di Clara Rizzi
Nell’estate del 1480 due Capitani si incontrarono ad Otranto. Entrambi furono inviati per difendere la città dagli Ottomani. Uno morì il giorno precedente all’altro.
L’antica sentinella abbagliante si ergeva svigorita sul bordo del mare. Un avamposto possente, privo di merlatura ad ornamento. La pianta quadra.
Sferzate di tramontana ebbra di sale avevano per secoli graffiato la superficie delle solide mura. Solchi scavati dai rigoli della storia disegnavano i contorni delle vecchie pietre.
Stava immobile ad anelare dal mare un Nemico, l’assalitore scellerato che un tempo la insigniva di gloria e di ragion d’essere. Credo sapesse che non sarebbe mai più tornato.
Forse per questo mi parve triste. Più che per le file di formiche indifferenti che scorrazzavano all’ombra del lato nord. Più che per la grigia porta levatoia scardinata e predata dalle catene, accasciata a terra come un soldato morto, rinsecchita da polvere di scoglio.
Si, credo sapesse che era stato per il primo il Nemico ad averla abbandonata. Ma può una Torre desiderare di essere attaccata? Ero immerso in questi assurdi pensieri quando mi resi conto che qualcosa era cambiato: la luce era scomparsa. Era notte, troppo buio per tornare sui mie passi. Gli anfratti che bucavano gli scogli mi avrebbero spezzato una caviglia, o addirittura una gamba. Mentre osservavo uno di quei pertugi olezzanti di alghe in decomposizione che sputava i suoi cadaveri, mi accorsi di un bagliore di torcia all’interno delle mura.
Il timore e la curiosità si contesero per un istante la decisione di darsela a gambe finché tra i litiganti vinse l’incoscienza. Mi arrampicai all’interno dalla porta levatoia senza porta. Una scala in legno nero scendeva da una botola al piano inferiore. Scesi i gradini senza vederli.
Al di sotto, la luce di una seconda torcia ballava con la sommità della volta a botte. Ticchettii di gocce d’acqua a intervalli lenti, regolari giungevano da uno degli angoli semibui. Mi sembrò che contassero il tempo, come l’asta di un pendolo eterno cui l’orologiaio aveva dimenticato di collegare l’orologio. Le gocce penzolavano a lungo da una fonte infilzata nel muro e si lasciavano cadere in una pietra cava.
All’interno delle pareti vi era una cisterna di preziosa pioggia, pensai.
Giunse dal di fuori uno scalpicciare di zoccoli d’animale mischiato a quegli sbuffi che emanano le narici quando grondano di fatica e fiato breve.
Trattenni il respiro. Gli occhi spalancati verso la scala che scendeva dalla porta levatoia senza porta.
Un cavaliere bardato di corazza e stendardi dipinti a mano scese la scala e si piantò di fronte a me.
Appoggiò la pesante spada alla parete e si tolse l’elmo. La fiamma della torcia balenò negli occhi scuri.
“Chi sei?” mi ordinò. Pensai che il suo volto doveva essere stato bello, un tempo.
Lineamenti proporzionati si intuivano sotto la barba incolta, bruna sulla pelle abbronzata. La statura non gigantesca ne esaltava le nobili movenze. Odorava di giornate a cavallo, di fumo e di sangue.
Pensai che non doveva contare più di 36 o 37 anni.
“Mi sono perso” risposi stupito da quel travestimento. Ripresomi chiesi “perché indossi quell’armatura e porti quelle effigi?”
“Sono le effigi del Casato di Pulsano”
La sorpresa divenne spavento.
“Il Casato di Pulsano non esiste più da secoli…Signore” incespicai nelle parole, troppo tardi per fermarle
“Sono stato inviato a combattere contro gli Ottomani. Io e il nobile Francesco della casata Zurlo, combatteremo fianco a fianco”
“Signore, in che anno siamo?” la voce tremolava
“E’ l’estate dell’Anno Domini 1480. Ignobili misfatti stanno per essere compiuti”
Balbettai qualcosa che non riuscii io stesso a comprendere. Dunque la Torre mi aveva trascinato in un altro tempo? Sarebbe bastato ripercorrere a ritroso quei gradini uno più sgangherato dell’altro per ritornare a casa?
Il cavaliere mi sembrò ancora più mesto. Si sedette su una pietra.
“Sono Giovanni Antonio Delli Falconi, Signore di Pulsano. Ogni notte ripercorro la via verso Otranto con i miei 400 fanti. Getteremo le chiavi della città a mare pur di non arrenderci all’infamia. Ci nutriremo di cani e topi pur di resistere ai barbari invasori”. Poi risvegliatosi come da una trance, con l’aria sfinita di chi non può opporsi al suo destino impugnò la spada, risalì la scala e si precipitò all’esterno dove la porta che un tempo era levatoia stava accasciata a terra, come un soldato morto.
Lo seguii fin sulla soglia. Montò sul cavallo che portava le sue stesse effigi, spronò la bestia con piglio fermo. Il cavallo nitrì e si impennò. Galopparono nel chiaroscuro dei raggi della luna finché scomparvero nel buio.
Il mattino seguente pensai di aver sognato.
Il 12 Agosto 1480 Giovanni Antonio Delli Falconi, Capitano, raggiunse Francesco Zurlo, Capitano, ucciso il giorno precedente.
Ogni notte, affacciata verso il mare, una Torre triste per la perduta gloria, dona l’ ultimo riparo ad un nobile Cavaliere. Entrambi attendono il Nemico, ognuno senza più ragione, in un tempo senza fine.
Bangui – Repubblica Centrafricana
Buongiorno,
Bel racconto…storico. Si scriva anche che La Serenissima ci tradi! Non solo a Venezia erano invisi gli Aragonesi …ma la quarta moglie di Mohammed II , Sofia, era Veneziana. Per quanto sopra Venezia vettovagliò la flottiglia di Ahmed Pasha al largo della Valona…prima Dell’attacco. Grazie.
A.R.
Emozionante ….. trasporta il lettore nell’avventura ….. brava Clara
Bellissima storia Clara. Grazie.
Torre inserraglio mi ha fatto un incantesimo :-) grazie a voi