di Fabrizio Suppressa[1]
L’attuale chiesa matrice intitolata a San Michele Arcangelo fu edificata ab imis fundamentis tra gli anni 1859-1875 in sostituzione dell’antico sacello cinquecentesco costruito, secondo alcune fonti, per volontà del barone Gio. Lorenzo Brayda con il concorso di tutta la popolazione[2].
La volontà della comunità di ingrandire la parrocchiale si attesta già nel 1730, laddove in un documento di “introiti ed esiti” redatto dalla locale Universitas è annotata la voce di 140 ducati riscossi “da sindaci passati pertinenti i medesimi per rifare e ingrandire la Chiesa Madre”[3]. Comunità che, stante il desiderio d’ampliamento, non rinunciava tuttavia ad ornare il tempio, dacché nello stesso documento è registrata la spesa di 50 ducati “per la statua di S. Michele Arcangelo Protettore, fatta venire da Napoli” e 12 ducati per “due fonti di marmo”, provenienti sempre dalla capitale partenopea[4], i quali par di riconoscere in quelli ancora esistenti nell’ingresso laterale dell’attuale parrocchiale.
In ogni caso, le esigue risorse della collettività furono da sempre un problema rilevante per i fedeli, dato che qualche anno prima, durante la visita pastorale di mons. Sanfelice del 1719, il sindaco in carica dovette scusarsi col presule per l’irrisoria offerta di “sei scudi” a motivo della “povertà delle casse comunali”[5].
Simile ristrettezza si riscontrava anche nelle casse della parrocchiale e del locale Capitolo, dato che nel Catasto Onciario del 1743 sono annotati per entrambi i soggetti giuridici la dicitura che le “uscite superano le entrate”.
Le esosità baronali furono per la popolazione un pesante fardello per lo sviluppo del casale, ma con l’abolizione della feudalità decretata tra il 1806 e il 1808 da Giuseppe Bonaparte, re di Napoli, tutte le giurisdizioni baronali e le relative proventi passarono alla sovranità nazionale. Fu istituita una magistratura particolare, la Commissione Feudale, per dirimere il contezioso tra i baroni e le università (comuni). Infatti, nel corso dei secoli i baroni del Regno di Napoli si erano attribuiti illecitamente il diritto di esigere la decima, oltre che sui prodotti agricoli, anche su attività o consuetudini produttive.
Finalmente con la sentenza del 3 ottobre 1809[6] l’ex barone di Neviano, il principe Cicinelli, fu obbligato tra i vari patti stabiliti dal tribunale ad astenersi nella decima della calce, nel richiedere “6 ducati e 20 grana” a titolo dell’emungimento dell’acqua nei pozzi, a pretendere la prestazione a titolo di erbatica (tassa per gli animali da pascolo). Tuttavia venne assolto dalla restituzione dell’indebito riscosso fino ad allora, e fu stabilita la divisione dei demani tra il principe e il comune, il quale finalmente poté lottizzare i terreni per esser concessi agli abitanti poveri che ne facevano richiesta.
Ed infatti nell’Ottocento, con le rinnovate condizioni giuridiche ed economiche, si assistette ad un rapido aumento della popolazione dai 700 di inizio XIX secolo ai circa 1800 abitanti registrati all’Unità d’Italia. Significativo a riguardo, un decreto, il n. 5346, emanato il 25 maggio 1839 da Ferdinando II, in cui il sovrano napoletano “nella mira di far divenire l’abitato del comune di Neviano in Terra d’Otranto atto a contenere l’aumentata popolazione del medesimo” autorizza il comune medesimo a cedere a “Donato Cuppone, Pasquale di Oronzo, Angelo Candido, Domenico Blasio e Francesco Colace” i tratti di suolo pubblico da ciascheduno occupati dietro pagamento di un annuo canone[7]. Il decreto inoltre prescriveva che “le nuove case a costruirsi sieno regolarmente piantate, ed abbiano al possibile una certa uniformità e ricorrenza di linee all’esteriore, e non meschini abituri”[8].
