di Nazareno Valente
Con telegramma del 18 dicembre 1946, il deputato Vito Mario Stampacchia comunicava con esultanza al sindaco di Brindisi, Francesco Lazzaro, che la sottocommissione costituente aveva deliberato l’istituzione della Regione Salento.
Dal tono del telegramma sembrava che fosse ormai cosa fatta, invece così non era, tanto è vero che, nel prosieguo dell’iter, la proposta si arenò o, per essere più precisi, fu fatta sparire, perché depennata dall’elenco.
In conclusione, non se ne fece nulla.
Ciò che avvenne si tinge in effetti di giallo. Un giallo tuttora da risolvere, considerato che l’assassino rimane avvolto nell’ombra. Certo si conosce l’organismo che, al momento opportuno, tolse la Regione Salento dall’elenco, ma è avvolto nel mistero chi fu il reale mandante di questa decisione. C’è però qualche sospetto, ed i più sono propensi a credere che fu Aldo Moro, allora deputato della Costituente, l’autore dell’intervento che mortificò le aspirazioni della nuova regione.
In effetti, tutti gli indizi fanno credere che Aldo Moro non fu estraneo ai fatti, anzi ne fu uno dei più ragguardevoli artefici. Ma non certo il solo. Né forse quello principale. Ci furono varie circostanze sfavorevoli che tramarono contro il progetto ma, in maniera preponderante, pesò sulla decisione la dura posizione assunta a riguardo da un’altra forza politica, che Moro sfruttò per salvaguardare gli interessi dell’elettorato barese.
Almeno questo a mio parere; parere maturato dopo attenta lettura dei verbali dei vari organismi della Costituente che deliberarono sull’autonomia regionale.
Per poterci capire qualcosa è necessario ritornare a quei tempi e ricostruire la situazione politica d’allora e le modalità con cui l’organo costituente decise di operare.
In merito a quest’ultimo punto, l’Assemblea Costituente si riunì per la prima volta il 25 giugno 1946, senza che il governo avesse in precedenza elaborato un progetto di Costituzione. Ciò rese necessario che fosse preliminarmente definito un progetto organico ed articolato da sottoporre poi alla discussione delle sedute pubbliche dell’Assemblea. Per questo motivo la Costituente nominò al proprio interno una “Commissione per la Costituzione”, incaricata di redigere uno schema che l’Assemblea avrebbe poi valutato articolo per articolo. Tale commissione, composta da 75 deputati della Costituente in modo da rispecchiarne la composizione partitica, prevedeva al proprio interno tre rappresentanti eletti nella circoscrizione salentina Lecce-Brindisi-Taranto, vale a dire Giuseppe Codacci Pisanelli (Democrazia Cristiana, nel seguito DC), Giuseppe Grassi (Unione Democratica Nazionale, che accorpava centristi e liberali) e Ruggero Grieco (Partito Comunista Italiano, PCI), oltre ad altri personaggi politici di spicco, quali, ad esempio, Nilde Iotti e Palmiro Togliatti del PCI e Aldo Moro della DC.
Nella prima riunione del 20 luglio la Commissione dei 75 si suddivise in tre sottocommissioni, ciascuna incaricata di definire il testo riguardante specifici argomenti istituzionali. La trattazione dell’autonomia regionale toccò alla seconda Sottocommissione che iniziò ad esaminare una prima bozza redatta da un gruppo di lavoro di dieci suoi componenti coordinati dal deputato Ambrosini (DC).
Sin dall’inizio dei lavori sorsero non banali conflitti di competenza tra le varie sottocommissioni, per cui la Commissione dei 75 decise la costituzione di un comitato di 18 suoi componenti, incaricato di esaminare i testi prodotti dalle tre sottocommissioni e di compilare un progetto organico ed unitario. Questo comitato fu chiamato “Comitato di redazione” o anche “Comitato dei 18” e tra i suoi componenti comprese, tra gli altri, Giuseppe Grassi e Ruggero Grieco eletti nella circoscrizione salentina, Aldo Moro e Palmiro Togliatti, come già riportato esponenti di rilievo dei partiti allora maggioritari, vale a dire la DC ed il PCI.
La situazione politica era infatti condizionata da questi due partiti di largo seguito. Il PCI poteva contare sull’appoggio dei socialisti, presentatisi alla consultazione avendo messo d’accordo le varie anime del partito, da quella più moderata a quella più radicale. La sigla stessa (PSIUP, Partito Socialista di Unità Proletaria) esprimeva però una qual certa preponderanza della corrente vicina alle posizioni comuniste. Il rapporto di forza era così quasi equamente controbilanciato: la DC aveva 207 dei 556 seggi disponibili, il PCI ed il PSIUP, rispettivamente 104 e 115, e, quindi, nel totale 219 seggi. Ciascuno di questi due blocchi cercò naturalmente di far prevalere il proprio indirizzo.
Come detto il governo non aveva fornito alcuno schema sul decentramento dei poteri dello Stato, tuttavia per questioni di opportunità un paio di settimane prima che si costituisse la Repubblica, i moti di separatismo avviati in Sicilia avevano fatto già decidere la costituzione della regione Sicilia. In aggiunta, nel settembre 1946, a seguito dell’accordo De Gasperi-Gruber, fu costituita la regione autonoma Trentino-Alto Adige. Come dire che, sebbene l’ordinamento statale non prevedesse neppure l’esistenza delle Regioni, ma solo quella delle Province e dei Comuni, erano già state costituite due regioni, e in più ad ordinamento autonomo. Di fatto le regioni, che sino ad allora erano esistite solo come entità statistiche di rilevazione, furono introdotte nell’organizzazione statale prescindendo da un qualsiasi preliminare giudizio di merito dell’organo preposto alla stesura della Costituzione. In definitiva la Costituente si trovò di fronte ad un fatto compiuto: il riconoscimento che la Regione fosse uno degli enti locali attraverso cui si sviluppasse l’articolazione autonomistica dello Stato, che fino ad allora s’era incentrato sui soli Comuni e Province.
Proprio su questo versante s’innescò la contrapposizione tra le diverse tendenze politiche dei due principali partiti del tempo.
Sulla definizione della regione si scontrarono quindi concezioni politiche e culturali diverse, già delineate in età liberale e nel periodo fascista ed in linea con il processo di trasformazione della società avviato nel corso della Resistenza.
Se i cattolici consideravano la regione uno strumento per superare un impianto fortemente gerarchico e centralistico e per meglio rappresentare gli interessi emergenti dal territorio, le sinistre manifestavano, invece, ferma avversione alla realizzazioni di troppe regioni che potessero minare l’unità dello Stato. Alla fin fine si cercò quindi una via di mezzo facendo prevalere le ragioni politiche contingenti rispetto ad un augurato effettivo rinnovamento. Per altro tutti sembrarono inizialmente propensi a prevedere l’istituzione delle regioni, ed in tal senso furono tutti d’accordo, tranne un deputato, previa però abolizione – o quanto meno ridimensionamento giuridico – delle province.
Sicché già dal 14 novembre 1946 la seconda sottocommissione approva che «Il territorio della Repubblica è ripartito in Regioni e Comuni. La Provincia è una circoscrizione amministrativa di decentramento regionale». In definitiva la Provincia, da sede di decentramento dell’amministrazione statale, viene declassata a circoscrizione amministrativa di decentramento regionale. Il che condizionò le successive discussione, in quanto tra Comune e Regione pareva a taluni mancare un ente intermedio, e spostò il problema dalla pura e semplice istituzione delle regioni alla loro composizione territoriale nelle quali si cercava di recuperare la persa autonomia provinciale.
Come già riportato, sino ad allora il termine “regione” non era mai stato definito in termini istituzionali, ma solo ai fini statistici e, a tale scopo, utilizzato per la prima volta nell’Annuario statistico italiano del 1912. Era pertanto una ripartizione dello Stato che, pur tenendo conto delle tradizioni storico-geografiche, obbediva in prevalenza ad un criterio burocratico di suddivisione. Cosa questa riscontrabile, ad esempio, nel non considerare a sé stanti la Valle d’Aosta ed il Friuli, inserite per questioni quantitative rispettivamente nel Piemonte e nel Friuli, oppure nel non nominare neppure la Romagna, inclusa anonima nell’Emilia. Ma anche desumibile in alcune denominazioni scelte: tipico il plurale, “Puglie”, adottato per la nostra regione, probabilmente ad indicare un accorpamento di zone con tradizioni non certo del tutto omogenee.
Pur tuttavia, come vedremo, nella discussione il criterio statistico divenne, soprattutto quando convenne, pure storico-geografico e richiamato da chi – non del tutto a torto – temendo che il fiorire delle richieste regionalistiche potesse frantumare l’unità del paese appena conquistata con la guerra di liberazione, preferì il rigido mantenimento delle suddivisioni regionali stabilite dai demografi. Fatte naturalmente salve le eccezioni dovute a ragioni di opportunità politica.
In ogni caso, il declassamento della Provincia fece lievitare il numero di proposte di istituzioni di regioni che s’aggiungevano a quelle previste dagli annuari statistici, che per la cronaca allora erano le seguenti: Piemonte, Lombardia, Venezia Tridentina (Trentino-Alto Adige), Veneto, Venezia Giulia, Liguria, Emilia, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzi e Molise, Campania, Lucania, Puglie, Calabrie, Sardegna e Sicilia.
Così, tra le tante, alla seconda sottocommissione arrivò anche la proposta d’istituzione della Regione Salento.
Ne fu relatore Codacci Pisanelli (DC), incaricato dalla sottocommissione stessa di riferire anche sulla proposta della Regioni Daunia.
Nella seduta pomeridiana del 16 dicembre 1946 ed in quella antimeridiana del giorno successivo, Codacci Pisanelli illustrò la proposta della regione salentina, non nascondendo di essere uno dei sette deputati della circoscrizione di Lecce, Brindisi e Lecce firmatari dell’istanza. Sebbene ne nominasse poi, oltre sé, solo altri cinque, vale a dire Beniamino De Maria (DC), Vincenzo Cicerone (Blocco Nazionale delle Libertà, d’ispirazione monarchica), Giuseppe Grassi (liberale), Luigi Vallone (liberale), Vito Mario Stampacchia (socialista), le successive votazioni avvenute in Assemblea evidenziarono che il settimo era Antonio Gabrieli (DC).
