di Mirko Belfiore
Nel 1739, l’ultimo principe di Francavilla Michele IV Junior apportò le modifiche più tarde, facendo demolire delle botteghe addossate lungo il perimetro Nord e alcune colonne che reggevano un pergolato posizionato dinanzi al portone d’ingresso e commissionando, infine, quell’elegante balaustra che ancora oggi cinge il fossato.
Alla morte di questi nel 1782, il palazzo fu incamerato tra i beni del Regno demanio nonostante che il Principe avesse nominato erede il cugino di terzo grado Vincenzo, marchese di Latiano. Dopo una lunga vertenza con il Regio Fisco, Vincenzo ottenne solo i beni mobili presenti nel palazzo (arredamenti, libreria, mobili, gioielli e le attrezzature del teatro) e il titolo di Principe di Francavilla. L’edificio rimase inutilizzato e abbandonato a sé stesso fino al 1821 quando divenne proprietà del Comune, il quale si occupò di ripristinare gli spazi interni apportando modifiche che in parte privarono la struttura di molti degli elementi originari.
Oggi lo ritroviamo in tutta la sua magnificenza grazie ai recenti restauri che oltre a preservarne le forme di età moderna ne ha ripristinato il valore di massimo emblema della città, assieme alla Chiesa matrice. A tutto ciò si è aggiunta una posizione di primo piano nella nuova politica di valorizzazione turistica che vede lo stesso assumere il ruolo non solo di contenitore culturale (allestimento del MAFF, il Museo archeologico di Francavilla Fontana) ma anche come punto di partenza per la riscoperta della storia della città e del suo centro storico.
Analizzandolo dal punto di vista architettonico, il complesso si sviluppa su tre piani distribuiti in maniera asimmetrica, con una stretta relazione fra le strutture murarie preesistenti e gli elementi ornamentali tipici del periodo Barocco.
Tutta la linea esterna è scandita da due linee marcapiano che si sviluppano lungo i quattro lati della struttura e che sono conclusi in alto da una possente merlatura guelfa e in basso da una muraglia a scarpa. La decorazione a dentelli rinascimentali e quella ad archetti concorrono insieme alle incorniciature aggettanti delle finestre del primo piano a vivacizzare la facies di tutto il prospetto, sfumando il ricordo dell’antica fortezza quattro-cinquecentesca.
Ai quattro angoli dell’edificio si collocano quattro stemmi araldici riproducenti un’aquila con le ali spiegate, sormontati da una corona e sorretti da mascheroni tufacei diversi per ogni spigolo, testimoni della proprietà della famiglia Imperiale.
L’edificio è inserito in un ampio e profondo fossato che da una funzione difensiva si è evoluto in una piccola oasi floreale fatta realizzare fra il XVII e XVIII secolo e che al mutare delle stagioni si impreziosisce di un cromatismo unico.
La residenza nobiliare ha due varchi d’accesso: uno sul lato meridionale posto su via del Municipio e uno secondario sito sul lato settentrionale e prospiciente via Barbaro Forleo. L’ingresso principale si apre su un elegante slargo a forma ovoidale, preceduto da due possenti colonne barocche e che introduce il visitatore al ponte di pietra, sostituto dell’antico ponte levatoio in legno.
Lo splendido portale che adorna il varco d’ingresso è racchiuso fra due colonne con capitelli compositi ed è ornato da un cornicione a tutto sesto fortemente aggettante che accoglie un raffinato encarpo con foglie d’alloro, due rosette e, in chiave di volta, lo stemma degli Imperiale.
Più sobrio ma non per questo meno raffinato è il portale sito sul lato opposto, introdotto sempre da due imponenti colonne barocche e sormontato da una balconata in ferro dal profilo a petto d’oca che secondo Fulgenzio Clavica e Regina Poso, ricalca in parte il disegno di Mauro Manieri per l’accesso del Seminario di Brindisi e per il palazzo Imperiale poi Filotico di Manduria.
La facciata orientale collocata su Corso Umberto I è contraddistinta da una splendida loggia seicentesca in pietra locale e da molti attribuita a Pietro Antonio Pugliese, maestro scalpellino di Nardò, cresciuto nella bottega di Francesco Antonio Zimbalo e autore, fra il 1614 e il 1615, del magnifico altare di San Francesco di Paola collocato nella Basilica di Santa Croce a Lecce. Il manufatto si inserisce in posizione rientrante rispetto alle parti aggettanti ed è composto da quattro arcate, le quali risultano scandite da coppie di semicolonne quadrate con arcate a tutto sesto a cui si aggiungono quattro timpani spezzati di forma triangolare e altrettante finestre.
Nella parte sommitale troviamo una ricca trabeazione recante bassorilievi riproducenti grappoli d’uva e foglie di vite, colture rilevanti per la produzione agricola dell’area, oggi come allora. A questa si unisce un’estesa decorazione con soggetti di natura zooformi e fitoformi che in maniera uniforme si dipana lungo tutta la superficie del loggiato: la foglia di palma sezionata verticalmente e racchiusa da caulicoli, il motivo dei viticci che si avvolgono sinuosi intorno al fusto delle colonne e le rosette che in maniera geometrica si dispongono lungo le arcate. Questi particolari sottolineano l’esperienza del Pugliese per un gusto tutto leccese che non può che risalire agli insegnamenti dello Zimbalo e del Riccardi. Infine, un’elegante balaustra composta da colonnine di gusto classico e pilastrini squadrati – uno dei quali, al centro, accoglie lo stemma degli Imperiale – poggia naturalmente su una fila di mensoloni robusti, di cui ritroviamo corrispondenze con i ballatoi di alcuni palazzi di Oria, Manduria e nella stessa Francavilla (Palazzo Giannuzzi-Carissimo).
Durante i lavori di ripristino sono stati riscoperti una serie di ambienti ormai dimenticati e posti sotto l’attuale piano di calpestio. Tramite un passaggio posto lungo il lato occidentale del fossato si può ancora accedere a quelli che erano gli antichi locali che ospitavano le stalle e le rispettive mangiatoie dei cavalli. Sempre a questo livello ma sul lato opposto un medesimo ingresso introduce ad altri locali, probabile luogo di stoccaggio per le derrate alimentari poi divenuti in tempi recenti carceri mandamentali. Qui si conservano mercanzie di vario genere, una fra tutte il sale proveniente dalle saline presenti a Torre Columena (nei pressi di Avetrana) e di proprietà della famiglia Imperiale.
Per la prima parte: