di Armando Polito
È tempo, per chi ha la fortuna di avere un camino, di fare la provvista di legna da ardere, anche se i capricci meteorologici figli del cambiamento climatico ci costringeranno a breve a tenerlo spento in inverno e, forse, qualche giorno acceso in estate. Questo post non sarebbe nato, se non avessi letto sul suo profilo facebook (https://www.facebook.com/ciccio.danieli/videos/3625181364210008) quello di Francesco Danieli, che ha frequentato qualche lustro fa il ginnasio di Nardò al tempo in cui io vi insegnavo già da alcuni decenni. Non è stato mio allievo, ma ho potuto apprezzarne la vivacità intellettiva, manifestantesi, fra l’altro, già allora con uno spiccato senso dell’autoironia, quando più di una volta ha trascorso parte dell’intervallo nella mia classe. Oggi, perciò, mi è particolarmente gradito integrare la sua lezione estemporanea e en plein air utilizzando, senza il suo permesso due fotogrammi tratti dal suo video (cosa non grave finché il loro utilizzo non è per fare soldi, non necessariamente per ricatto) e con altre voci emerse nei commenti. Chi mi conosce, avrà già capito che da me ascolterà la solita musica, vale a dire leggerà qualche nota etimologica sulle voci dialettali presenti nel titolo. Quando la musica, quella vera, non piace, oggi basta premere il tasto “MUTE” (è inglese, e questa volta, essendo una voce di origine onomatopeica, non scomoderò né l’aggettivo latino mutus/muta/mutum (=muto) né il verbo greco μύω (=mi calmo, mi chiudo, sto in silenzio); quando, poi, non piace quella metaforica, come nel nostro caso, basta un clic …
gliòne/lìune/lèune/lìvene sono tutte varianti (non sto a specificare il territorio, comunque salentino, in cui ognuna di esse è usata) e indicano la legna da ardere in generale (tocca ffazzu la pruista ti li glione=mi tocca fare la provvista della legna). Le tre voci sono il frutto di una commistione non rara tra genere e numero; e mi spiego meglio partendo dall’italiano legna. Esso è dal latino ligna, plurale di lignum (che ha dato vita a legno. Non a caso, infatti, legno è maschile singolare e legna femminile, sempre singolare, ma con valore collettivo. Le voci dialettali, perciò, sono tutte plurali (li gliòne/li lìune/li lèune) e non esiste il singolare (la gliòne/la liune/la lèune) avendo adattato al plurale il ligna latino, cambiandogli la desinenza -a tipica dei nomi della prima declinazione (ma lignum, di cui ligna, come detto prima, è il plurale, di declinazione appartiene alla seconda) in -e.
tàccaru è forma aggettivale dal germanico tak (=ramo); è in uso anche il diminutivo taccarièddhu (nella foto parzialmente animata dalla mano).
asca (àschia a Gallipoli) è dal latino medioevale ascla [la forma gallipolina presenta l’esito fonetico- cl->-chi– più normale, come succede, per esempio, in chiaro che è da claru(m)]. Ascla, a sua volta è, per sincope, dal latino, sempre medioevale, àscula (=frammento; da esso deriva il diminutivo salentino asculeddha), il quale è forma dissimilata di assula, che è (sembra il gioco delle scatole cinesi adottato dalle società per evadere il fisco; questo gioco giova alla singola società ma non a quella nel suo insieme, il nostro, invece, anzi quello della filologia giova, o dovrebbe giovare, a tutti …), e siamo giunti finalmente alla meta (che poi è il principio …)!, diminutivo del latino classico axis (da cui il nostro asse)=pezzo di legno, tavola.
cugnatu è l’ascia, strumento un tempo indispensabile per ricavare le asche (oggi il pezzo di tronco e i rami più grossi vengono scissi meccanicamente). Con questo attrezzo vostro cognato non ha nulla a che fare, anche se ve ne ha fornito uno con il filo rovinato, perché la voce è dall’aggettivo latino cuneatu(m)=a forma di cuneo.
E, come dicevano i latini, de hoc satis o, come ama particolarmente dire un politico (il nome? Si dice il peccato, non il peccatore: posso solo dire che è di sesso femminile) con arcaismo volutamente (?) esibito, detto questo, mi taccio …
Mi sono sempre chiesto da dove venga la parola CAZZA, usata per designare il mestolo forato, non essendo, credo, il femminile di ben altro maschile.
proprio per evitare “ben altro maschile” a Nardò la chiamano “cazzuleddha”. Spetta ad Armando illuminarci per entrambi. Un dubbio però mi viene. Se “cazzafitta” è frammento piatto di intonaco, che derivi da “piatto”? Rimanda anche alla “cazzatora”?
Chiedo scusa per il ritardo, ma ancor più per l’autoreferenzialità …
https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/26/dialetti-salentini-cazzafitta/
Poi ci sono li aschiuleddhe, se non sbaglio.
E appena passato il giorno di San Martino quando segnava l’inizio pe ddumarelu lu fucalire cu scarfa la casa
e li cristiani, ancora oggi si utlizzano Cippuni, taccari, àsche e leune quest’ltima resta la materia prima per costruire la Fòcara un manufatto unico al mondo per le sue caratteristiche costruttive. Nei tempi al “comitato” spettava anche il difficile compito della raccolta del necessario per la costruzione della focara, che spesso iniziava il 17 dicembre, esattamente un mese prima della attesissima festa. Si vedeva perciò, tra i vicoli del paese, noi bambini chiedevamo la questua per la riuscita della festa, un carretto era condotto da un ragazzo che giornalmente raccoglieva legna secca, rami d’alberi, tralci di vite legati in fasci, ma anche mobili rovinati o rotti (tuttu è buenu pè la focara) che piccoli contadini, grossi proprietari terrieri o semplici cittadini offrivano in devozione al Santo.
Anche a Novoli le asche usavamo chiamarle le àsche con la pronuncia della H.
un saluto da Torino Ersilo Teifreto classe 47
Caro Armando (i tuoi interessanti ed arguti post mi accompagnano ormai da diversi anni che, come già accaduto, mi permetto una forma confidenziale, nella speranza che non incontri la tua disapprovazione), ancora una volta sei riuscito a proiettarmi, in modo fulmineo, nel mio Salento e, questa volta nella mia adolescenza di studente liceale pendolare tra Salice e Lecce a bordo delle littorine del Sud-Est (quasi un’allusione a …dittature dell’estremo oriente). All’epoca, e per qualche anno, abbiamo spesso sorriso tra amici nel ricordare l’espressione di una nostra compagna di viaggio che, nel ritorno alla sua San Pancrazio, mentre il cielo prometteva piogge imminenti, un giorno esclamò sospirando: “Speramu ca arrivamu prestu a casa ca aggia trasere li lioni”. La sana voglia di ridere di quell’età, spesso anche per niente, e ancora con poca autorità sull’immancabile scarcasmo, scatenò il commento: “Perché, addu abbiti, allu Circu Togni?!” A Salice, quelle che facemmo risultare come feroci “leoni!”, le chiamavamo appena un po’ diversamente: “leune” o forse, più comunemente, “sarmente”, ma ovviamente senza alcuna consapevolezza etimologica.
Grazie ancora per il prezioso, continuo lavoro che mi aiuta a tenere avvinghiata al Salento la mia identità. “Comu le sarmente erdi”. Un abbraccio dalla rossa Firenze. No, no, la politica non c’entra. (Se rimaniamo in superficie). Alla prossima!
L’aneddoto è simpaticissimo, il complimento iniziale solo parzialmente meritato. Ti ringrazio, comunque, dell’uno e dell’altro.