TRA VERGOGNA E ONORE: LE PROSTITUTE DI GUERRA
di Paolo Vincenti*
“Vecchio professore cosa vai cercando
in quel portone
forse quella che sola ti può dare
una lezione
quella che di giorno chiami con disprezzo
pubblica moglie
quella che di notte stabilisce il prezzo
alle tue voglie”
(Fabrizio De Andrè – “Città vecchia”)
Scorrendo anche una minima parte della vasta bibliografia nell’area macrotematica “donne e guerra”, ci si rende conto del fatto che non possa esservi nessuna limitazione del ruolo che le donne ebbero nel primo conflitto mondiale. Ogni categorizzazione sarebbe fuori luogo, ogni schematizzazione che volesse circoscrivere il loro impegno apparirebbe fuorviante. Ciò perché le donne rivestirono tutti i ruoli, eccettuato quello di combattere sul fronte. Qualsiasi esemplificazione dunque dovrebbe essere rigettata. Ogni stereotipo è da rifiutare. Oltre ai settori più tradizionali e conosciuti, infatti, come quello delle infermiere e delle crocerossine, cui sono dedicati alcuni contributi anche in questo volume, ve ne sono altri poco esplorati, come quello delle madrine di guerra, o che non lo sono mai stati, come quello delle prostitute. Ed è su quest’ultimo, che vogliamo appuntare la nostra attenzione.
La partecipazione delle donne alla guerra abbracciò quasi tutti i campi. Fra le varie occupazioni, le più consistenti furono quelle legate all’assistenzialismo, sia di matrice cattolica che laica. Le donne di estrazione aristocratica ed alto borghese incoraggiarono la nascita di associazioni di beneficenza, che si prendessero cura dei soldati impegnati al fronte, attraverso donazioni, raccolte fondi, invio di beni di prima necessità, generi alimentari, indumenti caldi, medicine. I primi ruoli ad essere ricoperti furono dunque quelli di cura e di maternage, fedelmente alla vocazione che una storia millenaria ha assegnato alle donne. L’ambito del volontariato di maggiore attrattiva fu la Croce Rossa. Svariate le infermiere salentine che partirono per le zone di guerra[1].
Le Crocerossine italiane alla vigilia della Grande Guerra erano già 4.000 e dopo il conflitto giunsero ad 8.000 unità, secondo alcuni calcoli perfino a 10.000, sommando le appartenenti ad altre associazioni di volontariato, come le “Samaritane”, le più contigue alle Crocerossine. Indossavano una divisa bianca, con una lunga gonna ed un velo, un abbigliamento simile a quello delle suore. Esse furono l’avamposto, potremmo dire, la prima linea, della partecipazione femminile alla guerra. Le infermiere della Croce Rossa inizialmente provenivano da famiglie benestanti, poi dalla classe borghese e infine anche dalle classi sociali più basse. Non tutte avevano fatto studi regolari ma in occasione della guerra l’emergenza sanitaria prevaleva sui titoli di studio. Esse potevano partire per il fronte se in possesso di un’autorizzazione parentale, rilasciata cioè dal padre o da chi ne faceva le veci. I soldati sofferenti le vedevano come madri, sorelle, confortatrici. Questo non faceva comunque passare in secondo piano il loro alto potere seduttivo. L’immagine dell’infermiera anzi, al di fuori della stereotipata idealizzazione imposta dalla propaganda politica, suscitava ben altri pensieri nei soldati ricoverati in ospedale, come vedremo meglio successivamente. “Numerosissime sono [le cartoline]in cui esse, graziosamente racchiuse nelle loro divise non prive di civetteria, occhieggiano in direzione di gagliardi soldati, li abbracciano, assumono atteggiamenti scopertamente seduttivi.”, scrive Antonio Gibelli[2].
Nel sacrario di Redipuglia, dove riposano i caduti sul Carso, sull’Isonzo e sul Piave, nel numero di 100.000 (dei 650.000 italiani morti in guerra) spicca un’unica sepoltura femminile, quella di Margherita Kaiser Parodi, crocerossina partita nel 1915 e morta di influenza spagnola nel 1918, medaglia di bronzo al valor militare[3].
Un aspetto sicuramente poco studiato è quello delle madrine di guerra, incaricate di prendersi cura dei soldati, in una specie di “adozione”, come spesso è stata definita, ma si potrebbe meglio dire di “affidamento” o “adozione a distanza”, simile a quella che oggi molte famiglie occidentali praticano a vantaggio di poveri bambini di alcuni paesi dell’Africa[4].
La figura delle madrine di guerra è contigua a quella delle dame di carità, tanto vero che all’inizio queste donne sono più che altro di estrazione aristocratica ed alto borghese e l’attivazione di pratiche di assistenza avviene nell’ambito delle Congregazioni di carità. Costoro si premuravano di tenere alto il morale delle truppe avviando una corrispondenza epistolare con i soldati di cui si prendevano cura; più spesso, dato l’alto tasso di analfabetismo, inviandogli indumenti caldi.
