L‘Ultima Cena nel refettorio della Madonna della Favana di Veglie. Affresco e ceramiche: una proposta di datazione
di Riccardo Viganò.
L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia.
Quest’opera è una libera interpretazione del fortunato schema dell’Ultima Cena di Livio Agresti, ripresa successivamente anche dal Tintoretto nel 1574 nella basilica di San Marco e da Rubens nel 1632 . Lo stesso schema fu utilizzato nel 1648 per la realizzazione del frontespizio figurato del Missale romanum, da Cornelius Cort e da G. Merli.
L’opera vegliese è dipinta con una tecnica pittorica mista tra affresco e tempera, realizzata da un pittore tuttora sconosciuto, che secondo recenti studi è stato attribuito a Diego Oronzo Bianco di Casalnuovo (1683-1767).
L’artista fu attivo nella prima metà del ‘700 e produsse opere in Brindisi nella cappella del SS. Sacramento datata 1715, in Manduria nella casa dei francescani e nel refettorio degli scolopi in Francavilla fontana.
L’attribuzione di questo dipinto è forse leggermente azzardata, poiché il fattore cronologico tra l’artista e il decoro delle ceramiche raffigurate, come vedremo, non combacia.
L’autore nel realizzare il suo cartone fu certamente attento alla realtà che lo circondava, cercando di rimanere fedele a modelli materiali correnti in quel periodo e presenti nella vita quotidiana. Egli non ha rappresentato le produzioni ceramiche di Casalnuovo (Manduria), sua patria, ma il materiale in uso nel convento dei francescani di Veglie.
La Mensa è coperta con una tovaglia bianca decorata con un motivo floreale a cinque petali. Su di essa vi sono vetri di buona qualità, dei quali uno a campana con gambo a colonnetta del tipo veneziano detto “façone de Venise”; ambedue sono forniti di relative alzatine smaltate in monocromia bianca utilizzate come sottocoppe. Sia sulla sinistra che a al centro della scena vi sono altre tre alzate, una a gambo corto contenente della ricotta, e due , ad uso di fruttiera, una con gambo colonnetta e con un piede ampio, l’altra ad alto gambo.
In tutta l’apparecchiatura di questa mensa, come in altre rappresentazioni coeve salentine, mancano le posate. Forchette e cucchiai sono assenti, i coltelli hanno manici di legno o di osso con lunghe lame puntute e rivolte tutte con la punta verso l’esterno a sinistra della tavola. Gli “stusciafacce” come i tovaglioli o asciugamani sono piegati in ottavo con frange alle estremità.
Al centro della mensa vi è una coppa in monocromia bianca che contiene la portata principale, cioè l’agnello, e tre saliere a cupola sempre smaltate. Sono anche collocati dei pani di forme diverse, verdure e frutti presenti nel Salento nei tre mesi della stagione primaverile: carciofi, fave novelle nei baccelli verdi con foglie, ma anche fave secche, pere, mele, arance nelle fruttiere e limoni dimezzati al centro della mensa.
In questa rappresentazione vi è una non comune quantità e qualità di stoviglie, del tutto inusuali nelle rappresentazioni pittoriche dell’Ultima Cena, e qui, come in altre rappresentazioni salentine, le ceramiche vengono ritratte dal vero.
Partiamo dalle due anforette a corpo globulare ritratte in primo piano sulla mensa , probabilmente contenti acqua. La prima anforetta è fornita di due anse, o biansata, col collo cilindrico e corpo globulare decorato con racemi e girali vegetali in verde ramina terminanti con foglioline in turchino e bacche rosso ferraccia.
Del tutto simile per forma la seconda anforetta, con anse a volute, che presenta una decorazione a racemi e girali più accurata della precedente. Alternate e affiancate a questi contenitori per l’acqua, vi sono le brocche.
Questi due contenitori sono rappresentati trilobati e mono ansati, rivestiti di smalto bianco e decorati in bicromia azzurro/giallo, colori tipici delle produzioni “compendiarie” della prima metà del ‘600. Centralmente vi sono raffigurati un decoro floreale “alla margherita”. Differentemente dei precedenti esemplari contenenti acqua, questi sono colmi di vino.
Le forme delle ceramiche qui rappresentate e soprattutto i decori “compendiari” erano largamente diffusi nella penisola salentina nella prima metà del ‘600. Tralasciando i centri produttori di ceramica di uso comune, territorialmente vicini a Veglie, come Salice Salentino che ebbe il suo exploit a partire del primo ‘700, l’unico centro produttore di maiolica di alto livello fu Nardò. Questo centro, a partire dal XVII, ebbe con la famiglia Bonsegna, il monopolio commerciale di ceramica smaltata di pregio in tutto il Salento centro meridionale, soppiantata successivamente dalla più imponente Laterza.
Recenti scavi archeologici svolti nel centro storico, datati al primo trentennio del ‘600, hanno restituito scarti di bottega sia in monocromia e policromia, in tutto e per tutto simile agli esemplari riprodotti in questa opera pittorica vegliese. Dunque, grazie alla nuova cronologia fornita da questi scavi di un ambito chiuso, l’attribuzione a Diego Oronzo Bianco (1683-1767) di questa opera pittorica, proprio per i motivi prettamente cronologici che abbiamo esposto, viene meno, dovendosi individuare un altro artista, che ad oggi resta sconosciuto.
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA: LA PRIMA “CENA” DI “CAINO” (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE “ABELE”) E L’INIZIO DELLA “BUONA-CARESTIA”(“EU-CARESTIA”)!
NELL’OSSERVARE “L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie” (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE “è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia” (Riccardo Viganò, cit., vedi sopra), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa “cena”(vedere la figura: “Portata centrale, saliere e frutti”) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico – a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della “COMMEDIA”, della “DIVINA COMMEDIA”, e della sua “MONARCHIA”!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso “sonno dogmatico”, mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, “Ubi maior minor cessat”(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021: https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/24/ubi-maior-minor-cessat/) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1205).
Federico La Sala