LA RIATTUALIZZAZIONE DEL MITO
NELLA SCRITTURA DI PAOLO VINCENTI
di Patrizia Morciano
Un cofanetto elegante e prezioso si potrebbe definire la raccolta di Paolo Vincenti; la si potrebbe paragonare a uno di quegli scrigni di epoche passate che si ritrovano in qualche vecchia soffitta aristocratica; lo stesso titolo, Al mercato dell’usato, può far pensare a quelle chicche d’antan che solo in certi marchés aux puces si ha la fortuna di rinvenire. E tuttavia, a pensarci bene, queste immagini metaforiche non sono proprio adatte ad esprimerne l’impressione e i caratteri complessivi. Sì, perché non c’è niente che sappia di passato, di antico tout court nella raccolta di Paolo Vincenti, e il titolo si addice solo all’operazione esteriore di recupero di testi già in parte pubblicati, nonché ai liberi adattamenti da autori classici, l’Euripide delle Baccanti in primis, sparsi qua e là.
È invece proprio la rielaborazione della classicità il marchio originale di questi versi che rivitalizzano il patrimonio culturale classico, facendone sentire la forza e il fascino imperituri. A cominciare dalla figura di Dioniso, dominante nella sezione centrale, La bottega del rigattiere, che reca significativamente il sottotitolo Il tempo di Dioniso: il dio dell’ebbrezza vitale, che allontana gli affanni «quando nel convito […] giunga lo stillante splendore del grappolo» (Euripide, primo stasimo delle Baccanti), è celebrato in versi che, pur pieni di citazioni dotte che mostrano la cultura classica dell’autore, fanno cogliere l’assorbimento da parte sua del senso ultimo di miti e riti di quell’antica religiosità mediterranea.
Valga per tutti un solo esempio, Dyonisos, che apre la sezione: «Nato da un fulmine/ figlio del Cielo/ proteggi la mia sera/ e dammi il buon vino/ alto bello e biondo/ fanciullo divino/ addolcisci la sera/ con questo cielo sereno/ scuoti il tuo tirso/ due volte nato/e fai stillare/ il succo prelibato/ hai viaggiato a lungo/ e ora sei arrivato/ coi tuoi riccioli d’oro/ e con la nebride rivestito/ […]». A questo andrebbero aggiunti tutti gli altri testi che hanno per protagonista il dio, nei quali l’autore ha saputo far ricorso ad artifici metrico-ritmici capaci di riprodurre nei suoi versi il ritmo “bacchico” di quelli greci.
Ma l’operazione di Paolo Vincenti è ancora più raffinata di quanto possa apparire ad una prima lettura. A volte, infatti, l’autore fonde insieme più echi classici: è il caso di Notte dionisiaca, in cui nell’invito a non parlare di risse o di guerra nell’ora serale del simposio e al ragazzo a mescere il vino, da bere “tutto d’un fiato come i Traci”, si insinua, in un contesto complessivo di rievocazioni euripidee, il ricordo di versi oraziani (dall’ode I, 18: Quis post vina gravem militiam aut pauperiem crepat?/ Quis non te potius, Bacche pater, teque, decens Venus?/, all’ode II, 7: Non ego sanius bacchabor Edonis, fino all’ode II, 19, che celebra l’epifania del dio e l’inevitabile canto, da parte del poeta, di Thyadas/ vinique fontem lactis et uberes/ […] rivos, ovvero quelle Menadi e fonti di vino e ruscelli abbondanti di latte che sono le immagini anche della poesia di Paolo Vincenti).
E non ci sono solo Euripide e Orazio: c’è il “meglio” della tradizione letteraria greca e romana. Ci sono Alcmane (in Paraclausítyron), Alceo e Archiloco (in Ai vecchi tempi, rivitalizzazione dei Carmina Burana medievali, anche grazie a questi innesti). E c’è il Catullo del carme 5 (Vivamus, mea Lesbia, atque amemus), quasi per caso individuabile verso la fine nella buriana (tanto per citare una parola cara al “dionisiaco” autore e diverse volte presente nella raccolta) espressiva di E tricche ballacche.