Questo tipo di beneficenza si allargò anche alle classi più umili poiché a maggior ragione le donne del popolo, sebbene poco scolarizzate, erano in grado di offrire certi servizi. Furono i parroci a spingere le ragazze delle scuole a scrivere ai soldati sul fronte, contribuendo così ad abbassare l’età media delle madrine di guerra, non più madri, ma tutt’al più sorelle o fidanzate, e anche questo contribuì a determinare il successo dell’epistolografia, un genere letterario che si rivelerà fondamentale negli studi successivi sul conflitto nell’ambito delle cosiddette “scritture del reale”. Moltissime furono le cartoline e le foto che viaggiavano nella doppia direzione dal fronte alle madrine[5].
Talune istituzioni caritatevoli, come per esempio al Nord la “Lega delle seminatrici di coraggio”, si occupavano anche di raccolte fondi a favore delle vedove di guerra o degli orfani di guerra, coinvolgendoli a loro volta nella beneficenza, con iniziative di varia mobilitazione[6].
Molti gli esempi di madrine di guerra al Nord, rarissimi al Sud e nello specifico nel Salento. Allo stato dell’arte, non siamo riusciti a trovare nessun esempio nel Salento di madrine di guerra, almeno non abbiamo reperito relazioni epistolari. Ci giunge solo un nome, che è quello della gallipolina Maria Pagliano, sorella del noto pittore e fotografo Giulio Pagliano. Tuttavia, il Museo della Civiltà Contadina di Tuglie ne conserva la foto ed alcuni calzettoni caldi, inviati evidentemente al soldato adottato, oltre agli strumenti per realizzarli, ma nessuno scritto[7].
La partecipazione delle donne si esplicò anche nelle professioni intellettuali, come quelle di insegnanti, promotrici culturali, giornaliste e perfino inviate di guerra[8].
Dunque, non solo in ruoli di supplenza degli uomini, ma in ruoli attivi. Poiché gli uomini partendo avevano lasciato abbandonate le campagne, divennero contadine. In città, entrarono nell’industria pesante, metallurgica, meccanica. Non solo operaie, ma anche portalettere, autiste di mezzi pubblici, telegrafiste, impiegate negli Uffici notizie per le famiglie dei militari[9]. Impegnate anche direttamente sul fronte, come le Portatrici carniche, la più conosciuta delle quali è Maria Plozner Mentil, unica donna cui sia stata intitolata una caserma in Italia[10]. Queste donne portavano beni di conforto e rifornimenti ai soldati sul fronte. Dai paesi circonvicini esse si arrampicavano sulla montagna fino ad arrivare in prima linea, a rischio della propria vita[11].
Un altro campo in cui le donne si applicarono per la cura e il benessere dei soldati fu quello della prostituzione. Questa era regolamentata dallo Stato sin dal 1859, quando Cavour fece aprire case di tolleranza controllate per i soldati francesi venuti a combattere contro l’Austria. La regolamentazione continuò con il Governo Crispi nel 1888 e con quello Nicotera nel 1891, con l’obbligo di tener chiuse le persiane di queste case (da cui “case chiuse”). Ma fu durante la Prima Guerra Mondiale che il fenomeno del meretricio dilagò. Preziosa fonte è il libro di Emilio Franzina, I casini di guerra[12], un caposaldo nella materia.
Molte “lucciole” circolavano liberamente nelle zone di guerra dove era più forte la concentrazione soldatesca, per offrire a fanti e artiglieri i propri servizi. Il fenomeno della prostituzione libera però era causa di disordine e distrazione delle milizie e procurava non poche noie agli alti ufficiali che erano costretti a richiamare i soldati, onde contrastare quel commercio incontrollato. Infatti, nonostante le durissime direttive, la ricerca del piacere fisico era ineludibile, al di là delle severissime circolari del Generale Cadorna, perché irrinunciabile era il bisogno di calore, affetto, protezione che, sia pure in forma surrogata, il rapporto sessuale poteva offrire.
Si poneva forte l’esigenza di concedere ai soldati dei momenti di svago, in cui poter allentare la tensione accumulata sul fronte. Si volle dunque regolamentare il tempo libero, prima di tutto con l’istituzione delle “Case del Soldato”, come già accadeva in altre nazioni quali la Francia e la Germania. Nacque una rete di Case del Soldato, ideate da Padre Giovanni Minozzi nel 1916 con l’assenso del Generale Porro, per permettere ai militari di svagarsi con pratiche di socializzazione che restavano contenute nell’alveo cattolico[13], anche come antidoto a diverse e più indecenti tentazioni.
Però, ad un certo punto, fu lo Stato a favorire siffatte tentazioni, con la nascita delle case di tolleranza per militari. Infatti, nel 1915, vennero istituiti per legge i postriboli, definiti, per analogia contrastiva con le Case del Soldato, “Casini del soldato”, e venne regolamentato con una serie di circolari il loro funzionamento.
