“Na bruciate, ci cu rraggia; se stia bbona e bbessia lia sparare”.
Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie,
una tragedia annunciata
di Salvatore Coppola
La storia delle tabacchine salentine è stata segnata da momenti di grandi lotte e di altrettanto grandi conquiste sociali, ma anche da immani tragedie, le più gravi delle quali sono state, in epoca fascista, la repressione a Tricase della manifestazione del 15 maggio 1935 (quando vennero uccise Maria Nesca, Cosima Panico e Donata Scolozzi), e, negli anni della democrazia, l’incendio che si sviluppò nel magazzino di proprietà di Giuseppe Lefons di Calimera, gestito (per le sole operazioni di disinfestazione del tabacco), dalla ditta Villani Costantino & C.[1].
Il 13 giugno del 1960 un incendio divampò all’interno del locale provocando la morte di cinque operaie, quattro delle quali (Natalina Tommasi di anni 30, Luigia Bianco di anni 34, Luigia Tommasi di anni 22 e Maria Assunta Pugliese di anni 46) perirono a causa delle gravi ustioni patite tra il 13 e il 14 giugno; un’altra (Epifania Cucurachi, di anni 27) morì il 16 luglio a causa dell’intossicazione, e l’ultima (Lucia Di Donfrancesco, di anni 30 al momento della catastrofe) cessò di vivere il 14 gennaio del 1962, dopo un lungo periodo di malattia e di ricoveri in diversi ospedali. Luigia Bianco, Natalina (Lina) Tommasi e Lucia Di Donfrancesco erano nubili. Luigia Tommasi (moglie di Pantaleo Garrisi) lasciava orfani Brizio Antonio di anni 5 e Domenico di anni 1; Maria Assunta Pugliese (moglie di Paolo Greco) lasciava un figlio di anni 20; Epifania Cucurachi (moglie di Pasquale Palano) lasciava orfani Carmelo di anni 7 e Antonio di anni 2. Rimasero ferite le tabacchine Gaetana Tommasa, Cristina Di Mitri, Elvira Castrignanò, Cesaria Lucia Perrone, Paola Lucia Montinaro e gli operai Achille Murra di San Pietro in Lama (aiutante del tecnico Raffaele Martina preposto alle operazioni di disinfestazione del tabacco) e Paolo Greco (marito della Pugliese) che cooperava a dette operazioni. Restarono leggermente feriti anche Paola Lucia Montinaro (madre di Lina Tommasi), Vincenzo Gabrieli e il sindacalista della CGIL, nonché assessore comunale, Brizio Niceta Di Mitri, tra i primi ad accorrere sul luogo del disastro per prestare soccorso.
Nel pomeriggio del 13 giugno, la Prefettura informò il Ministero degli Interni sulla tragedia che si era consumata a Calimera:
Verso ore 7.30 stamane, Comune Calimera, mentre procedevasi, con regolare licenza, at disinfestazione tabacco in foglie fabbrica Villani Costantino, mediante impiego solfuro carbonio, per cause non ancora accertate, sviluppavasi violento incendio causato da combustione gas. Circostanza sette persone riportavano gravissime ustioni et intossicazione, per cui venivano ricoverate presso Ospedale Civile con prognosi riservata. Di esse due versano imminente pericolo vita, mentre condizioni altre permangono gravissime. Successivamente altre cinque persone venivano ricoverate stesso nosocomio per intossicazione, ma loro stato non est preoccupante. Sul posto si sono recati immediatamente Vigili Fuoco per operazioni soccorso et spegnimento incendio. Autorità Giudiziaria, collaborazione Organi Polizia, procede accertamenti per stabilire cause grave sinistro. Ho visitato degenti Ospedale Lecce et disposto assistenza at favore famiglie infortunati […][2].
Il Comune (era sindaco Giovanni Aprile) si accollò le spese per i funerali delle povere vittime[3].