Pertanto, con queste rinnovate condizioni economiche Neviano necessitava di un tempio più ampio e capace di accogliere tutti i suoi fedeli, e non a caso nel 1847, l’arciprete Giuseppe De Franchis, relazionava alla diocesi di Nardò che la navata è “incapace a contenere non più che il quarto della popolazione”, lamentando contemporaneamente “dell’umido” presente nel vecchio tempio, pur tuttavia concludendo che la sua manutenzione “è piuttosto lodevole”[9].
Il documento fondamentale per ripercorrere l’iter edificatorio della nuova parrocchiale è la relazione dal titolo “Notizie storiche intorno alla riedificazione dell’attuale chiesa parrocchiale di Neviano”, redatta dal parroco mons. Roberto Napoli in occasione della santa visita del 1878 fatta da mons. Michele Mautone, vescovo di Nardò.
Da questa importante dichiarazione si rileva come il promotore dell’intervento fu mons. Luigi Vetta, vescovo della Diocesi di Nardò tra il 1849-1873[10], come tra l’altro ricorda l’iscrizione dedicatoria e lo stemma in facciata. Il Vetta è una figura particolare per il travagliato periodo che precede l’Unità d’Italia, infatti, di dichiarata fede borbonica fu costretto anche all’esilio dalla diocesi neretina per cinque anni all’indomani dell’unificazione della penisola. Vescovo che tuttavia si contraddistinse sul territorio per il mecenatismo ecclesiastico, commissionando opere quali il rifacimento del seminario diocesano e della chiesa matrice di Noha (all’epoca ricadente nella Diocesi di Nardò), anch’essa dedicata a S. Michele Arcangelo.
Nel 1859, essendo parroco don Salvatore Chirivì, si dette inizio ai lavori grazie ad una sovvenzione dell’Amministrazione Diocesana di 400 ducati. Altrettanto interessante è la figura dell’arciprete, sicuramente degli stessi ideali politici del vescovo Vetta, come si può dedurre da un’informativa della Prefettura di Lecce, nella quale è definito “uno schifoso borbonico clericale”, aggiungendo che “non compie operazione che non sia reazionaria. Si è sempre rifiutato a solennizzare le feste nazionali”[11].
Infatti fu inquisito per “complicità nel brigantaggio” avendo fornito denaro tra il 1864-1865 alla banda del brigante Francesco il Funerario[12], lo stesso che assieme a Pasquale Aspina (D’Ospina) e altri, fu colpevole di “eccitare il malcontento contro l’attuale Governo” in Seclì tra il 1861-1862[13].
Nell’edificazione della chiesa concorse tutta la comunità mediante l’ausilio nel trasporto di acqua e pietre da costruzione, finanche la legna per la realizzazione di “grandi forni calcinatori”, mentre il suolo per l’ampliamento fu donato dalla famiglia Dell’Abate, facoltosi latifondisti della vicina Nardò. Progettista iniziale dell’intervento fu l’ing. Gregorio Nardò da Nardò[14], probabile figura di fiducia del Vetta in quanto artefice dei lavori commissionati dal vescovo sempre per il seminario e nella ricostruzione della parrocchiale di Noha.
Nel 1873, con la morte di mons. Vetta si arrestarono i lavori, giunti ormai a quasi due terzi dell’opera. Dalla relazione risultano essere state realizzate la sacrestia, il cappellone del SS. Sacramento, la crociera e parte della navata fino alla metà delle seconde cappelle. Di questo arresto dei lavori è ancora ben visibile sui prospetti laterali i segni dell’addentellamento della muratura. Tuttavia, con alcune somme lasciate a disposizione dal presule proprio per il completamento dell’opera, poterono proseguire i lavori.
Fu formata una nuova commissione, che includeva ora anche l’autorità municipale, che diede incarico all’ingegnere Quintino Tarantino da Nardò[15] per la redazione di un progetto di completamento e al contempo, con l’apposizione di una nuova tassa comunale, si raccolsero altri fondi per il prosieguo dei lavori.
