di Mirko Belfiore
L’edificio che più di tutti testimonia il potere degli Imperiale nel Salento è sicuramente il Castello-residenza di Francavilla, sede di una delle corte fra le più vivaci dell’area. Sopravvissuto alla caduta del potere feudale e divenuto fra il XIX e il XX secolo, sede del potere civile, Esso è stato recentemente sottoposto a un importante progetto di recupero. Ristrutturato nelle linee architettoniche quanto negli ambienti interni, ciò che si sta delineando per questo edificio è un nuovo ruolo da protagonista come contenitore culturale cittadino, progetto che ha avuto come prima tappa la realizzazione del polo museale archeologico del MAFF.
Il visitatore che percorre queste stanze rimane piacevolmente entusiasmato dalla vista di una moltitudine di elementi che nel corso dell’età moderna hanno portato questo complesso a trasformarsi da rocca fortilizia cinquecentesca a dimora nobiliare: la Sala del camino, il loggiato barocco, l’importante atrio d’ingresso con l’elegante scalone monumentale, l’imponente ballatoio interno, gli affreschi della cappella gentilizia e il caratteristico fossato, antico luogo di “delizie” floreali.
Si volesse trovare il lato negativo nell’analisi delle opportunità offerte da questo interessante luogo, unico nel suo genere anche per il contesto in cui si trova, questo lo possiamo riscontrare nella totale assenza di quelle testimonianze artistiche, arredi o suppellettili che durante i secoli XVII e XVIII, si disponevano nei diversi vani e di cui oggi poco o nulla è rimasto.
La prova che all’interno di questo edificio fosse presente un cospicuo numero di manufatti, anche di un certo valore e fattura, non è il risultato di ricostruzioni a posteriori o ipotesi azzardate, ma è l’esito di un’analisi approfondita di alcuni degli inventari notarili fatti redigere dai principiali membri di Casa Imperiali. In queste importanti carte ritroviamo una consistente lista di oggetti d’arte, opere cartacee e mobilio di pregio, tutti facenti parte di un’importante collezione creata durante i due secoli di governo della famiglia in Terra d’Otranto e disposta non solo in questo luogo ma in altre residenze di proprietà.
Tramite la lettura di questi elenchi possiamo comprendere non solo l’entità del patrimonio immobiliare che la famiglia accumulò, successivamente vittima di smembramenti e dispersioni, ma cogliere anche importanti informazioni sul gusto e sulle scelte di indirizzo artistico che essi perseguirono. A seconda delle opportunità presentatesi, Essi poterono accaparrarsi capolavori provenienti da tutt’Italia, chiamare a servizio maestranze provenienti dalla madre patria genovese, servirsi dell’operato di artisti di grido della scena napoletana o romana, contesti che fra l’altro ben conoscevano, o impiegare artisti facenti parte della vivace scuola pittorica locale, creatasi all’ombra del loro mecenatismo.
Prima di avventurarci nella lettura dei numerosi inventari di Casa Imperiale a noi pervenuti, argomento dei prossimi articoli, trovo illuminante fare chiarezza sulle dinamiche che hanno portato alla realizzazione di queste interessanti raccolte.
Decifrare in poche righe il “mestiere” del collezionista non è un proprio un compito facile, visto che lo stesso rimane un percorso affascinante e dai mille risvolti, che nella scena italiana trova numerosissimi spunti e approfondimenti. Tentando di tracciare alcune linee guida, possiamo rimandare alla seconda metà del Quattrocento, durante quel periodo passato alla storia come il Rinascimento, il punto di svolta per la nascita di alcune delle più famose collezioni d’arte.