Si trattò di una tragedia annunciata, come risulta dal verbale redatto dall’ingegnere Antonino Fiorica, comandante dei Vigili del Fuoco di Lecce, che denunciò la mancata osservanza delle più elementari norme in materia di sicurezza e di prevenzione degli infortuni sul lavoro, con riferimento soprattutto al DPR n. 547 del 27/4/1955 e al R.D. n. 147 del 9/1/1927; nel verbale inviato al Ministero degli interni e alla Prefettura, si legge, tra l’altro:
[…] Il locale dove si effettuava la disinfestazione è costituito da due grandi vani al primo piano ai quali si accede attraverso un vano di disimpegno che comunica con un’unica scala. Essi vani sono sovrastanti ad abitazioni ed i locali del pianoterreno adiacenti a queste ultime sono anch’essi adibiti ad abitazioni. Ai magazzini del primo piano si accede attraverso una scala a sbalzo in pietra leccese, che smonta ad un pianerottolo antistante al vano di disimpegno. I locali per disposizione dell’Ufficio Compartimentale Tabacchi sono dotati di un solo accesso e privi quindi di altra uscita, che, in caso di sinistro, possa servire come uscita di sicurezza nell’eventualità che venga a trovarsi ostruita la normale via di accesso (art. 13 del decreto DPR 27/4/1955, n. 547). Ciò si è verificato nel caso che si espone. Quella mattina si stava procedendo alla disinfestazione del locale con solfuro di carbonio, il quale venendo adoperato per le specifiche proprietà tossiche, è soggetto alla regolamentazione di cui al R.D. 9/1/1927 n. 147. Il titolare del magazzino, pertanto, in ottemperanza a quanto disposto dal sopracitato R.D. si era rivolto alla ditta Perrone e Colopi al fine di disinfestare sia il locale che il tabacco con solfuro di carbonio, il quale passando allo stato gassoso emette vapori tossici ed infiammabili. Essi vapori mescolandosi all’aria in determinate percentuali possono provocare anche esplosioni […]. Le operazioni relative all’impiego del gas tossico erano state iniziate alle ore sette circa, in assenza del Direttore Tecnico, e senza aver provveduto ad allontanare dai locali il personale non abilitato alla esecuzione delle operazioni relative all’impiego del gas tossico, come disposto dall’art. 46 del sopracitato R.D. Sembra anzi che gli operai si trovavano nell’interno del locale per aiutare il sig. Martina, unico abilitato alle operazioni di impiego del gas tossico, a trasportare e depositare sulle ballette di tabacco i recipienti contenenti solfuro di carbonio. E’ stato rilevato inoltre che nessun cartello con lo scritto “E’ vietato l’ingresso, Pericolo di morte”, […] era stato apposto all’ingresso dei locali. Gli operai non erano stati dotati di apparecchi per la protezione individuale contro l’azione tossica del gas (art. 40 R.D. sopracitato) e nemmeno tali apparecchi si trovavano nel locale, come prescritto dall’art. 369 del decreto del Presidente della Repubblica del 27/4/1955, n. 547. I recipienti in cui era stato trasportato il solfuro di carbonio non portavano i contrassegni relativi all’infiammabilità e alla tossicità del gas. L’incendio del solfuro di carbonio che ha causato le ustioni e le intossicazioni degli operai che si trovavano all’interno del locale si è verificato mentre si procedeva al travaso del liquido infiammabile da un fustino metallico in recipienti di latta. Detta operazione di travaso veniva effettuata sul pianerottolo della scala, antistante all’unico accesso ai locali per cui gli operai che si trovavano nell’interno si sono venuti a trovare con l’unica uscita sbarrata dalle fiamme e tutte le finestre chiuse e sigillate all’interno, con carta convenientemente incollata (per evitare fuoruscita dei vapori del solfuro di carbonio) e sbarrate con rete metallica e robusta cancellata in ferro all’esterno […][4].
La relazione indicava come possibili cause dell’incendio «l’incauto uso di fiamme libere sulla scala e nell’androne di ingresso sito al piano terreno», o le scintille provocate dallo «strofinio dei cerchi metallici del fustino con il pavimento del pianerottolo», o quelle provocate «dall’urto del fusto con i barattoli metallici» oppure le scintille provocate «dall’urto di scarpe chiodate o forzate con il pavimento in cemento»[5].