Con la ripresa dei lavori si procedette alla demolizione dell’antica chiesa cinquecentesca, poiché sul suolo di questa andava costruita l’attuale navata. Intanto nel settembre 1877 si dette inizio alla realizzazione di “tutti i lavori in legno” mediante appalto dei lavori al fabbro-legnaio Salvatore Leucci da Scorrano, su “progetto d’arte” fatto dal perito Michele Rizzo da Alliste. Di tale intervento permane esclusivamente la robusta porta principale della chiesa e il telaio superstite di una vetrata semicircolare della seconda cappella sinistra, visibile solo dall’esterno poiché murata nel 1957. Finalmente il 4 aprile 1878 il nuovo vescovo di Nardò, mons. Michele Mautone, consacrò il novello tempio con rito solenne, come attesta l’epigrafe in facciata, mentre nel 1880 sono commissionate da famiglie locali l’erezione degli altari laterali, come attestano le epigrafi ivi collocate.
Nella seconda metà del Novecento una serie d’interventi ha contribuito a stravolgere lo stile dell’ottocentesca parrocchiale, non tanto in funzione dell’adattamento alle nuove norme del Concilio Vaticano II, quanto ad una costante ricerca di modernità e di materiali in voga. Infatti, come attesta una lapide nei pressi dell’uscita secondaria, i lavori si svolsero nel 1957, essendo arciprete don Salvatore Antonazzo e vescovo mons. Ursi.
In quest’occasione furono occluse le sei finestre semicircolari delle cappelle laterali, mentre quelle della stessa forma ma di dimensione maggiore della navata vennero modificate fino a diventare rettangolari e leggermente centinate. Similmente furono tamponate una finestra della cupola, una del timpano e due dell’abside. Il risultato fu un tempio snaturato della sua originale impostazione, con una netta diminuzione della luce interna che ne ha reso l’ambiente più scuro e poco contemplativo.
Il pavimento originale, di cui si ignora la consistenza, venne sostituito con una pavimentazione in marmettoni di scaglie di marmo, mentre per le cappelle laterali furono utilizzate comuni mattonelle in cemento. Largo uso di travertino fu adoperato per zoccolature, gradini e rivestimenti, mentre con pittura acrilica fu coperta l’ottocentesca decorazione in finto marmo che decorava le pareti interne della chiesa e delle cappelle, così come testimoniato da foto d’epoca e dai saggi in parte già eseguiti negli anni passati.
Nel 1972, in ossequio alle nuove disposizioni del Concilio Vaticano II, fu modificato il presbiterio mediante la demolizione dell’altare maggiore in pietra leccese, i cui frammenti furono in parte impiegati come decorazione nella recinzione dell’attiguo giardinetto a valle della navata. La cantoria, il coro, l’organo, il pulpito e alcuni arredi sacri, ritenuti antiquati, furono eliminati per dare posto ad un moderno organo elettrico. Tutta l’area presbiteriale e il coro fu rivestita con travertino e ceramica smaltata.
La primitiva chiesa cinquecentesca
Sono poche e frammentarie le notizie sull’antica chiesa cinquecentesca di Neviano, cancellata totalmente dall’edificazione dell’attuale parrocchiale. Nella visita pastorale di mons. Bovio del 1580 è descritta come “extra casale” mentre in quella del 1618 di mons. De Franchis è definita “in medio casalis” e “rimpetto la piazza”, accumunate entrambe dalla presenza dell’altare dedicato a S. Michele Arcangelo. Questa distinzione di localizzazione nelle visite pastorali, prima “fuori” dall’abitato e poi “nel mezzo”, ha portato Giovanni Cartanì ad ipotizzare che la primitiva parrocchiale fosse in realtà la cappella della Madonna della Neve esterna all’abitato di Neviano.
Personale ipotesi è che in realtà la parrocchiale non si è mai spostata, in quanto la distinzione tra “extra casale” e “in medio casalis”, è dovuta probabilmente alla crescita dell’abitato, la cui popolazione in quel periodo vede un repentino incremento dagli iniziali 11 “fuochi” del 1508 (circa 55 abitanti) ai 65 “fuochi” del 1595 (circa 325 abitanti)[16].