I bordelli venivano militarizzati attraverso un programma molto rigido di controlli affidati agli ufficiali medici. Questi luoghi “protetti” erano stati previsti in primis per allontanare le lavoratrici del sesso che si prostituivano direttamente sul campo (e che una volta erano le “donne di guarnigione”, ovvero prostitute che, fin dalle guerre napoleoniche, seguivano i soldati nelle campagne militari prestandosi a varie incombenze oltre a quella prettamente sessuale), e poi per prevenire la diffusione della sifilide e contenere all’interno di strutture chiuse la prostituzione.
La reazione cattolica all’istituzione dei postriboli fu immediata. Moltissime le lettere di protesta dei parroci dei luoghi in cui venivano istituiti i bordelli, che creavano anche un moto di generale disapprovazione da parte della classe borghese, quella dei benpensanti, i quali in alcuni casi facevano sentire la loro vibrante protesta. Lettere di protesta erano inviate anche ai prefetti, ma restavano inascoltate. Giocoforza, le gerarchie ecclesiastiche incentivarono l’apertura di centri ricreativi cattolici, in funzione antipornografica. Così molti preti, sia nei paesi della pianura che in quelli sul fronte, si prodigavano per aprire Case del Soldato che volevano garantire a sottoposti e ufficiali un momento di sano svago, con spettacoli musicali, tombolate, giochi di prestigio, recite, e vi erano anche dei libri per la lettura dei più scolarizzati[14].
Il tempo libero dei soldati venne poi meglio organizzato con il Servizio P (“Propaganda”), quando, dopo la disfatta di Caporetto, si voleva risollevare il morale delle truppe evidentemente fiaccato da una così disastrosa sconfitta. A queste attività ricreative vennero chiamati a sovrintendere degli ufficiali, denominati “P”, invitando a collaborare anche artisti, cantanti, intellettuali e giornalisti, tutti impegnati a rinfocolare il sacro amor patrio nelle truppe. Iniziarono anche a stamparsi dei giornali di trincea [15]e la propaganda bellica, in seguito all’avvicendamento del dispotico Generale Cadorna con il più umano e comprensivo Diaz, raggiunse l’acme.
Le Case del Soldato si moltiplicarono. In realtà, quella combattuta da Don Minozzi era una battaglia impari, perché la farina de diavolo era stata impastata direttamente dal Comando Supremo. Il Veneto fu teatro privilegiato di questa fioritura di casini militari. Gli alti prelati scagliarono fulmini e saette sulle case di prostituzione, scrivendone al Papa, addebitando ad esse fatalisticamente le cause della guerra e della disfatta di Caporetto e pronosticando guai e rovina per l’esercito italiano. Soprattutto i preti e i vescovi veneti, come appare ovvio, esecravano queste pratiche diffuse e legalizzate. Essi lamentavano che la prostituzione avrebbe comportato anche lo sfruttamento minorile, la tratta delle bianche, il traviamento di giovani e giovanissime che si sarebbero perdute, e in questa campagna proibizionista erano affiancati dalle femministe, non solo cattoliche, ma anche laiche[16]. Le continue pressioni, però, caddero nel vuoto; e non poteva essere altrimenti, dal momento che gli stessi preti di campagna una volta sul fronte partecipavano di quell’ “infernale commercio”. Le case chiuse infatti, accoglievano anche loro. I prelati si dicevano inorriditi nel constatare come ormai, specie dopo Caporetto, fosse abituale fra le truppe la pratica di alcolizzarsi, bestemmiare e andare a prostitute[17]. Ancor peggio, se a fumare, sbevazzare, usare il turpiloquio erano gli stessi preti (che venivano definiti “pretacchioni”). Questi religiosi venivano minacciati non solo di essere sospesi a divinis, ma addirittura scomunicati, quando per esempio fossero stati trovati ad assistere a spettacoli indecenti nei cinema e nei teatri, o a fornicare nei bordelli. Certi cappellani militari celebravano molte messe al giorno per potersi sbronzare riempiendo di vino le coppe del sangue di Cristo durante l’Eucarestia[18].
Fra il 1917 e il 1918, il numero dei casini sembrò aumentare in maniera esponenziale, a dispetto dei contagi venerei o luetici e della durissima campagna proibizionista portata avanti da Mons. Luigi Pellizzo. I soldati contagiati dalla sifilide venivano allontanati dal fronte ma questo non scoraggiava il ricorso alle prostitute.
La fioritura di postriboli spingeva anzi molte donne a raggiungere i luoghi di guerra per darsi a quella redditizia attività. Nell’opera Satire italiane, lo scrittore Giovanni Comisso descrive dettagliatamente i casini di guerra[19].
La propaganda bellica nella forma dei volantini informativi affissi nelle caserme, nei luoghi di aggregazione e massime nei bordelli, esaltava il valore della prostituzione legale, stimmatizzando quella clandestina e non controllata, e ne elencava i vantaggi per la salute, per la patria e per la famiglia. Che cosa potevano pochi volenterosi prelati contro una simile macchina politica e propagandistica? Per altro, tale regolamentazione poneva l’Italia su un piano di avanguardia rispetto agli altri Paesi dove vigeva una legislazione più arretrata. Ciò era dovuto alla lunga esperienza in materia che il nostro Paese poteva vantare. Infatti, la prima regolamentazione prostituzionale in Italia si ebbe nel 1860, ma fu nel 1891 che essa si perfezionò[20].
