di Salvatore Coppola
La verità giudiziaria
Il 19 maggio 1962 si concluse dinanzi al Tribunale di Lecce la prima fase di un lungo e tormentato iter giudiziario che si sarebbe concluso (tra appelli, ricorsi, sentenze di rinvio e nuovi ricorsi) nel maggio del 1969. Sul banco degli imputati finirono Berardino Cecchini (vice brigadiere dei carabinieri addetto, insieme con l’appuntato Paolo Logoluso, alla sorveglianza delle operazioni di disinfestazione e alla «prevenzione di incidenti»), Oronzo Zaccaria Pranzo (amministratore della ditta Villani Costantino & C. nonché titolare della licenza per l’utilizzo di solfuro di carbonio), Donato Colopi (chimico, direttore tecnico responsabile dell’impiego del solfuro), Raffaele Martina (tecnico patentato preposto alle operazioni di disinfestazione) e il dr. Vincenzo Tommasi (ufficiale sanitario). I primi quattro dovevano rispondere dei reati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime (determinati da «negligenze, imprudenza, imperizia e inosservanza di leggi, ordini e discipline») oltre che di una serie di contravvenzioni per la mancata osservanza di norme e regolamenti in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e alla violazione di una serie di prescrizione in materia di impiego di gas tossici. Il dr. Tommasi doveva rispondere del reato di falso ideologico per avere «attestato falsamente in un certificato rilasciato il 21/5/1960 che i locali della ditta Villani Costantino e C., siti in Calimera alla via Martano 11, erano separati ed allestiti con tutte le cautele previste dall’art. 45 e segg. del Regolamento Speciale del 9/1/1927 sui gas tossici»[1].
La tragedia si consumò in pochi attimi alle 7.40 di un giorno festivo per Calimera (S. Antonio). Le operaie erano intente a «travasare il solfuro di carbonio da un bidone posto su di un cavalletto in recipienti piccoli, così da potere gli stessi, riempiti del liquido, essere avviati (col sistema del passamano a catena) nell’interno degli ambienti e posti un po’ dovunque, sulle ballette di tabacco ivi ammassate», quando un cerino incautamente acceso dal vice brigadiere Cecchini per dare fuoco alla sigaretta che teneva in bocca provocò lo scoppio improvviso del liquido, cui seguirono l’incendio e l’emissione di vapori tossici. Le operaie più vicine furono avvolte dalle fiamme, le altre furono soffocate dal gas. Natalina Tommasi, ridotta a una torcia umana, ebbe la forza di gridare all’indirizzo del brigadiere: “Na bruciate, ci cu rraggia; se stia bbona e bbessia lia sparare”. Luigia Bianco, anche lei avvolta dalle fiamme, gridò “u brigadiere è statu”. Il Tribunale così descrive la drammatica scena:
[…] Le fiamme innanzi la porta d’ingresso, essendo la stessa stretta e con una impannata chiusa, crearono una barriera per chi si trovava dentro, ove per giunta, alcuni dei recipienti pieni si rovesciarono, aumentando il fuoco, il gas tossico e il panico. Le persone che erano all’interno restarono in trappola, chiuse nei vani, dalle fiamme che divampavano sul pianerottolo, impossibilitate a saltare dalle finestre sulla strada, in quanto queste erano munite di inferriate fisse, né vi erano altre uscite […][2].
Il Tribunale riconobbe la responsabilità del vice brigadiere Cecchini («con fare disattento ed inconsiderato, come avviene al fumatore che accende la sigaretta senza accorgersene, meccanicamente, mentre era in corso il travaso dell’infiammabilissimo liquido, si mise a fumare. Diede fuoco con un cerino alla sigaretta provocando immediato lo scoppio del solfuro che in gran copia era nei recipienti scoperti»). La sua mancanza di «ogni elementare norma di prudenza» che si materializzò nella «inopinata accensione del cerino» non furono, tuttavia, da Tribunale, Corte d’Appello e Cassazione ritenute sufficiente da sole a provocare la catastrofe se non si fossero determinate tutta una serie di concause di cui furono chiamati, con pari grado di responsabilità, a rispondere gli altri imputati. L’inosservanza, infatti, di una serie di norme poste a tutela dell’incolumità dei lavoratori fu giudicata altrettanto grave quanto il gesto incauto del vice brigadiere, la cui presenza sul posto doveva essere di garanzia della regolarità e sicurezza delle operazioni.