Tutto ebbe inizio nelle dimore principesche di alcune città del Nord Italia, sedi di corti sfarzose, e dove uomini e donne di alta caratura, amanti di qualsiasi tipo di espressione artistica, fecero realizzare dei piccoli ambienti privati: gli studioli o camerini. Quivi, immersi fra volte affrescate o arredamenti dai pregevoli intarsi lignei, si trovavano gelosamente custoditi un numero impressionante di manufatti: dipinti, sculture, opere in porcellana, gemme preziose, monete antiche e tutto ciò che incuriosiva o accarezzava la curiosità del nobile proprietario. Questo era un luogo intimo e riservato, perfetta sintesi dello status, del carattere personale e degli interessi del committente e dove lo stesso poteva coltivare le proprie passioni nei momenti di riflessione dalle fatiche del quotidiano. Fra i più celebrati ricordiamo quello di Federico di Montefeltro a Urbino, Isabella d’Este a Mantova, Francesco I de’ Medici a Firenze e Alfonso I d’Este a Ferrara. Tutto ciò, naturalmente, era a uso e consumo esclusivo del proprietario di casa, il quale poteva decidere di aprire la visita di questo luogo alla sua cerchia ristretta o consentire visite a personaggi di una certa importanza e di passaggio come potenti, diplomatici o ecclesiasti. Con la realizzazione di questi spazi si delinea un vero e proprio passaggio di consegne fra l’ambiente monastico, fino allora principale tenutario di tutto ciò che era sapere e arte, a quello umanistico, nuovo luogo di sviluppo e proliferazione del clima intellettuale dell’epoca.
Questo percorso vide un decisivo sviluppo nel periodo a cavallo del XVI e del XVII secolo, quando quel piccolo spazio andò a trasformarsi in un ambiente più ampio, più sontuoso e aperto al pubblico: la galleria. Si decise che l’espressione artistica doveva diventare anche e soprattutto esaltazione del potere raggiunto, dove il padrone di casa, nobile o arricchito che fosse, potesse mettere in mostra i propri “muscoli” ostentando la ricchezza, il ruolo politico e il livello del bagaglio di conoscenze culturali e filosofiche raggiunte.
In Italia, gli esempi di questo genere si sprecano. Non si possono non conoscere le vicende di corti principesche dagli echi leggendari come quelle sviluppatesi a Mantova con i Gonzaga, a Ferrara con gli Estensi, a Milano con gli Sforza, a Firenze con i Medici e a Roma con i vari papi saliti al potere, dove artisti dai nomi celebri vennero protetti da mecenati altrettanto celebri come Lorenzo il Magnifico, Vincenzo I e Ferdinando Gonzaga, papa Giulio II o Ludovico il Moro. Questi personaggi ben conoscevano il massaggio che questo genere di opere veicolava, tale da poter garantire una più rapida ascesa nel consenso.
Questa trasposizione di valori avvenne più velocemente e in maniera più diffusa nell’ambito dell’Italia centro-settentrionale, rimanendo inizialmente più anonimo nel contesto meridionale. Persino in un centro importante come Napoli, una città fra le più grandi e popolose dell’epoca, capitale del Regno sia in età angioina che in quella aragonese, non si rintraccia una collezione regia valevole di questo nome. Questa mancanza si rifletteva sicuramente sulle nobiltà partenopea quanto su quella sparsa nelle province periferiche, le quali senza un modello da imitare, non si posero mai il problema o l’obiettivo di realizzare tali raccolte, con tutti i risvolti poc’anzi elencati. Sia chiaro, non che mancassero uomini di cultura, mecenati o artisti di grido, ma la “febbre” del collezionismo mancava ancora di quella spinta che arriverà solo fra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento.
Ciò che scaturì in questo frangente fu una sorta di scontro fra le numerose sollecitazioni esterne e la nascita di una specificità culturale, dibattito che ebbe come risultato l’esplosione di una vera e propria stagione artistica, carica di novità e originalità. Il punto di non ritorno può essere fatto risalire alla diffusione delle disposizioni scaturite dal Concilio di Trento e dal successivo movimento controriformato, evento epocale che dalla seconda metà del XVI secolo ebbe un’influenza diffusa in tutti i campi dello scibile umano. Tutto ciò si tradusse in arte in quella esperienza culturale passata alla storia come Barocco e della quale sempre Napoli fu una delle massime interpreti.
Al sorgere del XVI secolo, il Regno di Napoli era entrato ufficialmente a far parte dei domini spagnoli, e con l’istituzione del Vicereame, tutto il Meridione si ritrovò inserito nel composito Sistema imperiale iberico. Questa nuova condizione non si tradusse in una completa subordinazione alla Spagna asburgica, grazie anche al governo di alcune figure di rilievo come il Viceré Don Pedro de Toledo che contribuì alla diffusione di una certa vivacità in tutti i campi, fra i quali la cultura.
L’influenza dell’autorità spagnola, la Controriforma e la massiccia affluenza di genti straniere (fiamminghi, castigliani, toscani e soprattutto genovesi) spostarono sempre di più il baricentro della tradizione partenopea verso una soluzione molto più internazionale. In campo artistico fu paradossalmente sotto una dominazione come quella iberica, che la città conobbe un periodo di ricchezza e prosperità. Questa venne contraddistinta da una maturazione artistica senza precedenti che sfociò in un linguaggio riconoscibile in architettura, nelle decorazioni marmoree, negli stucchi e anche in pittura, grazie alla nascita di una maniera raffinata e fastosa che ben si sposò con l’animo passionale partenopeo. Volendo cogliere gli effetti scatenanti di questa nuova stagione, si possono identificare due eventi nodali.
In primis, tutto l’ambiente partenopeo venne sconvolto dall’energia cupa e dall’estremo naturalismo dell’artista lombardo Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, presenza che diede un ulteriore spinta alle trasformazioni già in atto. Questi, in fuga da Roma per l’omicidio del rivale Ranuccio Tomassoni da Terni, si rifugiò a Napoli in due occasioni, nei bienni 1606-1607 e 1609-1610, venendo assoldato da committenze partenopee per la realizzazione di alcuni dipinti, vista la grande fama di artista rivoluzionario e dannato.
Il secondo grande contributo lo possiamo ricondurre alla comparsa in città di alcune figure di notevole carisma come il Cardinale Ascanio Filomarino, potentissimo vescovo di Napoli dal 1641 al 1666 e il fiammingo Gaspar de Roomer. Il primo fu un riconosciuto protettore delle arti e facoltoso collezionista, mentre il secondo era un ricchissimo mercante giunto a Napoli da Anversa nel 1634, e proprietario di una notevole raccolta di dipinti che annoverava più di 1500 tele. A tutto ciò va aggiunta la fervente attività dei vari ordini mendicanti, figli dell’azione controriformata e attivi in città già dalla fine del XVI secolo.
Queste circostanze diedero l’opportunità ai pittori locali, in alcuni casi già tecnicamente validi, di poter essere presi in considerazione in misura maggiore dalla committenza napoletana. Quest’ultima, naturalmente, non smise mai di accaparrarsi i servigi artistici di maestri provenienti da lontano come Guido Reni (documentato in città nel 1612 e nel 1621-22), Domenichino (presente in città fra il 1631 e il 1641 per dipingere la Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo) e Lanfranco (attivo a Napoli fra il 1634 e il 1646), o di accaparrarsi testimonianze pittoriche di artisti stranieri fiamminghi quotati come il Rubens o il Van Dick. Essa incominciò a prendere in considerazione gli artisti della scuola locale, i quali avevano dimostrato di aver maturato una nuova maniera pronta a rispondere alle loro esigenze.
Questa azione congiunta diede una spinta rivoluzionaria, tale da alimentare quella splendida stagione artistica che contraddistinguerà Napoli durante tutto il Seicento e buona parte del Settecento e che non si limitò ad essere solamente una copia del caravaggismo e dei suoi interpreti più importanti, ma che possedeva la forza di trasformarsi in una fucina creativa molto prolifica. Fra gli artisti che per primi reinterpretarono la lezione caravaggesca troviamo i nomi di Battistello Caracciolo, Artemisia Gentileschi, Jusepe de Ribera, Belisario Corenzio e per i quali venne coniato il termine di “tenebrosi”, epiteto assegnatogli per il potente iperrealismo e l’uso di toni cupi e pacati. Se l’arrivo del Merisi fu l’ascendente sugli artisti della prima metà del secolo, i restanti cinquanta furono condizionati dai traumi della grande peste del 1656, tragico evento che decimò violentemente la popolazione napoletana. Le reazioni a questo avvenimento fecero emergere una decisa avversione al precedente realismo, soluzioni che portarono all’utilizzo di quell’acceso cromatismo di derivazione veneta che andò a illuminare a giorno i colori tenebrosi e gli sfondi scuri delle realizzazioni precedenti. Gli artisti protagonisti e principi di questa stagione furono sicuramente: Luca Giordano e Francesco Solimena, senza dimenticare Mattia Preti e Paolo de Matteis.
Nella capitale partenopea si diffuse quella carica innovativa che oltre a trovare terreno fertile in città, seppe diffondersi capillarmente nelle aree periferiche del regno che, rotte le prime resistenze, non fecero altro che uniformarsi alla nuova tendenza. Ai confini di questo fenomeno emerse nella sua particolarità il territorio salentino, dove si svilupperà una cultura figurativa che coinvolgerà tutte le arti maggiori e che prese il nome di “Barocco leccese”.