Durante le campagne d’Africa, la legislazione sul tempo libero dei militari prevedeva, per gli ufficiali, feste, teatro, e anche la pratica del “madamato”, antesignana della prostituzione militare. Questa pratica, “spiega Gustavo Ottolenghi (Gli italiani e il colonialismo. I campi di detenzione italiani in Africa, Milano, 1997, pp.184-185), era una forma particolare di unione privata tra un uomo bianco e una donna indigena che prevedeva una forma di affitto della donna stessa all’uomo per tutta la durata di tempo che lui desiderava, con facoltà di procreazione, senza che peraltro potessero derivare alla donna altri diritti oltre quello di ottenere il pagamento della somma pattuita per il proprio affitto.[…] In pratica questo istituto era stato introdotto nelle colonie italiane, con il tacito consenso delle autorità ecclesiastiche, in modo da assicurare ai coloni e ai militari celibi una compagnia temporanea per tutto il periodo della loro permanenza in Africa, senza che potessero loro derivare degli obblighi di sorta…”[21].
Una forma di prostituzione legalizzata anch’essa, per giunta senza alcuna prescrizione sanitaria, ancora più spinta di quella del 1915, se prevedeva addirittura la possibilità di ingravidare la meretrice. Per i soldati semplici invece erano consentite le “sciarmutte”, ossia le battone di strada. Questo primo impianto prostituzionale creato in Etiopia durante le guerre d’Africa poi si diffuse anche in Eritrea, Libia, in Somalia e giunse in Italia, destinato ad essere collaudato durante la Prima Guerra Mondiale. Ma già nella guerra italo-turca del 1911, erano stati sperimentati i bordelli militari, di fronte al massiccio ricorso dei soldati al sesso a pagamento[22].
Sicché nel corso della Prima Guerra Mondiale le case di tolleranza funzionavano a pieno regime. E del resto, le pulsioni sessuali dei militari costituivano un fattore che non poteva non essere tenuto da conto se si voleva evitare che sfociasse in stupri o in pratiche omosessuali, viste come turpitudini da evitare, ma che di regola accadono in tutte le situazioni più estreme e borderline. E a questa regolamentazione si adeguarono tutti i prefetti e gli incaricati statali. Il controllo di un simile traffico permetteva, come già sottolineato, che si svolgesse in maniera disciplinata, con le schedature di prostitute e soldati. Lo spettro era quello della sifilide, ma temutissima era anche la spagnola, che in quegli anni mieteva vittime in tutta Europa. Il soldato, questo era l’assunto su cui si basava la norma, non poteva reprimere il fisiologico bisogno sessuale senza conseguenze che lo avrebbero portato ad una condizione psicofisica alterata; la Patria richiedeva soldati pienamente consapevoli, i quali dovevano sfogare i propri bisogni per mantenere quella concentrazione sul fronte che una prolungata astinenza sessuale invece avrebbe compromesso.
In alcune lettere dal fronte, nella memorialistica di guerra, queste donne vengono da alcuni soldati definite degli angeli, perché grazie a loro riacquistavano il benessere, ed erano ritenute addirittura delle benemerite, per la grande utilità del loro servizio. E si trattava di una attività talmente attrattiva che non solo talune meretrici da altre regioni d’Italia si recavano al confine per esercitarla, ma anche infermiere volontarie si davano ad essa per realizzare più lucrosi guadagni e migliorare così il proprio tenore di vita.
La guerra, moltiplicatore sociale di vizi e virtù, stimolò l’umanitarismo da un lato e le più basse pulsioni dall’altro, incentivò la beneficenza e la solidarietà femminili, ma anche di converso la licenziosità e il libertinaggio, sia pure in contesti di necessità o di miseria. Non esistono assolutizzazioni, rigide dicotomie. I ruoli femminili erano mobili, e accadeva che alcune infermiere potessero intrattenere rapporti sessuali[23] o vere e proprie relazioni sentimentali con i soldati. Di più, alcune crocerossine diventavano prostitute[24], come al contrario alcune prostitute si trasformavano in infermiere.
Imprevedibili sono i percorsi della ricerca storica. Quando pensavamo che, se difficile reperire documenti riguardo le madrine di guerra, sarebbe stato pressoché impossibile per le prostitute, ecco che una storia ci viene incontro, con molta sorpresa. È il caso di una nostra concittadina, partita per il fronte nel 1917, sulla quale la verecondia, un malcelato senso di vergogna o di rimozione da parte della famiglia, sentimenti tanto inconcepibili a distanza di decenni quanto rispettabili, ci impediscono di fornire alcun dettaglio anagrafico. A volte infatti, per particolari aspetti della vita, si attuano, volontariamente o meno, strategie di rimozione della memoria[25]. Possiamo dire che questa donna partì da Ruffano nel 1917 con il permesso del padre, per esercitare l’attività di crocerossina, pur non avendo compiuto studi specifici.