L’originale nucleo abitativo di Neviano doveva inizialmente addensarsi nei pressi del castello che degli Orsini del Balzo, poi con lo sviluppo della popolazione, l’abitato si espanse in maniera lineare verso sud-est lungo il costone roccioso, fino a circondare e superare la chiesa matrice.
Uno spaccato di vita della parrocchiale si rileva nel testamento redatto il 17 gennaio 1626 dal notaio Sabatino Duca di Neviano[17], quando Isabella Tedesco di Galatone, moglie di Marcello Sinidoro di Neviano, lascia tutti i suoi beni, dopo la morte del marito usufruttario, alla chiesa parrocchiale di Neviano con l’obbligo di fondare una cappella in cui collocare un quadro con l’immagine della S.ma Annunziata. Morto il Sinidoro, il clero locale, composto dall’arciprete don Giov. Angelo Zizzari, don Angelo Bisci, il diacono Camillo Giordano, con il sindaco Giacomo Musticchi, previo assenso del vicario Granafei (atto del 4.12.1650 di notaio de Magistris), vendono un terreno della fu Isabella per 9 ducati ed 1 tarì, i quali vengono consegnati al pittore Giovanni de Tuglie di Galatone in acconto al quadro commissionato da Isabella “con le immagini della Madonna S.ma Annunziata, e Dio padre e degli angeli nella parte superiore”.
Ad un anno dalla morte, il clero di Neviano, in quanto legatario di Isabella, vende un altro immobile per il prezzo di 30 ducati, che verranno consegnati al pittore de Tuglie al fine di completare il dipinto.
Altre scarne notizie sulla parrocchiale possono essere rilevate dalle visite pastorali dei presuli di Nardò. In quella di mons. Sanfelice del 1719 la chiesa è descritta con battistero, sacrestia, torre campanaria, porta maggiore, e infine un altare dedicato S. Oronzo. Quest’ultimo era a carico dell’amministrazione comunale, come si rileva nella visita pastorale di mons. Lettieri.
Dai documenti consultati è pertanto facilmente individuabile l’area di sedime dell’antica parrocchiale, collocata tra il sagrato e la fine delle seconde cappelle laterali, con un orientamento liturgico pressoché coincidente con quello dell’attuale navata. E’ possibile dedurre quanto appena affermato dal fatto che:
- Nel 1873 alla morte del vescovo Vetta era stata realizzata “la sacrestia, il cappellone del SS. Sacramento, la Crociera (leggi transetto), e parte della navata fino a metà delle seconde cappelle”.
- Di questa interruzione è ancora visibile il segno degli addentellamenti della muratura sulle facciate laterali.
- Per tutto il 1874 la chiesa cinquecentesca è ancora in piedi e in funzione, dato che il 13 dicembre 1874 il clero e i fedeli in solenne processione si recarono dalla matrice alla chiesa di S. Giuseppe al fine di traslocare i Sacramenti, il fonte battesimale e quant’altro necessario. A partire da questa data fino al 1878 la chiesa di S. Giuseppe è eletta temporaneamente a chiesa parrocchiale.
- Nel 1874 secondo la relazione della visita pastorale del 1878 “si cominciò a demolire la vecchia chiesa” sul cui sedime doveva “piantarsi il resto della navata”.
Quindi è possibile escludere con certezza documentata che il sito dell’attuale transetto coincidesse con l’antica chiesa, come ipotizzato da molti. E’ inoltre da escludere la presenza di sepolture sotto il pavimento della chiesa, in quanto, alla data di ultimazione della chiesa era già entrato in vigore l’editto di Saint Cloud (1804) che vietava la sepoltura all’interno dei centri abitati (confermato poi nel 1865 dalla Prefettura), nonché per quanto è rilevabile dal registro parrocchiale dei defunti che a partire dal 1838 e fino al 1889 (anno di realizzazione del cimitero attuale) descrive il luogo di sepoltura come la chiesa fuori dall’abitato di S. Maria ad Nives.
