di Mirko Belfiore
Al cortile interno si accede tramite un androne d’ingresso con volta a botte, disposto a pianta quadrata e completamente scoperto. Quest’ultimo è perimetrato da un porticato irregolare contraddistinto da colonne di ordine dorico-toscano (con echino intagliato a ovuli e frecce) che sorreggono archi a tutto sesto nei lati nord e sud e a sesto ribassato nei lati est e ovest, complessità costruttiva che ribadisce ulteriormente la stratificazione architettonica e gli aggiornamenti intercorsi fra Seicento e Settecento. Ponendoci al centro dell’atrio e alzando lo sguardo è possibile vedere il campanile a vela dell’antica cappella di Santa Maria delle Grazie, della quale recentemente sono stati riscoperti alcuni affreschi.
Quest’ultimi sono stati rinvenuti in un punto di passaggio posto in corrispondenza del lato di levante e riportati alla luce dopo i lavori di scrostamento dei vecchi intonaci presenti sulle pareti e sui soffitti. Anche se lo stato di degrado degli affreschi è notevole, i lavori di ripristino ci hanno riconsegnato un altro di quegli ambienti di cui si era persa memoria.
Le notizie sulla cappella gentilizia sono poche e discontinue, ma per la sua realizzazione si rimanda a un lasso di tempo che può essere indicato fra la prima metà del XVII secolo, al tempo del governo di Michele II, e gli anni Venti del XVIII secolo, quando Michele III fece ampliare l’ambiente; persistono comunque dubbi che rimandano alla possibilità di un’esecuzione ancora più tarda della struttura.
Da una prima analisi si possono intuire i dettagli di ogni singola figura rappresentata, l’eleganza con cui le stesse campeggiano sulle pareti e i raffinati riquadri in cui vanno a inserirsi. Al centro della volta si erge in tutta la sua forza il Cristo Pantocratore, immerso in una mandorla di luce retta da quattro angeli con le ali spiegate; il tutto contraddistinto da un acceso cromatismo che rimanda, forse, a esperienze di matrice veneta dell’autore. La scelta dell’icona religiosa non è estranea al territorio circostante perché figlia di una cultura bizantina, di cui ne è rimasta una forte tradizione in Terra d’Otranto.
Lungo le pareti, posizionati a mezza altezza e diffusi lungo le pareti a coronamento di tutto il perimetro troviamo otto figure, di cui due collocate ai lati del varco d’accesso. Le stesse si inseriscono in scomparti dalle arcate a tutto sesto, evidenziati da quadrature dalle linee schematiche e dalle decorazioni a foglie d’acanto. Ogni personaggio che vi trova posto è avvolto da uno sfondo blu notte o rosso vermiglio, è posto di profilo ed è avvolto da tuniche di diversa fattura.
Ogni figura è riconoscibile oltre che dall’iconografia canonica anche per alcune intestazioni poste sui capi. A destra e a sinistra dell’entrata, come a volerli posizionare ai lati del Cristo, possiamo riconoscere gli apostoli Pietro e Paolo, martiri romani che ci riportano alla radice della fede cristiana. Nelle mani del primo ritroviamo le Chiavi del cielo, simbolo della Chiesa universale e del ruolo di Vicario che lo stesso ebbe agli albori della storia della Chiesa e un libro, simbolo per eccellenza della sapienza. Al secondo, invece, vanno ricondotte la folta barba nera, la spada rivolta verso il basso, simbolo del martirio che lo stesso subì perché non cittadino romano e un altro libro.
Proseguendo sulla parete Nord troviamo San Sebastiano, martirizzato due volte dall’imperatore Diocleziano, davanti a cui si profila San Rocco, rappresentato con abito da pellegrino e con la mano che indica le piaghe della peste. I due Santi sono molto celebrati nella fede cattolica perché spesso venivano invocati proprio contro il Terribile morbo che in varie epoche flagellò la penisola italiana con milioni di morti.
Proseguendo nella lettura e poste sempre in maniera speculare possiamo individuare due figure femminili: Santa Caterina d’Alessandria e Santa Lucia. La prima, in parte, è riconoscibile per i dettagli principeschi come l’elegante vestito e la corona posta sul capo, attributi che ne testimoniano le origini nobili, mentre per la seconda si nota subito la coppa che la stessa regge in mano e dove si raccolgono due occhi. Questo attributo insieme alla lampada e al cero rimandano al nome latino Lux, luce, particolari che per secoli hanno posto la Santa a protezione di coloro che pativano malanni alla vista.
La terza e ultima coppia ci propone due dei più importanti uomini della storia della Chiesa: Sant’Antonio da Padova e San Francesco d’Assisi. I due ebbero modo di conoscersi durante la prima metà del XIII secolo e per questo motivo vengono spesso rappresentati assieme. Il primo, di cui si fatica la lettura iconografica, si intuisce per l’intestazione ancora presente mentre il secondo è facilmente riconoscibile per il saio indossato, le stigmate e la chierica.
In relazione a questo piccolo gioiello bisogna menzionare un’altra interessante testimonianza che ci porta a calcare i pavimenti della chiesa Matrice. Entrando nel luogo di culto e percorrendo la navata meridionale fino all’altezza del transetto si colloca un altare oggi dedicato a Sant’Anna ma che in passato era proprio sistemato nella suddetta cappella. Questo manufatto si caratterizza di marmi policromi, intarsi di varia fattura e stucchi dalle forme sinuose in cui sembrano riunirsi forme rinascimentali quanto baroccheggianti ma che al centro campeggia, per l’appunto, l’emblema della famiglia Imperiale.