Ci sono persino rielaborazioni personali di motivi e generi greci come quello della “sfraghís”, la firma/sigillo che il poeta poneva all’interno dei suoi testi (si legga, appunto Sfraghís: «[voglio porre un sigillo/ su questa nostra storia/ […]/ per battere il tempo che passa/ fra numeri fortunati e numeri perdenti/ un sigillo, firmato Paolo Vincenti]»).
Anche le cosiddette investiture poetiche di memoria classica ed ellenistica non mancano e, anzi, degli originali conservano il fascino delle ambientazioni naturali che qui, ovviamente, sono quelle salentine: si legga l’ironica e colta Il cielo dei poeti: «Io conosco metafore ardite e metonimie prepotenti,/ che mi battono qui dietro i denti/ “E si può sapere dove le hai trovate, Colturo?”/ Mentre un giorno aravo la mia terra, la zappa batteva su qualcosa di duro;/ io mi sono messo a scavare, ed ho scavato, ho scavato,/ alla fine un tesoretto ho trovato/ Quale gioia di fronte a quelle parole, / bellissime, sfavillanti al sole;/ perdinci, ho pensato, ora il mio capo potrò coronare/ di un lauro salentino, con brillanti parole,/ ed entrare in quel circolo esclusivo dove/ bisogna sciacquarsi la bocca prima di parlare;/ ora finalmente potrò pubblicare/ tutti gli scritti nei miei cassetti a maturare/ […]».
E questo ci fa andare per un attimo allo stile complessivo dei testi che, per quanto scritti in tempi diversi, ci sembra lascino cogliere facilmente la tendenza stilistica predominante in Paolo Vincenti, quella di mescolare alto e basso, volgarismi e aulicismi: valgano come esempio la rima nOTTE: migNOTTE di Canti e ri-canti(orfici) o quel “che cazzo devo stare qui a pensare” di E tricche ballacche, così intrisa, per il resto, di echi catulliani e classici in genere.
Grande protagonista, accanto a Dioniso, è ovviamente il tempo, come l’autore stesso nota nella Premessa. E non poteva essere diversamente per un cultore dei classici greci e latini che sullo scorrere inesorabile del tempo hanno saputo imbastire i loro testi più belli e malinconici. E come in quelli, anche nel Nostro, i motivi simposiali e dionisiaci si intrecciano spesso con quello del tempo, dato che il vino è il «farmaco celeste» che può sedare, sia pure per poco, gli affanni della nostra finitudine. Si potrebbe dire, in più, che il tempo è quasi un’ossessione nella raccolta, come il lettore può giudicare dalla frequenza con cui la parola «tempo» ritorna nei testi o negli stessi titoli e sottotitoli delle sezioni. Nell’ultima, in particolare, il motivo si infittisce e diventa preponderante (si leggano O del tempo ritrovato, Ypó Mnémata (mi ricordo, sì mi ricordo), Quando il tempo…, Memento), ma è molto presente anche nella prima, con testi come Tempo 1 e ½, Tempo ¾ e Questo tempo (non sopporto), atto d’accusa, quest’ultimo, anche contro il tempo affannato dell’homo oeconomicus della moderna civiltà borghese.
L’operazione culturale di Paolo Vincenti in questa raccolta è sicuramente molto più complessa di quanto fin qui si è detto. La filigrana elegante dei suoi testi è ottenuta, per esempio, anche intrecciando i fili della tradizione letteraria moderna e contemporanea (in Ypó Mnémata, per esempio, si sente, come in sottotraccia, l’eco del Montale de La casa dei doganieri, mentre il D’Annunzio de La pioggia nel pineto è chiaramente evocato in Sera). E si avverte anche la volontà di interpretare il fenomeno del tarantismo alla luce della religiosità dionisiaca e mediterranea, secondo le tendenze dell’antropologia più accreditata (si legga Morsi e ri-morsi nell’ultima sezione). Il lettore colto coglierà tutte queste implicazioni intellettuali. Ciò che è importante dire, a nostro avviso, è che tutti questi echi e questi apporti si fondono in poesia nuova, vitale come la linfa antica che li ha generati e allevati.