L’ambiente pugliese, molto tradizionalista, rimase inizialmente arroccato sulle proprie tradizioni tardomanieriste di ambito veneto, vere e uniche protagoniste dei primi vent’anni Seicento, favorite dalla presenza continua e costante, soprattutto nelle aree del barese e del brindisino, di quei mercanti veneti in viaggio da e verso la Serenissima. Il punto di svolta arriva nel terzo decennio, allorquando incomincerà a farsi spazio la spinta incontenibile del nuovo gusto napoletano, il quale decreterà con le sue novità una vera e propria rivoluzione.
Basta elencare le numerose testimonianze dirette di tutti i dipinti che con abbondanza giunsero in Puglia dalle botteghe di pittori affermati e attivi a Napoli come Pacecco de Rosa, Andrea Vaccaro e Jusepe de Ribera, tendenza che continuerà durante tutto il Settecento con le opere di Luca Giordano, Francesco Solimena e Mattia Preti. In aggiunta a ciò, vanno registrati i soggiorni di artisti che a Napoli si formeranno ma che in Puglia troveranno importanti committenze come: Paolo Finoglio a Conversano, Francesco Guarini a Gravina e Cesare Fracanzano a Barletta. Infine, il meglio della pittura pugliese attiva più o meno stabilmente nella regione, fu totalmente influenzata dalla maniera napoletana. Questa tendenza fu incrementata dal fenomeno cosiddetto degli “artisti vicari” e che portò molti artisti delle provincie a spostarsi verso Napoli per apprendere uno stile affermato e prestigioso. Questi poi, ritornando nei luoghi d’origine, diffusero il nuovo “verbo” accaparrandosi le committenze della nobiltà locale desiderosa dei lori servigi.
Ciò fu possibile in maniera evidente in Puglia, dove la nobiltà trovava negli artisti locali una risorsa a buon mercato e molto più incline ad accontentare i propri voleri e i propri capricci.
In Terra d’Otranto e a Francavilla in particolare, gli esempi più rilevanti sono da ricondurre ad alcuni artisti: Domenico Antonio Carella, presente in numerosi centri del barese, del brindisino e del tarantino, Ludovico delli Guanti e la sua bottega, molto attivo a Francavilla, i fratelli Bianchi di Manduria o i maestri cartapestai Pinca e Zingaropoli.
Questa specie di “provincializzazione” o riduzione allo standard napoletano non deve essere letta come una discesa a un livello inferiore perché, mediante il tramite partenopeo, la cultura figurativa pugliese si spostò verso: “una scena ben più ampia e organica di quella alto adriatica e greco bizantina, permeata ancora da influenze lombarde e toscane tutto sommato minori che per decenni erano stati i principali stimoli esterni di differenziazione e di originalità rispetto alle restanti aree meridionali fino a tutto lo stesso periodo umanistico” (G.Galasso).
Tutto ciò fu possibile perché la feudalità pugliese non ricevette dall’autorità spagnola duri colpi come nelle altre zone del Meridione. Anzi, antiche e nuove famiglie come gli Acquaviva di Conversano, gli Orsini di Gravina, i Carafa d’Andria e i Caracciolo di Martina Franca, insieme agli Imperiali di Francavilla, raggiunsero proprio nel XVII secolo, il culmine della loro fortuna. Essi incrementarono il loro collezionismo privato commissionando cicli pittorici e creando consistenti quadrerie da inserire nei sontuosi palazzi di proprietà. Questi dovevano essere arredati secondo una vera e propria parata ufficiale, tanto da assomigliare palesemente alle fastose dimore partenopee, sia che questi si trovassero nella provincia più sperduta quanto nella centralissima Napoli.
Collezioni sterminate che avevano una collocazione ben precisa, e che nel caso degli Imperiali erano disseminate lungo le numerose proprietà di famiglia, dal nucleo feudale francavillese fino ai palazzi di Latiano, Manduria o Avetrana, senza dimenticare le dimore stagionali di Massafra, Carovigno e Mesagne, tutti luoghi dove questi manufatti era disposti con attenzione e cura e che proprio tramite la lettura degli inventari notarili possiamo tentare a riordinare.
(Continua)
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