Un enigmatico S. Cristoforo sulla facciata laterale
Sulla parete destra della chiesa, adiacente la porta laterale, è presente un grande dipinto murale a secco oramai quasi impercepibile, realizzato nella seconda metà dell’Ottocento, dove è rappresentato San Cristoforo con la classica iconografia desunta dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, ovvero con Gesù Bambino sulle spalle che regge il globo crucifero, bastone e piedi immersi nell’acqua nell’atto di guadare un fiume. Forse a causa delle degradazione della pittura, il soggetto fu replicato in ceramica smaltata al di sopra della porta laterale “per devozione di Mastore” negli anni Settanta del Novecento.
Questo Santo, uno dei quattordici ausiliatori (ovvero “che recano aiuto”), era invocato in passato come protettore dalla “morte improvvisa”, ed infatti vi era la credenza che chi avesse visto la sua immagine quel giorno non sarebbe morto. Per tale motivo, nel medioevo, era rappresentato all’esterno delle chiese e delle porte cittadine in proporzioni colossali, una tradizione molto viva un tempo specie nei paesi del Nord Europa.
Inoltre San Cristoforo era invocato anche dai pellegrini, viandanti e viaggiatori e questa rappresentazione potrebbe essere il segno che Neviano costituisse in passato una località di passaggio per pellegrini, forse diretti al santuario della Madonna di Leuca, luogo di culto che un tempo richiamava fedeli da tutta l’Europa. Un’ipotesi suffragata anche dal fatto che in un documento di “introiti ed esiti” redatto dall’Università di Neviano nel 1730 è riportata la somma di 62.56 ducati per varie “spese straordinarie” tra cui quelle per “elemosine a pellegrini”[18]. Un fenomeno che si riscontra per tutta l’antica Terra d’Otranto, come a Maruggio, Ginosa, Manduria, Montesardo, Parabita, dove erano presenti istituzioni caritatevoli o ospedali al servizio dei pellegrini.
Note
[1] La presente relazione storico-architettonica è tratta dal progetto di restauro approvato dalla Soprintendenza B.A.P. di Lecce il 06/04/2020.
[2] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, Nuova Prhomos, Città di Castello 2015, p. 53.
[3] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, cit., p. 265.
[4] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, cit., p. 266.
[5] ASDN Visita pastorale di mons. Sanfelice 1719, A/22, f. 108; G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, cit., p. 98.
[6] S.A., Commissione Feudale di Napoli, Bullettino delle sentenze emanate dalla Suprema commissione per le liti fra i già baroni ed i comuni, n. 10, anno 1809, Tipografia Angelo Trani, Napoli 1809, p. 29-37.
[7] Regno di Napoli, Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Anno 1839, Semestre I, Stamperia Reale, Napoli 1839, p. 186-187.
[8] Regno di Napoli, Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Anno 1839, Semestre I, Stamperia Reale, Napoli 1839, p. 186-187.
[9] ASDN Corrispondenza tra Neviano e la curia vescovile di Nardò, anno 1847.
[10] Nacque ad Acquaviva Collecroce (CB) nel 1805. Trentaduesimo vescovo di Nardò, nominato dal pontefice Pio IX, in carica dal 20 aprile 1849. Morì a Nardò il 10 febbraio 1873, sepolto nella chiesa di S. Maria Incoronata.
[11] Documento riportato in una ricerca dei ragazzi dal titolo “Sulle nostre strade” della 1° classe della Scuola Media dell’Istituto Comprensivo di Neviano, A.S. 2005/2006.
[12] Archivio Centrale dello Stato, Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, Volume 2, p. 1278.
[13] Archivio Centrale dello Stato, Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, Volume 2, p. 1275.