In sede giudiziaria fu acclarato che l’operazione di disinfestazione del tabacco – di per sé pericolosissima – avrebbe dovuto svolgersi in locali lontani dal centro abitato e non in quelli di proprietà Lefons (presi in affitto dal Pranzo per conto della ditta Villani Costantino & C.) che si trovavano vicini al centro abitato, in via Martano 11. Gli stessi erano privi di uscite di sicurezza al primo piano. All’interno non c’erano estintori, né indumenti di protezione dalle fiamme e maschere antigas, di cui avrebbero dovuto essere dotate le operaie. Il luogo dove si effettuava il travaso da un fustino metallico collocato su un cavalletto in piccoli recipienti che dovevano essere trasportati ai piani superiori era un angusto pianerottolo posto in cima ad una scala da cui si accedeva al primo piano attraverso una sola porta d’ingresso di dimensioni non regolamentari (larghezza inferiore a 1 metro e 10 centimetri). Le fiamme sprigionatesi davanti all’unica porta d’ingresso crearono una barriera che intrappolò le povere donne chi vi si trovavano dentro «senza altra possibilità di uscita». Anche le finestre che davano sulla strada erano sigillate dall’interno («sbarrate con rete metallica») e chiuse all’esterno da una «robusta cancellata in ferro». Non c’era alcuna via d’uscita dall’inferno di fuoco che avvolse e spense le giovani esistenze di quelle povere e infelici donne. A parere dei giudici, in mancanza di porte apribili dall’interno non si sarebbe dovuto mettere le operaie di fronte ad un rischio a cui le stesse non erano tenute in base alle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Il direttore tecnico responsabile dell’impiego del solfuro (il chimico Colopi), cui spettava l’obbligo «morale e giuridico» di assistere e dirigere le operazioni di solfurazione, era assente («l’opera che si stava eseguendo e che non si portò a termine stante l’accaduto, avrebbe dovuto compiersi alla presenza del direttore tecnico, Colopi, dal principio alla fine»). Egli aveva lasciato il controllo e la gestione dell’intera operazione al tecnico patentato Martina che si fece coadiuvare dall’operaio Murra. A parere dei giudici, se egli fosse stato presente non avrebbe consentito che le operaie – personale non idoneo e non autorizzato – partecipassero alle operazioni «inerenti alla solfurazione» e non avrebbe permesso che il travaso del liquido fosse eseguito in un luogo inidoneo qual era lo strettissimo ballatoio collocato davanti all’unica porta d’ingresso ai locali, peraltro molto piccola:
[…] Il Colopi avrebbe potuto consentire il lavoro solamente se le porte dei locali avessero potuto permettere la rapida uscita delle persone ed essere agevolmente apribili dall’interno durante il lavoro. Siccome questi presupposti non sussistevano il direttore tecnico non doveva permettere la solfurazione. Non sembra al Tribunale che, non potendosi disporre del congruo numero di uscite, si dovessero porre le operaie di fronte ad un rischio che la legge sugli infortuni vieta debba essere affrontato; nella peggiore delle ipotesi, la solfurazione non doveva farsi in quel giorno ed in quel luogo […]. Non sarebbe stato difficile predisporre, con alcune finestre situate nel retro del fabbricato al primo piano comunicanti con due terrazze, delle uscite di sicurezza[3].
Il Tribunale ritenne che la colpa del solfuratore patentato Raffaele Martina consisté nell’essersi fatto aiutare, nell’operazione di disinfestazione del tabacco, da personale non abilitato (quali erano l’operaio Achille Murra e le undici operaie tabacchine):
[…] Ciò non avrebbe dovuto fare per ragioni di prudenza di facile comprensione, per non esporre quel tipo di personale, per di più quasi tutte donne, ad un rischio mortale. Consisté la colpa nel non avere considerato il Martina (negligenza, imprudenza) che, senza porte di sicurezza, era pericoloso porre al lavoro le persone, stante il pericolo di incendio e di emanazione di vapori mortali. La manovra del travaso del solfuro, dall’imputato organizzata ed eseguita in luogo angusto, fu altra imperdonabile imprudenza e negligenza, dovendo facilmente, il Martina, prospettare a sé stesso l’ipotesi di una combustione del liquido proprio in quel punto, sì che avrebbe chiusa ogni via di scampo a coloro che lavoravano nell’interno […][4].
Quanto all’amministratore Pranzo (titolare della licenza per l’impiego del solfuro), egli – a parere del Tribunale – non avrebbe dovuto consentire che venisse utilizzato per un’operazione così pericolosa personale non abilitato, quali erano le operaie, che egli aveva assunto per il tramite della capo operaia Maria Assunta Pugliese:
[…] La licenza per l’impiego del solfuro era stata rilasciata dal Questore a Pranzo in persona, sicché doveva il titolare della licenza personalmente presenziare alla solfurazione […] a lui incombeva fra gli altri l’obbligo di non impiegare personale non abilitato durante la solfurazione […]. Pranzo diede ordine alla capo operaia Pugliese di assumere le tabacchine per la disinfestazione […]. I lavori di sistemazione dei locali erano stati compiuti il 12 giugno, mentre restava solo da distribuire il liquido velenoso nei singoli vani: da ciò la necessità di chiamare undici tabacchine, che lavorarono col sistema del passamano a catena per far giungere i barattoli pieni di solfuro dal pianerottolo ove avveniva il travaso fin nel più lontano locale […] egli non doveva affidare a personale non abilitato a termini di regolamento lavori strettamente inerenti all’impiego del liquido tossico […] alle tabacchine, invece, fu dato ordine di permanervi, pur non essendo patentate, per tutto il tempo necessario alla distribuzione dei recipienti pieni, nei dodici ambienti […]. Fra gli accorgimenti tecnici, sarebbe bastato munire i locali del magazzino di tante uscite proporzionate al numero delle operaie, facendo sì che le aperture […] avessero trovato sfogo all’aperto, in atrii, terrazzi, cortili contenuti, questi, come accessori scoperti, entro l’ambito cintato e circoscritto del magazzino […][5].