Non conosciamo le motivazioni che la spinsero a partire: più che l’umanitarismo, sospettiamo che fu il bisogno a muoverla, provenendo da una poverissima famiglia di contadini. Una volta giunta a Pordenone, esercitò per circa un anno l’attività di assistente infermiera in un ospedale di campo. Percependo magri guadagni, abbandonò l’attività assistenziale e si diede al meretricio. Fu prostituta in una casa di tolleranza di San Giorgio di Nogaro. In questo centro l’attività prostituzionale era fiorente a seguito della massiva presenza in città non solo di soldati ma anche di studenti universitari[26].
Una ingiallita fotografia, messa a disposizione dal pronipote, ce la mostra bella, in abiti civili, alta, probabilmente sul metro e settanta, con una carnagione bianca e una folta massa di capelli neri intrecciati con uno chignon, strana acconciatura per una contadina. Non sappiamo quanto durò la sua permanenza nella casa di prostituzione militare, ma ella continuò ad esercitare la professione anche dopo la fine della guerra, in un bordello civile a Pordenone. Qui, conobbe l’uomo di cui si innamorò e che sposò. Si trasferirono a Padova, città natale del marito, ed ebbero tre figli. Questo ramo della famiglia infatti ancora oggi vive nella città patavina.
Questa storia ci è stata raccontata da un discendente della signora, appartenente al ramo della famiglia rimasto a Ruffano. Si tratta di una fonte del tutto fededegna, che ha però chiesto l’osservanza dell’anonimato. Ci rendiamo conto che ciò potrebbe ingenerare nel lettore il sospetto che questa storia sia stata partorita dalla fantasia di chi scrive, e tuttavia è così emblematica che abbiamo preferito correre il rischio, per non privarci del piacere di raccontarla.
La guerra è stato il primo fattore di emancipazione femminile nell’Italia del Novecento[27]. Il conflitto, proprio per la sua caratteristica di festa evidenziata in antropologia, di sospensione del tempo ordinario, favoriva certe licenze che non ci si prendeva nei giorni comuni[28]. L’evento straordinario faceva perdere i freni inibitori. Questo valeva per le donne che si davano al meretricio e per gli uomini che le cercavano per congiungersi carnalmente.
Lo Stato insomma con una mano permetteva il losco traffico e con l’altra diramava severe istruzioni sanitarie, recitava cioè due ruoli in commedia. Era tale paradosso che muoveva l’indignazione dei vescovi, i quali inveivano anche contro la stampa ed il cinema, rei, a loro dire, di incentivare l’andazzo, così come i caffè concerto, i tabarin, le sale ricreative. I prelati vedevano dovunque trionfare il diavolo sui tacchi e nelle gonne delle donnine di piacere che li minacciavano con la loro oscena presenza[29]. Ma la diffusione capillare dei casini di guerra non era più arginabile. Questa tradizione continuerà e si incrementerà durante la Seconda Guerra Mondiale, di pari passo con la prostituzione nelle case di tolleranza civili; sia all’una che all’altra, darà un colpo di spugna la Legge Merlin, del 20 settembre 1958, che porterà alla chiusura delle 717 case di prostituzione presenti sul territorio nazionale.
Sui bordelli si possono leggere le bellissime pagine di Ernest Hemingway, in Addio alle armi[30], ma il documento più straordinario, crudo e iperrealista, sono le opere di Filippo Tommaso Marinetti, quali L’alcova di acciaio e I taccuini 1915-1921[31], all’insegna di una sessualità nazionalista che è la cifra dominante nelle opere “belliche” del padre del Futurismo. Queste opere, soprattutto I taccuini, fotografavano perfettamente la realtà postribolare, e Marinetti condisce la narrazione con un linguaggio scabroso ma consono al clima osceno, boccaccesco, che pervade ogni singolo rigo dell’opera.
Come detto, nel 1958 la legge chiuse le case di tolleranza (promuovendo quella criminalizzazione della prostituta sulla quale, oltre alle gerarchie ecclesiastiche, da sempre tantissimi intellettuali proibizionisti si sono esercitati), ma aprì di contro all’immaginario collettivo un epos alimentato da tanta produzione letteraria, cinematografica e musicale, fino alle nostalgiche e ciclicamente ritornanti petizioni di riesumazione dell’istituto postribolare.
