di Armando Polito
Nell’era del poco tempo riservato alla riflessione, qual è la nostra. probabilmente sono gli avverbi più usati. Troppo dispendioso di tempo ed energie mentali, infatti, risulta alla gente comune articolare una risposta non secca, positiva o negativa ad una domanda, come se tutta la verità o, se preferite, il mistero della vita fosse condensabile in un sì (in salentino sine) o in un no (in salentino none). Solo la politica ha conservato, invece, la vecchia abitudine di tergiversare girando attorno all’ostacolo per non tentare non dico di saltarlo, ma almeno di studiare il gesto tecnico da adottare, mentre chi ha posto la domanda non è in grado di farlo notare per mancanza di preparazione o, peggio ancora, per convenienza, se non preventivo accordo o ordini di scuderia …
E tra le scienze in cui l’opzione sì/no è tutt’altro che scontata, vi è la filologia e la sua branca dell’etimologia. Se immediato e pacifico è l’etimo di sì [dal latino sic (est)=così (è)] e di no (dal latino non (est)=non (è), quello di sine e none richiede qualche approfondimento.
A prima vista sine e none appaiono come forme rafforzate, rispettivamente, di sì e di no e –ne la loro particella deputata a questa funzione. Da dove potrebbe derivare quel –ne? Il Rholfs1 non propone alcun etimo e si limita a definire sine come forma rafforzata che si usa in posizione isolata e none come forma enfatica.
Va detto pure che none appare usato nella lingua italiana a partire dal XIV secolo: fra gli altri, Francesco di Cambio, L’Esopo di Udine e Simone da Cascina, Colloquio spirituale. Per il secolo successivo basti citare Leonardo da Vinci, Codice del volo degli uccelli, Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi. Va detto, però che none non è mai usato assolutamente, cioè da solo nelle risposte, come, invece, avviene, pure per sine, nel salentino.
Per sine e none dell’italiano antico l’opinione dei linguisti è che si tratti di un fenomeno di epitesi, cioè dell’aggiunta di qualche fonema (e e talora ne) alla fine di una parola tronca; in particolare. per ne vengono citati come esempi sine, none e quine.
Io credo che, se per –e di faroe, ameroe, piue, etc. etc. è difficile rivendicare un valore etimologico di un solo fonema, non lo è invece, per sine e none, in cui i fonemi coinvolti sono due.
Escludendo che quel –ne abbia un qualche rapporto col ne?, l’esclamazione interrogativa di carattere enfatico in uso specialmente in Piemonte e Lombardia2, esso potrebbe derivare dal latino nae, che significa certamente e che, a sua volta, è dal greco ναί (leggi nai), con lo stesso significato. Insomma, sine e none sarebbero, rispettivamente, da sic nae e non nae. Col passare del tempo, poi, il nae, all’inizio distinto, si sarebbe fuso con il primo componente e, attraverso il passaggio intermedio si ne/no ne, avrebbe assunto nella pronunzia le caratteristiche del suffisso. Perciò potrebbe non trattarsi di epitesi se quel –ne il valore etimologico che ho avanzato.
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1 Gherard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976.
2 Corrisponde all’italiano nevvero? (abbreviazione di non è vero?) e porebbe essere abbreviazione di non è?.
Buongiorno Prof. Armando nel suo articolo
“sine” e “none” nominando il Piemonte le invio uno scritto Neh.
9. Neh
Una piccola particella, usata alla fine di una frase, che si usa in domande orientate. Possiamo dire che in italiano corrisponde al “vero” alla fine della frase che indica che l’affermazione precedente è data per sicura da chi parla. “Conoscevi già questo intercalare? Allora sei di Torino, neh”.
un saluto da Torino Ersilio Teifreto
Non è un commento, questo mio. Sarei curioso di sapere perché il gatto in leccese viene detto musciu. C’entra per caso il topo (mus in latino)?
La invito cortesemente a seguire questo blog, perché il mio prossimo post riguarderà proprio “musciu”. Non era in programma, ma la sua domanda e la necessità di dare una risposta quanto più possibile articolata me ne hanno dato l’ispirazione. E per questo la ringrazio.