Il cerino acceso da Cecchini – queste le conclusioni del Tribunale – non fu da solo sufficiente a determinare l’evento («la causa sopravvenuta posta in essere non sarebbe stata sufficiente da sé sola a determinare l’evento» senza il concorso di cause «precedenti, immediate, dirette poste in essere dagli altri tre imputati»):
[…] Così avvenne, quanto a Pranzo e Colopi, che predisposero gli ambienti senza possibilità di scampo o di fuga per chi si fosse trovato dentro; che fecero lavorare delle persone non abilitate al rischioso uso del solfuro di carbonio; che non le munirono di maschere antigas, né di indumenti refrattari al fuoco; che non corredarono i locali con meccanismi atti ad estinguere gli incendi […] Martina, dal canto suo […] si rese conto che le tabacchine non erano adatte a quel genere di lavoro, a loro vietato, tanto che la legge ne escludeva l’impiego. Pur vide, infine, che le tabacchine ed il suo aiuto Murra non avevano né maschere, né indumenti protettivi […]. La sola azione del Cecchini non avrebbe sortito l’effetto mortale, sol che il personale fosse stato munito di indumenti protettivi, non attaccabili dal fuoco e di maschere atte alla respirazione, in ambienti infestati da gas venefici; sol che avesse avuto, ognuno dei presenti, via libera per fuggire […] certamente le conseguenze non sarebbero state così disastrose; perché, se non tutti, si sarebbero salvati molti, specie dalla morte, con la fuga, con la respirazione attraverso le maschere antigas, con gli indumenti resistenti al fuoco[6].
Il Tribunale, sulla base del principio giuridico «ogni singola causa è causa dell’evento» inflisse ai quattro imputati la medesima condanna. Per il reato di omicidio colposo plurimo la pena inflitta fu di 6 mesi per ogni operaia morta (totale 36 mesi). Per le lesioni più gravi fu inflitta la pena di 9 mesi (3 mesi per ognuna delle tre persone ferite); per le lesioni meno gravi la pena inflitta fu di 4 mesi (1 mese per ognuna delle quattro persone ferite). In totale la pena complessiva fu determinata in 4 anni e 1 mese, cui si aggiunsero le ammende per l’inosservanza dei regolamenti e il risarcimento a favore delle parti civili calcolato in un milione per ognuna delle operaie morte. Il Tribunale assolse con formula piena (il fatto non costituisce reato) il dr. Tommasi giudicando che egli, nel rilasciare il certificato, aveva ritenuto «in sua scienza e coscienza, essere il magazzino di via Martano 11 in Calimera attrezzato in maniera idonea all’uso dei gas»; egli pertanto non aveva avuto intenzione di «attestare cosa fuori dalla concreta realtà»[7].
La Corte d’Appello, con sentenza del 15/12/1962, riconobbe agli imputati alcune attenuanti generiche e ridusse la pena a due anni di reclusione, applicando nel contempo il beneficio della prescrizione per alcune contravvenzioni inflitte a Pranzo e Colopi. La vicenda giudiziaria si protrasse ben oltre le sentenze di primo, secondo e terzo grado (Cassazione, 25/6/1963). A seguito del rinvio (limitatamente a una parte della sentenza della Corte d’Appello di Lecce) il processo finì davanti alla Corte d’Appello di Bari che si pronunciò il 22/5/1964. Un nuovo ricorso in Cassazione si concluse (5/2/1967) con un altro rinvio del processo alla Corte d’Appello di Bari, che con sentenza del 20/12/1968 accordò agli imputati Colopi e Martina il beneficio della prescrizione in merito al reato di delitto colposo. Un nuovo ricorso in Cassazione e la pronuncia della Suprema Corte (19/5/1969) posero la parola fine alla vicenda.
I nomi delle tabacchine di Calimera rimarranno per sempre scolpiti, oltre che nel cuore dei calimeresi e dei salentini tutti, anche sul monumento ideale al lavoro e al sacrificio di quanti nel Salento sono Caduti per pane e lavoro.
Note
[1] Asle, Tribunale civile e penale, Sentenze penali, sentenza n. 614 del 19/5/1962.
[2] Ivi.
[3] Ivi.
[4] Ivi.
[5] Ivi.
[6] Ivi.
[7] Ivi.
Per la prima parte vedi qui:
Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie, una tragedia annunciata (I parte)