* Società di Storia Patria per la Puglia. paolovincenti71@gmail.com
[1] Sulla storia della Croce Rossa, si vedano: A. Frezza, Storia della Croce Rossa Italiana, Firenze, Poligrafo Fiorentino,1956; Storia della Croce Rossa Italiana dalla nascita al 1914, a cura di Costantino Cipolla-Paolo Vanni, Vol.I, Saggi- Vol. II Documenti, Milano, Franco Angeli, 2013; Donne al fronte. Le Infermiere Volontarie nella Grande Guerra, a cura di Stefania Bartoloni, Roma, Jouvence, 1998; Le crocerossine nella Grande Guerra, a cura di Paolo Scandaletti e Giuliana Variola, Udine, Gaspari, 2008; Accanto agli eroi. Diario della Duchessa d’Aosta. 1: maggio 1915 – giugno 1916, a cura di Alessandro Gradenigo e Paolo Gaspari, Prefazione di Amedeo Di Savoia, Udine, Gaspari, 2016. Per il Salento: T. Barba Bernardini D’arnesano, La Croce Rossa a Lecce. La sezione femminile, Lecce, Grifo Editore, 2013. In questo stesso volume, G. Caramuscio, Anche noi soldati. Le memorie di Delia Jannelli crocerossina di Taranto, Infra.
[2] A. Gibelli, La Grande Guerra degli Italiani, Milano, Bur, 2009, p. 203.
[3] S. Bartoloni, Italiane alla guerra: l’assistenza ai feriti 1915-1918, Venezia, Marsilio, 2003, p. 213; A. N. Picotti, Margherita Kaiser Parodi, in «Quadernetto Giuliano», nº 2, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, 2017, pp. 6-7.
[4] Diario dall’Inferno. Memorie di guerra di un ufficiale di artiglieria dal Carso all’Ortigara, 1915-1917, a cura di L. Viazzi e S. Zeno Naviglio,1998, pp.74-79; A. Molinari, La buona signora e i poveri soldati. Lettere a una madrina di guerra (1915-1918), Torino, Scriptorium, 1998; S. Bartoloni, L’associazionismo femminile nella prima guerra mondiale e la mobilitazione per l’assistenza civile e la propaganda, in Aa.Vv., Donna lombarda, 1860-1945, a cura di A. Gigli Marchetti- N. Torcellan, Milano, Franco Angeli, pp.65-91.
[5] In questo stesso volume, G. Caramuscio, Le convitate di carta. Assenze/presenze femminili nella corrispondenza dei combattenti, Infra
[6] A proposito delle vedove di guerra, alcuni studi focalizzano l’attenzione proprio sull’aspetto del lutto che accomuna le donne nella loro partecipazione alla Prima Guerra Mondiale. “Le donne sono le protagoniste di questa ‘comunità del lutto’ che nasce durante la guerra e che sopravvive ben oltre la guerra”, scrive Augusta Molinari (rifacendosi a S. Audoin-Rouzeau, A. Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Torino, Einaudi, 2002), “una comunità che ricorre ai rituali più diversi per placare il trauma collettivo di una morte di massa mai sperimentata in Europa.[…]Nel caso dell’Italia, quanto forte fosse la consapevolezza che era la dimensione del lutto a definire l’appartenenza delle donne alla guerra, emerge dal diffuso bisogno delle donne di partecipare a rituali pubblici di lutto”: A. Molinari, Donne e ruoli femminili nella Grande Guerra, Milano, Selene Edizioni, 2008, p.11.
[7] D. Dimo, Le madrine di guerra, in Tuglie-Salento e la Grande Guerra, Mostra di reperti, cimeli, documenti e fotografie d’epoca, Museo della Civiltà Contadina del Salento, Tuglie, s.d., p.20.
[8] Sul ruolo delle donne nel giornalismo di guerra: Aa.Vv., Scrittrici/giornaliste. Giornaliste/scrittrici, Atti del convegno: Scritture di donne tra letteratura e giornalismo, Bari 29 novembre – 1 dicembre 2007, a cura di Andriana Chemello e Vanna Zaccaro, Università di Bari, 2011; A. Buttafuoco, Cronache femminili. Temi e momenti della stampa emancipazionista in Italia dall’Unità al fascismo, Università di Siena, Dipartimento di studi storico-sociali e filosofici, 1988. Sulla funzione dei giornali di trincea: G. Lombardo Radice, Nuovi saggi di propaganda pedagogica, Torino, Paravia, 1922; R. Pozzi, La strumentalizzazione propagandistica della figura femminile in alcuni giornali di trincea, in «Quaderni di Studi Interculturali Rivista semestrale a cura di Mediterránea», n.3, 2017,Centro di Studi Interculturali – Università di Trieste, pp. 169-180, in cui l’autrice tratta di tre inviate di guerra, vale a dire Ester Danesi Traversari, Flavia Steno e Stefania Türr. Ester Danesi Traversari fu corrispondente di Guerra per «Il Messaggero», mentre Amelia Cottini Osta, con lo pseudonimo di Flavia Steno, fu invita in Germania per «Il Secolo XIX»; Stefania Türr fu corrispondente dalla trincea per «La Madre Italiana». Per il Salento, con