Brindisi salvata da Fulvia, l’antimodello romano
di Nazareno Valente
Per buona sorte dei nostri concittadini, Marco Antonio si accontentava, per il momento, di utilizzare le macchine d’assalto per qualche schermaglia dimostrativa. Desiderava incutere timore e guadagnare alla sua causa i veterani che militavano nelle fila di Ottaviano, sfruttando il credito acquisito a Filippi quando li aveva guidati contro i cesaricidi. E mancò poco che ci riuscisse. Fu solo il potere suggestivo del nome di Cesare che convinse i legionari a non disertare: per quanto propendessero per Antonio non se la sentivano di tradire il figlio adottivo del loro antico generale.
Qualche defezione ci fu ma non tale da sovvertire la situazione delle forze in campo, che più passava il tempo e più poneva Antonio in condizioni di svantaggio, stretto com’era tra i Brindisini assediati ed i contrattaccanti. Aleggiava però in entrambi gli schieramenti l’intenzione di conciliare i propri capi. E, una sera, alcuni legionari di Antonio, avvicinatisi al vallo presidiato da Ottaviano, si misero a rimproverare i commilitoni d’un tempo di combattere chi aveva salvato loro la vita a Filippi. In risposta si sentirono accusare d’essere venuti a Brindisi per portare la guerra, dopo essersi conciliati con il nemico comune. Oltre a scambiarsi reciproche critiche, i due schieramenti manifestarono il comune proposito di non voler combattere tentando, se possibile, di trovare un accordo. Analoga avversione al conflitto manifestavano la popolazione brindisina ed i centurioni, i quali pensarono bene di coinvolgere un personaggio di prestigio al di sopra delle parti.
Amico al tempo stesso di Ottaviano e di Antonio, Lucio Cocceio Nerva, come già in passato, fu disponibile anche questa volta a fare da paciere. Incontrò separatamente i due rivali; riportò le loro lamentele e le loro reciproche scuse, cercando in tutti i modi di attenuare i motivi del dissidio. Per quanto riguardava la questione spinosa della chiusura delle porte della nostra città, ad Antonio che si lagnava per essere stato escluso «come un nemico», Ottaviano fece rispondere che lui non c’entrava nulla: erano stati i Brindisini a prendere la decisione insieme al tribuno che era presso di loro.
Non è però facile crederci, se si ricorda che Ottaviano pianificava ogni cosa e non amava improvvisare, neppure nelle occasioni più banali. «Persino con la moglie Livia» — ci informa il biografo Sveronio — «non s’intratteneva mai su argomenti importanti senza aver preso prima degli appunti che scorreva, mentre parlava, per non dire né più, né meno, del necessario» Per cui sembra difficile che in una circostanza così delicata, che poteva scatenare una guerra civile, si sia invece rimesso alla volontà dei Brindisini e di un suo tribuno, senza nemmeno interferire. Per cui, di là dalle sue parole di circostanza, il mistero su come e perché si decise di tenere Antonio fuori da Brindisi resta del tutto insoluto.
Anche se le attività belliche erano state sospese, le consultazioni di Cocceio andavano per le lunghe ed i Brindisini rimanevano sui carboni ardenti con tutte quelle macchine d’assedio pronte ad entrare in azione. Il problema era che i due triunviri, timorosi di perdere la faccia di fronte all’opinione pubblica, continuavano a scaricare sull’altro ogni responsabilità dichiarandosi del tutto esenti da colpe. La condizione di stallo si sarebbe protratta per chissà quanto tempo se la fortuna, il caso oppure una mano misteriosa non avesse dato una spinta al destino offrendo un’imprevista soluzione al problema.
A Sicione era infatti morta Fulvia, la moglie di Marco Antonio, che, come abbiamo già visto, sfruttando i malumori dei proprietari terrieri espropriati e dei senatori di parte repubblicana, aveva battagliato con Ottaviano uscendone però sconfitta a Perugia. Per spiegarci come mai la morte d’una donna abbia potuto compiere un miracolo del genere, è necessario soffermarsi su alcuni aspetti specifici della società romana.