Erano in pratica quasi tutti deputati votati in prevalenza a Lecce, tranne proprio Stampacchia, eletto grazie ai voti ottenuti per quasi il 95% a Brindisi e Taranto. Degli altri eletti nella stessa circoscrizione salentina ci fu chi mantenne sempre le distanze dalla proposta — Alfonso Motolese (DC), Italo Giulio Caiati (DC), Giuseppe Ayroldi (Blocco Nazionale delle Libertà) e Pasquale Lagravinese (Blocco Nazionale delle Libertà) — senza però manifestare neppure dissenso, e chi, Ruggero Greco (PCI), la osteggiò in maniera palese, ma non dalle primissime battute.
La proposta tuttavia nacque in parte debole, sottoscritta com’era dai soli deputati leccesi, ma, almeno in prima istanza, godeva del vantaggio di non essere osteggiata dai democristiani e di non sollevare troppe critiche tra i comunisti. Il fatto che fosse stata sottoscritta da Codacci Pisanelli la salvaguardava da eventuali attacchi in massa dei democristiani eletti nelle circoscrizioni diverse da quella di Bari; l’appoggio incondizionato di Stampacchia serviva invece a smussare l’opposizione ideologica delle sinistre in genere e dei comunisti in particolare.
Infatti unica tra le proposte presentate ottenne anche l’espressione favorevole del deputato comunista Nobile, che per l’occasione si disallineò dalle posizioni di principio del suo partito, tanto da essere ripreso in maniera evidente da Terracini (PCI) il quale per l’appunto, riguardo tale intervento, osservò «che esso è in contrasto con quanto, in altre occasioni, lo stesso onorevole Nobile ha affermato a proposito delle varie disposizioni contenute nel progetto sulle autonomie locali».
La reprimenda servirà a far rientrare tra i ranghi il deputato Nobile che, al momento della votazione della proposta, a scanso di equivoci, dichiarerà espressamente di volersi astenere. Spontanea o meno che sia stata questa astensione, la proposta non sollevò se non l’opposizione d’un paio di deputati e la contrarietà di principio di Terracini (PCI). Per cui la seconda sottocommissione della Commissione dei 75 approvò l’istituzione della regione Salento, senza che fossero sollevati rilevanti ostacoli.
I primi problemi di fondo emergono però nel corso della stessa seduta, quando s’inizia a discutere la proposta di «costituire la Regione della Romagna e la Regione emiliano-appenninica» che, di fatto, significava spaccare in due l’Emilia e Romagna. Nel dettaglio s’intendeva unire la Lunigiana ed il porto di La Spezia alle province di Modena, Reggio, Parma e Piacenza, costituendo la Regione denominata a volte Emiliana-Lunense, altre Emilia-Appeninica, mentre le province di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì avrebbero costituito la regione Emilia e Romagna.
La proposta della Regione Emiliana-Lunense trovò favorevoli gli esponenti democristiani e fortemente contrari i comunisti che tentarono in tutti i modi di far rinviare la proposta senza però riuscirci. Dopo animata discussione, venne infatti approvata.
Il giorno successivo, 18 dicembre, esaurita la discussione su tutte le nuove proposte, risultano approvate le seguenti regioni: «Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli, Liguria, Emilia-Appenninica, Emilia e Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzi, Molise, Campania, Puglia, Salento, Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta».
A questo punto però si ravvisa necessario che sulle nuove proposte (vale a dire Molise, Salento, Emilia-Appeninica, Emilia e Romagna, Friuli) venga acquisito il parere alle amministrazioni comunali e provinciali interessate.
Sicché la seconda Sottocommissione, nell’approvare l’elenco delle regioni, «esprime il voto che le sue delibere relative alla costituzione di nuove Regioni… vengano comunicate ai Comuni, alle Deputazioni provinciali ed alle Camere di commercio delle Regioni nelle quali le Regioni costituende sono attualmente comprese, perché, volendo, esprimano su tali delibere il loro voto».
Poiché comunque i suddetti pareri non sono vincolanti, la costituzione della Regione salentina non pare debba correre soverchi pericoli, tant’è che uno dei proponenti, il deputato Stampacchia, è così certo della buona riuscita dell’iniziativa da darne comunicazione a tutte le autorità interessate la sera stessa del 18 dicembre.
(1 – continua)
Un, doveroso, ringraziamento all’Autore per la documentata analisi della “Questione Salento” sempre addormentata nella coscienza civica salentina, maggiormente sentita da tutti coloro i quali si considerano quasi stranieri in patria, proprio per la peculiarità dell’antica Regio di appartenenza: Terra d’Otranto, ovvero Sallentum. Come sempre fatto osservare, con meraviglia, da altri popoli italici e non (di recente anche “turisti” cinesi). Circa il principale responsabile della mancata regionalizzazione del Salento, non si fa nessuno peccato nel ricordare il “Protagonista” … Senza continuare ad avere timori reverenziali!