riferimento alla pubblicistica bellica e post bellica, si possono utilmente consultare: G. Caramuscio, Stampa e opinione pubblica a Lecce tra provincialismo, nazionalismo ed ecumenismo (1914-18), in «L’Idomeneo – Il Salento e la Grande Guerra. Atti del Seminario di Studi. Lecce, Monastero degli Olivetani, 5 dicembre 2014 », Società Storia Patria per la Puglia, Sezione di Lecce, n.18, Università del Salento, Lecce, 2014, pp.51-110 e Idem, Il milite noto. Modelli di eroismo bellico in opuscoli commemorativi salentini, in Aa. Vv.,“Colligite fragmenta”. Studi in memoria di Mons. Carmine Maci, a cura di Dino Levante, Campi Salentina, Minigraf, 2007, pp.487-516. Svariate furono le donne intellettuali che vissero in primo piano l’età della Prima Guerra Mondiale. Fra le altre, possiamo citare: la professoressa Giulia Lucrezi Palumbo (1876-1956), sulla quale si vedano: A. Invitto, Biografia intellettuale di Giulia Lucrezi Palumbo. Tesi di Laurea, Università di Lecce, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2004-2005; G. Caramuscio, Giulia Lucrezi-Palumbo: soggettività femminile e cultura tra Risorgimento e Guerra fredda (1876-1956), in « L’Idomeneo – Storie di donne», Società di Storia Patria per la Puglia Sezione di Lecce n.8, Galatina, Panico, 2005, pp. 117-156; R. Basso, La prima professoressa salentina Giulia Lucrezi Palumbo (1876-1956), in Aa.Vv.,Oltre il segno. Donne e scritture nel Salento (sec.XV-XX), a cura di Rosanna Basso, Copertino, Lupo,2012,pp.200-203; in questo stesso volume, G. Caramuscio –P. Morciano, La voce leccese della Patria: Giulia Lucrezi-Palumbo, Infra; Giulia Poso (1879-1963) sulla quale, tra gli altri: M. C. Guadalupi, Giulia, Brindisi, Tip.Ragione,1964; R. Basso, La sfida della professione, il richiamo del privato Giulia Poso, in Oltre il segno cit.., pp.204-214; Maria Luigia Quintieri (1881-1973), per la quale si rimanda a: M. Calogiuri, “Colla ragione come col cuore”. Autrici meridionali tra modernità e tradizione, Lecce, Milella, 2008, pp.73-111; Eadem, Impegno educativo e milizia politica Maria Luigia Quintieri (1881-1973), in Oltre il segno. cit., pp.216-221; Maddalena Santoro (1884-1944) della quale ha scritto D. De Donno, Intellettuali e fascismo. Un percorso al femminile. Maddalena Santoro (1884-1944), in «Ricerche Storiche», n.2, Lecce, 2010, pp.349-372; Eadem, Saper soffrire, saper amare, saper piacere Maddalena Santoro (1884-1944), in Oltre il segno. cit., pp.230-241, e inoltre, Eadem, Maddalena Santoro e la guerra, Infra; Oronzina Quercia Tanzarella(1887-1940) sulla quale hanno scritto: R. Basso, Stili di emancipazione, Lecce, Argo, 1999, pp-41-81; Eadem, Le scritture di Oronzina Tanzarella (Ostuni 1887-Roma 1940), in Aa.Vv., Il filo di Arianna. Materiali per un repertorio della bibliografia femminile salentina (sec.XVIII-XX),a cura di Rosanna Basso e Marisa Forcina, Lecce, Milella, 2003, pp.109-126; Eadem, Vestale della scuola pubblica Oronzina Quercia Tanzarella(1887-1940), in Oltre il segno. cit., pp.242-247; in questo stesso volume, P. Morciano, La guerra antiretorica di Oronzina Quercia Tanzarella, Infra; su Maria Panese Tanzarella (1888-1981), si possono consultare: K. Di Rocco, Maria Panese Tanzarella. Attivista cattolica nell’Italia fascista, in «Parola e storia », a.I, n.I, 2007, pp.59-77; Eadem, Militanza cattolica, in Oltre il segno. cit., pp.248253; altra figura degna di menzione è quella di Maria Rosaria Filieri (1895-1944), sulla quale si veda: M. R. Filieri, Oltre la scuola, la parola pubblica, in Oltre il segno. cit., pp.254-259 e Eadem, Maria Rosaria Filieri dalla pietas alla celebrazione, Infra; inoltre Magda Roncella (1882-1939), per la quale si rinvia, in questo volume, a G. Caramuscio, Come fiammelle nell’ombra. Magda Roncella dopo Caporetto, Infra; Emma Fiocco(1899-1984), della quale si è occupata R. Basso, Donne e giornali. La Rappresentazione del femminile nelle pagine di alcuni periodici salentini (1884-1943), fascicolo monografico di “Studi salentini”, n. LXXXIV-LXXXV, Lecce, 2007-2008.
[9] E. Schiavon, Interventiste nella Grande Guerra. Assistenza, propaganda, lotta per i diritti a Milano e in Italia (1911-1919), Firenze-Milano, Le Monnier, 2015.
[10] R. Rossini, E. Meliadò, Le donne nella Grande Guerra 1915-18. Le portatrici carniche e venete, gli angeli delle trincee, Mantova, Sometti, 2017.