Era la primavera del 40 a.C. quando Fulvia, scortata da tremila cavalieri, giungeva fuggiasca a Brindisi, dove nella rada l’attendevano cinque navi da guerra per condurla ad Atene. Fu forse questa l’unica occasione in cui i nostri concittadini la poterono ammirare: era una donna molto chiacchierata per i suoi comportamenti «extra mores», ovvero contrari ai costumi tradizionali, che l’avevano resa tristemente famosa. Velleio Patercolo, un contemporaneo di Ottaviano, scrisse di lei che «di donna non aveva altro che il corpo», rimarcando nella maniera più brutale i lati riprovevoli che rendevano Fulvia una figura inquietante, un esempio in negativo. La società romana assegnava infatti ad una donna un ruolo ben preciso, che già l’onomastica per certi aspetti chiariva. A differenza degli uomini di riguardo, il cui nome si articolava su tre elementi, alle matrone romane ne veniva attribuito uno solo: la forma al femminile del gentilizio paterno, e quindi del «nomen» (il nostro cognome) del padre. Come conseguenza il nome di una nobildonna rimandava in maniera indubbia alla famiglia di appartenenza; sicché una qualsiasi Fulvia non poteva che essere figlia di un Fulvio, così come chi si chiamava Ottavia aveva un padre il cui «nomen» era per forza Ottavio.
Certo erano previste delle varianti che però non alteravano lo schema. A volte si usavano dei vezzeggiativi — la figlia di Cicerone, che di cognome faceva Tullio, era stata ad esempio chiamata Tulliola, invece che Tullia — oppure, in presenza di più figlie femmine, si ricorreva a degli aggettivi per distinguerle: «maior e minor» (maggiore e minore) e, nelle rare famiglie numerose, addirittura ai numeri ordinali. Quindi le matrone erano di fatto individuate con la «gens» di appartenenza e non avevano un prenome che le identificasse all’interno del gruppo familiare, quasi non dovessero avere una propria identità personale.
Tanto per capire che area tirava, basterà menzionare che era opinione ricorrente che una nobildonna non dovesse mai far parlare di sé. Il «pudor» (la riservatezza) doveva infatti conformare la sua condotta, soprattutto riguardo a questioni di esclusiva competenza del sesso forte, quali ad esempio le attività militari e politiche. Il canovaccio prevedeva poi che una matrona, degna di tal nome, dovesse essere «pulchra» (dotata di alte virtù interiori); «pia» (rispettosa dei familiari); «univira» (coniugata, possibilmente, una volta sola); «casta» (parca nei rapporti sessuali, limitati al solo ambito matrimoniale); «fecunda» (in grado di concepire); «pudica» (moderata); «tacita» (silenziosa) e «domiseda» (casalinga). In pratica più di una santa. Per fortuna tutto ciò valeva solo sulla carta; nella realtà, già nella tarda repubblica, le matrone s’erano ritagliate legittimamente un proprio spazio che andava ben oltre i teorici canoni indicati. Si poteva pertanto scantonare, però bisognava farlo con garbo, salvando le apparenze, se non si voleva incorrere nella generale riprovazione. C’erano così non poche aristocratiche che, senza ricoprire cariche pubbliche, si rendevano protagoniste d’un ruolo politico importante, ma lo facevano dietro le quinte, in sordina e senza darlo troppo a vedere.
Fulvia invece non voleva restare nell’ombra: faceva politica alla luce del sole e desiderava essere coinvolta anche nelle questioni militari. E tutto ciò destava scandalo e indignazione anche negli autori meno prevenuti. «Donna che con la spada al fianco si mostrava virile nella guerra», sentenzia sconvolto Floro, che pure non era un bacchettone. Morale della favola, le medesime doti, magnificate in un uomo, diventavano esecrabili se possedute da una donna.
Comprensibile pertanto la sorpresa dei Brindisini quando Fulvia sopraggiunse alla testa della cavalleria: in un porto se ne vedevano di tutti i colori ma mai, a loro memoria, una donna che comandava a bacchetta anche gli ufficiali di più alto grado. La osservarono partire e nessuno si sarebbe immaginato che la sua tragica fine avrebbe voluto dire la fortuna per Brindisi.
Cocceio, che abbiamo lasciato occupato in consultazioni separate con Ottaviano ed Antonio, aveva infatti sfruttato la fortuita ed improvvisa morte di Fulvia per addebitare a lei tutte le cause del conflitto. E questo faceva buon gioco ad entrambi i triunviri: Antonio veniva prosciolto da ogni accusa a spese della moglie; Ottaviano era giustificato a fare con lui una nuova alleanza. Con questo escamotage, Cocceio riuscì così a convincere i due rivali a interrompere le ostilità ed a comporre la faccenda per via diplomatica.
Mentre i nostri concittadini vedevano con gioia smontati gli apparati bellici posti di fronte alle mura, Cocceio convocava Asinio Pollione e Mecenate, rispettivamente rappresentanti di Antonio ed Ottaviano, per trattare con essi gli accordi di pace.
A Brindisi doveva pertanto decidersi il futuro assetto del mondo.
(4 – Continua)
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