Posta in un angolo del cortile troviamo l’antico fonte battesimale “pedobattista” databile al XVI secolo, fatta probabilmente realizzare dall’arciprete Matteo Giovanni del Preite e originariamente situata nell’antica primitiva chiesa Matrice. L’oggetto è posto su uno stelo di dubbia provenienza e denota alcune manomissioni successive alla sua realizzazione. La conca è contraddistinta lungo tutto il perimetro lapideo da un fregio scolpito dove si alternano dieci delfini e motivi floreali di discreta fattura, interrotti al centro da uno stemma bipartito con inserite le parole NE QUERELA.
Dall’ampio cortile prende avvio l’importante scalone monumentale, sul progettista della quale gli studiosi dibattono ancora oggi. Certa è invece la realizzazione, sicuramente attribuibile all’operato del Manieri che in quel periodo lavorava per gli Imperiale nel palazzo di Casalnuovo (Manduria) dove vi è uno scalone d’onore molto simile a questo. Alcuni studiosi non sottovalutano il ruolo dell’architetto napoletano Ferdinando Sanfelice, il quale non fu certamente l’artefice della progettazione della rampa ma ebbe comunque un’influenza non indifferente sul Manieri. Lo studioso Bernardo De Dominici, invece, tramanda con sicurezza il nome dell’artista napoletano, affermazione che può essere supportata da un disegno emerso dal fondo Imperiale dell’Archivio di Stato di Napoli e che presenta un prospetto acquerellato ed eseguito su cartoncino (c. 416).
Il disegno è molto accurato e prevede la costruzione di una prima rampa che si divide in due e prosegue fine a un vano coperto, inserita all’interno di un portico a tre arcate con volta a sesto ribassato e colonne binate. Altri invece, come il Clavica, sostengono con fermezza l’attribuzione al Manieri, ponendo l’accento sull’analisi degli elementi strutturali del progetto. La mancanza di soluzioni ardite e scenografiche, tipiche dell’artista partenopeo, fa propendere verso il maestro leccese, il quale forse avrebbe potuto prendere in esame un’oramai irreperibile modellino in legno dello scalone monumentale inviato da Napoli a Michele III stesso ma che sicuramente ripropose nell’architettura francavillese elementi stilistici riscontrabili in altre sue opere come l’androne del Palazzo Imperiale di Manduria o il portico del Seminario di Brindisi.
Le doppie rampe in cui si divide lo scalone sono coperte da pregevoli volte a stella, a loro volta rette da paraste addossate alle pareti e pilastri che si aprono sul ballatoio. Su quest’ultimo, completamente scoperto, si affacciano i numerosi varchi d’ingresso del primo piano nobile, tutti finemente ornati da alcuni fregi molto simili a quelli cinquecenteschi della facciata principale. Le aperture si distribuiscono lungo tutto il perimetro con un ordine alternato e sono contornate da ghirlande d’alloro e righe di ovuli di radice classica a cui si affiancano ampi frontoni racchiusi fra due mensole, tutti caratterizzati da intrecci a foglie d’acanto tranne che per quello in cui ritroviamo la succitata epigrafe latina di Michele III.
Le grandi finestre rettangolari quanto i piccoli pertugi di forma quadrata posti a mezza altezza e corrispondenti ai piani ammezzati presentano interessanti cornici dai vari ornamenti fitoformi, ampi frontoni decorati con il medesimo ricamo a foglie d’acanto o eleganti rosette. Una menzione particolare la riserviamo a uno di questi bassorilievi, in cui campeggiano due splendidi pavoni posti l’uno davanti all’altro e impegnati a beccare una pigna, gruppetto che rimanda al più famoso Pignone dei Musei Vaticani. A concludere, un po’ isolato ma dalle forme imponenti, troviamo un altro stemma degli Imperiale, racchiuso in un rettangolo dall’elegante cornice e impreziosito da alcune volute.
(continua)
Per la prima parte:
Per la seconda parte:
credo che l’ingresso a piano terra del castello abbia una volta a vela
Devo dire che la cosa è dubbia perché parte con una base a vela per trasformarsi a botte.
È una realizzazione un pò strana.
Confermo il dubbio.
Durante gli studi della mia tesi di laurea, ho studiato il disegno della scalinata, le conclusioni alle quali ero pervenuto sono queste: considerando che la scala era già nella medesima posizione (vedasi pianta del 1643) si trattò di un semplice ridisegno. Tra l’altro, sollevando un lembo di carta in corrispondenza del gradone di invito si rileva una correzione (una diversa forma dello stesso) tutto ciò fa titenere impossibile che il modello in legno di cui parla il De Dominici fosse effettivamente riferito alla scala di Francavilla. Sono invece evidenti linee architettoniche che ritroviamo successivamente nel palazzo Granafei a Sternatia (loggiato nel cortile interno) comunque, per certo Manieri a Manduria ebbe solo funzione di direttore lavori, il progettista non era locale, su questo ho basato gran parte della mia tesi. Mi piacerebbe fare due chiacchiere con lei, quando vuole può contattarmi.
Salve Signor Filotico
è un piacere confrontarmi con lei.
Per quanto riguarda la questione non nego che i dubbi persistano e le notizie come spesso accade, risultano frammentarie.
Il ruolo del nostro Manieri nei vari siti architettonici della famiglia Imperiali, a Francavilla come a Manduria, sono sempre valevoli di riletture vista la complessità del caso e la figura di spicco che lo stesso rivestì all’interno delle commissioni artistiche nei feudi della Terra d’Otranto.
Io sono a sua completa disposizione.
Allora ne parliamo a voce, con piacere!