[11] M. Faraone, “Un po’ di polenta, un pezzettino di formaggio e una bottiglia d’acqua, perché sorgenti lassù non ci sono”: intervista con Lindo Unfer, «recuperante» e direttore del museo della grande guerra di Timau, in «Quaderni di Studi Interculturali Rivista semestrale a cura di Mediterránea », n. 2, 2015, pp. 22-30.
[12] E. Franzina, I casini di guerra, Udine, Gaspari, 1999.
[13] D. G. Minozzi, Ricordi di guerra, Amatrice, Vol. I, 1956; E. Franzina, I casini di guerra, cit., p. 67.
[14] M. Pluviano, Le case del soldato, in «Notiziario dell’Istituto Storico della Resistenza in Cuneo e provincia », n.36, dicembre 1989, pp.5-88.
[15] M. Isneghi, Giornali di trincea (1915-1918), Torino, 1977; P. Melograni, Storia politica della grande guerra 1915-1918, Milano, Mondadori, 2001.
[16] E. Franzina, I casini di guerra, cit., p.190.
[17] Sulla partecipazione dei preti e cappellani militari alla guerra: R. Morozzo Della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti soldati (1915-1919), Udine, Gaspari, 2015; Aa,. Vv., La spada e la croce. I cappellani militari nelle due guerre mondiali, Atti del convegno di studi sulla Riforma e i movimenti religiosi in Italia (Torre Pellice 28-30 agosto 1994), a cura di Giorgio Rochat, in «Bollettino della Società di studi valdesi », n. 176, giugno 1995.
[18] P. Monelli, Le scarpe al sole. Cronaca di gaie e di tristi avventure di alpini, di muli e di vino, Milano, Mursia, 2016.
[19] G. Comisso, Satire italiane, Milano, Longanesi, 1961, pp.188-195.
[20] Si veda: G. Gattei, Controllo e classi pericolose: la prima regolamentazione prostituzionale unitaria (1860-1888), in Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al fascismo, a cura di M.L.Betri-A.Gigli Marchetti, Milano, Franco Angeli,1982, pp. 763-796.
[21] E. Franzina, op.cit., pp.194-195.
[22]Ivi, pp.88-89. Si possono inoltre utilmente consultare: T. Bertillotti, Donne eroiche e «veneri vaganti». Luoghi di intrattenimento e rispettabilità, pp. 295-316, in ; M.S. Palieri, Nella trincea del sesso. «Wanda», in M. Boneschi e Aa. Vv., Donne nella Grande Guerra, Bologna, il Mulino, pp. 67-80; A. Cazzullo, Sante e puttane, La guerra dei nostri nonni, Milano, pp. 25-33.
[23] Si pensi alle teorie del Lombroso che distingueva fra donna delinquente, donna prostituta e donna normale: C. Lombroso-G. Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Torino, Fratelli Bocca Editori, 1903.
[24] Di Crocerossine che esercitavano anche la prostituzione, parla C. Malaparte, in Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti con Introduzione di Mario Isnenghi, Milano, Mondadori, 1981.
[25] Si veda: E. Imbriani, Dimenticare. L’oblio come pratica culturale, Nardò, Besa, 2004.
[26] Infatti a San Giorgio di Nogaro venne istituita una Scuola Medica dove gli studenti di medicina, che frequentavano a Padova o in qualche altra vicina Università, venivano a completare gli studi, e una volta laureati, erano subito arruolati nell’Esercito nel Corpo Sanitario.
[27] Cfr.: S. Soldani, Donne senza pace. Esperienze di lavoro, di lotta, di vita tra guerra e dopoguerra (1915-1920) in «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», n.13, 1991, pp.11-56; G. Procacci, La protesta delle donne delle campagne in tempo di guerra, Ivi, pp.37-86; E. Guerra, Il dilemma della pace. Femministe e pacifiste sulla scena internazionale, Roma, Viella, 2014; G. Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Roma, Bulzoni, 1999. In ambito salentino: S. Coppola, Pane!… Pace!, il grido di protesta delle donne salentine negli anni della Grande Guerra, Castiglione D’Otranto, Giorgiani Editore, 2017.
[28] Si veda, fra gli altri: E. Imbriani, Nella terra di mezzo. La guerra tra festa e dolore, in «L’Idomeneo – Il Salento e la Grande Guerra. Atti del Seminario di Studi. Lecce, Monastero degli Olivetani, 5 dicembre 2014», Società Storia Patria per la Puglia, sezione di Lecce, n.18, Università del Salento, Lecce, 2014, pp.199-208.
[29] E. Franzina, op.cit., p. 82. Contro i postriboli militari e a favore del ritorno ad una pulizia morale, era anche don Pacifico Brandi che nella sua opera ci dà molte notizie sulle Case del Soldato: P. Brandi, Le mie memorie di guerra (1916-1919), Loreto, 1939.
[30] E. Hemingway, Addio alle armi, Milano, Mondadori, 1965, pp.448-449.
[31] F. T. Marinetti, L’alcova di acciaio. Romanzo vissuto, Milano, Vitagliano, 1921; Idem, I taccuini 1915-1921, a cura di Alberto Bertoni, Bologna, Il Mulino, 1987.