Una violenta ed insolita decimazione
di Nazareno Valente
La volta scorsa ci siamo lasciati sottolineando la fretta del futuro Augusto che, anticipando i tempi e l’iter giuridico previsto, assunse subito il nome di Cesare, suo padre adottivo, senza attendere l’approvazione dei comizi curiati dove avrebbe dovuto tenere un discorso solenne («contio»). Una simile premura aveva chiari intendimenti politici — precisava sin da subito che era lui l’erede politico di Cesare, e non Antonio — ma pure motivazioni di carattere sociale.
La società romana era sì pragmatica, come i più raccontano, ma al tempo stesso sensibile ai pedigree, ed il nome, per l’appunto, raccontava della posizione sociale posseduta da ciascuno. E, proprio in quel secolo denso di sconvolgimenti e di aspre lotte, s’era consolidata la possibilità di derivare il ceto e la classe sociale dal meccanismo di composizione del nome, ormai basato sulla classica formula dei «tria nomina» (tre nomi). Di per sé, già l’avere tre nomi era indicativo dei quarti di nobiltà goduti, perché, di solito, i comuni mortali non ne potevano esibire più di due e le signore dovevano addirittura farne bastare uno. Per chiarire tali aspetti, è indispensabile dare un minimo d’informazione sulle principali regole strutturali dell’onomastica romana. Esse prevedevano che il nome fosse composto da un «praenomen», un «nomen» ed un eventuale «cognomen». Il «praenomen» (letteralmente, ciò che è prima del nome) aveva la stessa funzione del nostro nome di battesimo e, quindi, caratterizzava un individuo all’interno d’una famiglia, senza implicazioni di altro genere. Il «nomen» era invece il centro del sistema onomastico latino in quanto indicava il «nomen gentilicium» (nome gentilizio) e precisava l’appartenenza di un individuo ad una ben precisa «gens» (la gente ovvero la famiglia d’origine). Comparabile al nostro cognome, esso dava però in aggiunta specifiche indicazioni sul gruppo familiare di provenienza. Dal momento che i nomi di battesimo erano all’incirca una trentina ed i gentilizi in numero comunque contenuto, per evitare i troppi casi di omonimia, si ricorse a identificare gli individui di riguardo con un soprannome, cioè il «cognomen» (letteralmente, ciò che accompagna il nome) che, a lungo andare, diventò ereditario servendo così a distinguere i diversi rami d’una stessa gente d’origine. L’aspetto curioso è che la maggior parte dei «cognomina» metteva in evidenza un difetto e non una virtù, come per altro si usa tuttora con le persone d’un certo peso politico: si pensi a chi è stato soprannominato “mortadella” oppure “il bibitaro” per comprendere il perché di questo vezzo peggiorativo.
Passando, per semplificare, a qualche esempio pratico, Caio Giulio Cesare identificava un appartenente all’illustre gente Giulia, ramo dei Cesari; Cesare che, per la cronaca, voleva dire “peloso”. Oppure, Lucio Valerio Flacco: celeberrima gente Valeria, ramo dei Flacci, caratterizzato quindi dall’avere “le orecchie penzoloni”.
Il futuro Augusto, prima dell’adozione, si chiamava Gaio Ottavio, ed a parte che la famiglia Ottavia non era patrizia ma di censo equestre, non aveva un «cognomen» neppure consolidato — tant’è che c’era chi diceva fosse Turino e chi Cepias — chiaro indice che faceva solo da poco parte dell’élite romana. Sicché aveva anche motivazioni sociali ad assumere quanto prima i tre nomi del padre adottivo, e farsi pertanto chiamare Gaio Giulio Cesare. Ad essere precisi, in questi casi, per ricordare la famiglia d’origine, l’adottato aggiungeva un «agnomen» (letteralmente, ciò che si unisce ad un nome) costituito dalla forma aggettivale in “-anus” del gentilizio posseduto. Per cui avrebbe dovuto a rigore chiamarsi Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Tuttavia, per accentuare il distacco dalle proprie origini, il nostro Gaio Ottavio non inserì mai tale quarto elemento. Malgrado ciò, per gli avversari — che, fino al completamento dell’iter legale, avevano continuato a chiamarlo Ottavio — divenne, esaurite le formalità di rito, ugualmente Ottaviano, tanto per precisare e rendere note le sue origini equestri. E, ironia della sorte, malgrado fosse lontano dai suoi desideri, fu chiamato Ottaviano anche dagli storici, sebbene solo per consentire al lettore di non confonderlo con il padre adottivo.