[14] Gregorio Nardò da Nardò è in realtà un perito agronomo, così come definito nell’Annuario d’Italia (S.A., Annuario d’Italia, Calendario Generale del Regno, 1896, Anno XI, p. 2135). Questi è soprattutto attivo come agrimensore, specie in contenziosi amministrativi sul territorio del comune nativo, come cui vengono commissionati nel 1851 elaborati planimetrici quali la “N. 3. Topografia dell’usurpazione lungo la strada pubblica detta La Pila Nuova” “N. 1. Topografia dell’usurpazione lungo la strada pubblica detta Impestati” , “N. 2. Topografia dell’usurpazione lungo la strada pubblica detta Tarantina in Monte Cafuori”, (ASLe, Consiglio di Intendenza di Terra d’Otranto, Processi del contenzioso amministrativo, busta 37, fasc. 62.8). Mentre nel 1865 produce “Pianta topografica del fondo via di Neviano o Guardia in agro di Aradeo” (ASLe, Tribunale Civile di Terra d’Otranto, Perizie, busta 93, fasc. 587) per un contenzioso di confinazione.
[15][15] Quintino Tarantino è stato un ingegnere e urbanista nato a Nardò nel 1842, formatosi dapprima come matematico presso l’Università di Napoli (1866). Dal 1877 fu incaricato dall’amministrazione comunale del paese natìo per vari interventi urbanistici di espansioni al di fuori del fossato, ormai colmato e trasformata in asse stradale. L’opera per cui è maggiormente riconosciuto è il teatro comunale di Nardò nell’attuale corso Vittorio Emanuele, il cui progetto fu preferito rispetto a quello dell’ingegnere Gregorio Nardò (che lo aveva previsto nell’attuale piazza Salandra), morì a Nardò nel 1919 (D. G. De Pascalis, L’arte di fabbricare e i fabbricatori, Besa, Nardò 2001, pp. 100-101. Nell’ambito del restauro si segnala il progetto del 1867 dell’intera demolizione della cattedrale di Nardò (B. Vetere, Città e monastero: i segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), Congedo, Galatina 1986, p. 198), cui seguì la “Risposta al voto emesso dal Consiglio superiore dei LL. PP. sul progetto della nuova Cattedrale di Nardò” edita a Lecce nel 1890 per i tipi “Tip. G. Campanella e figlio”, e i lavori di consolidamento della chiesa dei SS. Medici, fuori il centro urbano di Nardò (F. Suppressa, Un continuo cantiere. Sette secoli di vicende della chiesa di Santa Maria del Ponte in Nardò, in La chiesa dei Santi Cosma e Damiano a Nardò già di Santa Maria del Ponte, a cura di M. Gaballo, Congedo, Galatina 2018, p. 55-74).
[16] Si confronti i dati in: M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale, Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988. L’andamento cambia radicalmente nel corso della prima metà del Seicento, dove una crisi generale porta ad una diminuzione del 40% della popolazione, dato che nel 1627 i fuochi passano a 25 (125 abitanti), Neviano quindi subisce il più forte decremento tra i centri di Terra d’Otranto (A. Bulgarelli Lukacs, La popolazione del Regno di Napoli nel primo Seicento (1595-1648), in “Popolazione e Storia” n. 1/2009, p. 105). D’altronde la produzione media di cereali passa dai 600 tomoli degli anni 1585-88 ai 328 tomoli nel biennio 1623-24 (M.A. Visceglia, Rendita feudale e agricoltura in Puglia nella età moderna (XVI-XVIII secolo), in “Società e storia”, n. 9, 1980, p. 547). Nei Relevi presentati alla camera della Sommaria tra la fine del Cinquecento e gli anni ’40 del Seicento Neviano fornisce un reddito di 1571 ducati nel 1616 quasi quanto Parabita o Trepuzzi (M. A. Visceglia, L’azienda signorile in Terra d’Otranto, in “Quaderni storici” vol. 15, n. 43 (1), 1980, pp. 39–60).
[17] G. Cosi, Il notaio e la pandetta, Congedo, Galatina 1992, p. 129.
[18] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, Nuova Prhomos, Città di Castello 2015, p. 266.