Lucia Di Donfrancesco, costretta a continui ricoveri negli Ospedali di Lecce, Bari e Napoli a causa dell’intossicazione patita, il 13 gennaio del 1961 indirizzò un accorata appello al prefetto per lamentare le gravissime condizioni di salute ed economiche in cui versavano lei e i propri genitori (Brizio Maria e Maria Addolorata Lefons che erano entrambi anziani e pensionati):
[…] Sua Eccellenza signor Prefetto, anzi tutto mi scuso se mi rendo seccante, avevo saputo che doveva venire la Signoria Vostra a Calimera ed avevo mandato la mamma sul municipio ma invece le hanno detto che per questa domenica non l’è stato possibile, le cerco una preghiera quando verrà a Calimera che vorrei parlarle direttamente, sono sempre la solita martire che venne a trovarmi all’ospedale di Lecce, mi portarono di nuovo a Napoli credendo di migliorare, ma invece ho peggiorato son tornata di nuovo a Calimera che proprio oggi sono trascorsi 7 mesi di pene, è già un mese che sono a casa mia, con la mia vecchia mamma che mi assiste e mio padre pure è vecchio, ci campiamo con la loro vecchiaia, fin adesso ho avuto solo il suo aiuto e pregherò sempre per la sua bontà, non dimenticate che una sua visita è forse la mia salvezza desidererei tanto vederlo un’altra volta giacché speravo una mia guarigione per venire io personalmente a ringraziarlo di tutto, ma non ho più speranza sto peggio di prima, e di nuovo con l’ossigeno, e non so ancora quando finisco di soffrire, sono molto stanca. Le chiedo con tutto il cuore un suo conforto e se non le sarà possibile almeno un suo scritto che da oggi conto i giorni che ho scritto, aiutatemi. Distinti saluti, Lucia Di Donfrancesco, via Martano n. 55 […][6].
Il successivo 17 marzo, Lucia scrisse nuovamente al prefetto:
[…] Sua Eccellenza signor Prefetto. Anzi tutto chiedo scusa se mi rendo seccante, sono Lucia Di Donfrancesco l’operaia che sono stata la più grave di tutte, credo che si ricorda quale sono, che Sua Eccellenza è venuta pure a trovarmi all’ospedale di Lecce, avevo scritto due mesi or sono ma non ho avuta riposta, se fossi in condizioni un po’ migliorate sarei venuta a trovarlo personalmente, ma le condizioni di salute non lo permettono, la prego ancora di non dimenticarmi che ho tanto bisogno ci campiamo con la vecchiaia dei miei vecchi genitori, non so a chi rivolgermi, la prego aiutarmi, non credo che non si ricorda chi sono, l’operaia del magazzino incendiato di Calimera […][7].
Lucia Di Donfrancesco cessò di vivere il 14 gennaio del 1962. Fu la sesta vittima dell’immane tragedia che aveva colpito Calimera il 13 giugno del 1960; non risulta che alle sue accurate lettere il prefetto avesse mai risposto. Qualche giorno dopo la sua morte, egli comunicò al sindaco che aveva disposto a favore dei genitori (74 anni il padre e 68 la madre) l’erogazione di un contributo di lire 50.000 e lo pregò di porgere loro il proprio cordoglio[8].
Note
[1] Sul drammatico episodio di Tricase, S. Coppola, Quegli oscuri martiri del lavoro e della libertà, Giorgiani, Castiglione 2015.
[2] Asle, Prefettura, Gabinetto, II versamento, b. 266, fasc. 3111 (telegramma del prefetto Di Cuonzo).
[3] Ivi, comunicazioni del prefetto e del comandante della Compagnia provinciale dei Carabinieri Aldo Favali; la Prefettura e l’APTI erogarono un contributo alle famiglie delle vittime e a quelle di coloro che erano stati ricoverati.
[4] Ivi, relazione redatta il 20/6/1960.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, lettera del 13/1/1961.
[7] Ivi, lettera del 17/3/1961.
[8] Ivi, lettera del 15/1/1962.