È quindi a Brindisi che l’erede assunse il nome di Gaio Giulio Cesare, senza attendere che fosse ratificata la legittimità dell’adozione. E lo fece in un contesto militare, acclamato dai Brindisini e dalle truppe lì stanziate. Fu quindi nella nostra città che il futuro Augusto iniziò ad usufruire dell’impatto suggestivo del nome acquisito, sfruttato poi per coagulare su di sé il consenso dei tanti sostenitori cesariani. Tutto ciò non servì a scalfire l’opinione dei suoi avversari, i quali continuarono a ritenerlo politicamente inoffensivo, data la giovane età. Capirono però di lì a poco che stavano commettendo un grosso errore di valutazione, come un episodio, ancora una volta capitato nella nostra città, rese loro evidente.
Pochi mesi dopo le idi di marzo, agli inizi di ottobre del 44 a.C., Antonio raggiungeva Brindisi. Ha l’incarico di prendere il comando delle quattro legioni dell’esercito stanziato in Macedonia che, per l’annullamento della spedizione partica, erano state fatte rientrare nella nostra città, e di condurle in Cisalpina. Ha brigato non poco per ottenerne la guida, fiducioso che il loro apporto possa favorirlo nella contesa per la successione politica a Cesare. Ma le attese vanno subito deluse. C’è un clima di velata contestazione che serpeggia tra le fila dei legionari, mentre il console prende la parola per salutarli. Il motivo è presto detto: sono tutti veterani fedeli a Cesare ed imputano ad Antonio di non averne vendicato l’uccisione, scendendo in più a patti con i congiurati. In realtà l’accusa non è del tutto giustificata, perché Antonio non era nelle condizioni ideali per poter intraprendere un’azione di forza contro i cesaricidi, inizialmente sostenuti sia dal Senato, sia da gran parte della popolazione.
L’insoddisfazione della truppa, pur in parte spontanea, è però per lo più causata dalle trame di Cesare Ottaviano che, qualche giorni prima, aveva inviato a Brindisi suoi emissari proprio allo scopo di sobillare i legionari offrendo loro pure del denaro. L’opera di corruzione conta innanzitutto sull’appoggio dei centurioni che, avendo in passato soggiornato ad Apollonia, hanno avuto modo di familiarizzare con Ottaviano e che, in aggiunta, grazie al grado e all’esperienza posseduti, godono d’un buon ascendente sul resto della milizia.
In un primo momento, Antonio cerca di placare la contestazione con le buone, garantendo a ciascuno un soldo di cento denari; ma il donativo, invece di calmare i soldati, ne aumenta ancor più il risentimento, perché si vocifera che Ottaviano abbia promesso un compenso cinque volte superiore. Poi, riconosciute le tracce della corruzione ottavianea, reagisce con sdegno: accusa i legionari di irriconoscenza e, soprattutto, di non aver smascherato gli uomini che, per conto d’un «giovanetto precipitoso» (così definisce Ottaviano), avevano tentato di corromperli. Il dissenso s’inasprisce e, a detta dello storico Appiano, i soldati «alle sue espressioni irose rispondono intensificando le grida e abbandonandolo». A questo punto, per ricondurre la truppa all’obbedienza, al console non restano che le maniere forti.
Negli eserciti romani si teneva memoria del comportamento di ciascuno; per questo Antonio chiede ai tribuni, suoi luogotenenti, d’indicare i più turbolenti e, tra questi, secondo la regola militare della decimazione, ne trae a sorte uno su dieci per mandarli a morte. In genere però la decimazione interessava i soldati semplici; nella circostanza, invece, coinvolge in modo rilevante anche i centurioni, molto considerati dall’opinione pubblica. Ottaviano può così sfruttare l’episodio per incentivare la diserzione che infatti interessò due delle quattro legioni macedoniche che, in maniera del tutto illegale, decisero di passare in blocco ai suoi ordini.
La durezza riservata ai centurioni fu pure utilizzata da Cicerone che, nella sua celebre III Filippica, accusò Antonio d’essere quell’uomo malvagio che a Brindisi aveva fatto massacrare, nella casa che l’ospitava, «il fior dei centurioni, il cui sangue, mentre spiravano ai suoi piedi, era andato a schizzare fin sul volto della moglie». Si trattò quindi d’un evento che, sebbene sconosciuto ai più, destò grande scalpore: a Brindisi era stata compiuta un’azione eversiva in quanto contraria ai principi sanciti dal «mos maiorum», vale a dire dalle consuetudini e dalla tradizione romana.
Meno di nicchia l’episodio che si narrerà la prossima volta quando, sempre nella nostra città, i due contendenti cercarono di trovare un accordo che ponesse fine al loro dissidio.
(2 – continua)
Molto istruttivo !