cagliari 1947, p. 27.

7 POMPONIO MELA (I secolo d.C.),  Corografia, II 7, 114.

8 A. SILBERMAN, in Pomponius Mela, Chorographie, Paris, Le Belles Lettres, Paris 1988, p. 239.

9 L. BRACCESI,  Terra di confine: archeologia e storia tra Marche, Romagna e San Marino,  L’Erma di Bretschneider,  Roma 2007, p. 125.

10 POMPONIO MELA, cit., II 7, 14. Si usa la traduzione fatta da BRACCESI, cit., p. 125.

11 CESARE, cit., III 100,1.

12 CESARE, cit., III 112, 1.

13PLINIO IL VECCHIO (I secolo d.C.), Storia Naturale, III, 151. In effetti l’autore pare considerare non solo l’isola di Sant’Andrea ma le isole Pedagne nel loro complesso. Di fronte al porto di Brindisi si trovano infatti l’isola di Sant’Andrea e cinque altri isolotti che formano l’arcipelago delle Pedagne.

14POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Le Storie, III 19, 12.

15L. ROBERT, Hellenica: Recueil d’épigraphie, de numismatique et d’antiquités grecques- Insciptions Hellénistiques de Dalmatie, Paris 1960, Vol. XI-XII,  pp. 505-541.

16 POLIBIO, cit.,VII 9, 12-13. Ecco il testo: «ᾖ καὶ ὡς ἂν συμφωνήσωμεν. ποιησάντων δὲ τῶν θεῶν εὐημερίαν ἡμῖν κατὰ τὸν πόλεμον τὴν πρὸς Ῥωμαίους καὶ τοὺς συμμάχους αὐτῶν, ἂν ἀξιῶσι Ῥωμαῖοι συντίθεσθαι περὶ φιλίας, συνθησόμεθα, [13] ὥστ’ εἶναι πρὸς ὑμᾶς τὴν αὐτὴν φιλίαν, ἐφ’ ᾧτε μὴ ἐξεῖναι αὐτοῖς ἄρασθαι πρὸς ὑμᾶς μηδέποτε πόλεμον, μηδ’ εἶναι Ῥωμαίους κυρίους Κερκυραίων μηδ’ Ἀπολλωνιατῶν καὶ Ἐπιδαμνίων μηδὲ Φάρου» («Se gli dei concederanno alle nostre nazioni alleate la vittoria nella lotta contro Roma ed i suoi alleati e Roma chiederà la pace, noi gliela concederemo a queste condizioni: che essi siano in amicizia al tempo stesso con i macedoni ed i cartaginesi; che non dichiarino mai guerra alla Macedonia e non abbiano potere su Corcira, Apollonia, Epidamno, Pharos, Dimale, sui Parteni e sugli Atintani»).

17B. KIRIGIN, Pharos: the Parian Settlement in Dalmatia, Oxford 2006, p. 151.

18 PLINIO IL VECCHIO, Cit., III, 152.

19 VERRIO FLACCO  (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Sul significato delle parole, fr. apud FESTO (II secolo d.C. – …), Sul significato delle parole libri XX, in Dacier, vol. I, Londra,  1826, p. 110.

20 CESARE, cit., III 112, 1.

21  (a cura di) M. SCHMIDT, Hesychii Alexandrini Lexicon, Jena 1868, p. 291.

22 STRABONE, Cit., VI 3, 5.

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