di Nazareno Valente
Meno rilevante il ruolo dei due quattuorviri aedilicia potestate che, però, avevano un compito esecutivo di gran lunga più gravoso perché dovevano sovraintendere al buon funzionamento delle strade, degli edifici pubblici, delle cerimonie religiose e degli spettacoli pubblici. Soprattutto questi ultimi rappresentavano forme di svago di cui tutto il mondo romano era oltre misura appassionato. Basterebbe ricordare la famosa frase di Giovenale panem et circenses (pane e giochi da circo) per rendersene conto. Erano di fatto una delle poche forme di svago che, al pari dei Romani, neppure i nostri antichi concittadini avrebbero mai fatto a meno. I magistrati che dovevano allestirli a volte si svenavano per andare incontro ai favori della gente, tant’è che la storia ricorda casi a Roma di celebri personaggi (e Cesare fra questi) che s’erano indebitati sino al collo quando ricoprivano la carica di edile.
Non c’è motivo di credere che a Brindisi fosse diverso perché lo spettacolo era connaturato anche allo spirito religioso del tempo. Ce n’era per tutti i gusti ma quelli che appassionavano di più erano i giochi circensi, soprattutto se cruenti. Anche il cinema moderno ha rappresentato la vita dei gladiatori e i loro combattimenti, a volte sino all’ultimo sangue. Su di loro ne sappiamo già abbastanza, per cui basta ricordare che, fatte le debite proporzioni, c’erano gladiatori osannati e famosi quasi – se non più – di idoli moderni come Messi e Ronaldo. E bastava la loro apparizione nell’arena per scatenare il boato della folla.
Molto meno conosciute – ma non certo meno gradite agli spettatori del tempo – erano gli allestimenti teatrali in cui dei criminali comuni interpretavano le parti di eroi mitici. Queste rappresentazioni avevano infatti la particolarità d’essere realiste sino alle più estreme conseguenze, tant’è che c’erano attori costretti a recitare scene il cui culmine era la loro stessa morte. In pratica venivano così eseguite pene capitali: invece del patibolo, il condannato sosteneva il ruolo d’un personaggio storico destinato a morire nel corso dello spettacolo teatrale. In definitiva erano esibizioni in cui non c’era bisogno di fingere. La paura, il dolore, i gemiti, le agonie erano reali, ed era questo che eccitava la platea.
Chi organizzava spettacoli apprezzati dal popolo poteva poi vivere di rendita; guai, però, a deludere, si rischiava d’essere bruciati e di dire addio ad ogni aspirazione politica.
Le epigrafi salvatesi dal tempo ci regalano i nomi di alcuni brindisini che ricoprirono tali alti incarichi municipali. Ad esempio i quattuorviri Gaio Falerio Nigro, Tito Aulio Aper, Lucio Cassio Flaviano, Lucio Audio e Lucio Graeceio, questi ultimi due anche quinquinnales, Caio Antonio Achaico, pure censore.
E possiamo immaginarceli mentre si aggiravano per le strade della città in toga praetexta — vale a dire la toga fregiata con un orlo di lana purpurea — che, insieme alla sella curule, faceva parte dei loro signa (segni distintivi).
Di sera passavano tra la folla accompagnati da torce (funalia) e candele (cereos) però solo i quattuorviri iure dicundo erano seguiti dai littori (lictores), muniti di verghe (fasces) ma senza le scuri (securibus), ad indicare che la loro magistratura non era insignita d’imperium1.
Per adempiere all’obbligo (officium) derivante dalla carica politica assunta, i magistrati municipali potevano contare sugli apparitores, personale subalterno che, pagato dal municipium, faceva parte dei cosiddetti officia. Questi erano composti con un numero fisso di addetti e dovevano comportare una spesa prestabilita anche nei rapporti tra magistrati: quelli a disposizione dei due giusdicenti prevedevano una spesa due volte e mezzo superiore a quella destinata ai collaboratori degli edili. Ed anche questo era indice del diverso peso politico e sociale dato ai quattuorviri iure dicundo rispetto ai quattuorviri aedilicia potestate.
Allora, bello o brutto che possa apparire, gli appiattimenti sociali non erano consentiti, e tutto andava graduato e collocato in una scala di valori ben delineati.
I due iure dicundo disponevano probabilmente del seguente personale: due lictores (littori), un accensus (usciere, aiutante), due scribae (segretari), due viatores (messi), un librarius (archivista), un praeco (banditore), un haruspex (aruspice) — che cercava di cogliere il volere degli dèi prima dell’avvio di una seduta o di una attività pubblica — un tibicen (flautista).
I due edili, invece, uno scriba, un praeco, un haruspex, un tibicen e dei servi pubblici che li assistevano nelle funzioni di carattere sacro, tipo nei sacrifici.
Quelli che godevano dello stipendio più alto erano gli scriba, tra l’altro obbligati a giurare che avrebbero svolto le mansioni con diligenza e facendo i conti senza dolo e senza tentare di appropriarsi dei soldi del municipium. Neanche a dirlo, e tipico d’una società meritocratica, gli scribae che lavoravano con gli iure dicundo percepivano un salario più alto.
Come per i magistrati, il loro incarico durava un anno.
Alle funzioni religiose (cura sacrorum) erano preposti a Brindisi i pontefici e gli auguri, eletti nei comizi con carica vitalizia.
Occorre rilevare che in ambito religioso avevano competenza anche gli iure dicundo che, oltre ad officiare molte cerimonie sacre, presentavano, per l’approvazione del consiglio dei decurioni, il calendario festivo (dies festi), vale a dire dei giorni in cui si celebravano cerimonie religiose in onore di divinità o per ricorrenze di carattere civile d’interesse locale. Questi erano decisi annualmente dai magistrati, che così fissavano appunto i giorni festivi d’interesse locale e quelli lavorativi (dies profesti) dell’anno in cui erano in carica. Ai giorni festivi, si dovevano aggiungere le feriae (festività) determinate a livello centrale dall’Urbe e che rappresentavano le feste in vigore per tutte le comunità romane.
Con ogni probabilità, a Brindisi, i pontefici e gli auguri erano raggruppati nei conlegia pontificum augurumque (collegi dei pontefici e degli auguri), i quali erano composti da non più di 3 sacerdoti ciascuno.
Al pontefice spettava la sorveglianza del culto e delle cerimonie pubbliche nei loro vari aspetti, oltre al compito specifico di sovrintendere ai sacra municipalia, ossia ai riti riguardanti divinità
onorate prima che Brindisi diventasse città romana. L’unica divinità indigena di cui è rimasta traccia, ma con il nome assegnatole dai Romani, è Pales2 che fu evocata da Attilio Regolo durante l’assedio di Brindisi.
L’augure, oltre a partecipare a tutte le funzioni sacre, aveva competenza esclusiva negli auspicia che erano delle forme d’investigazione del volere divino. Dal volo degli uccelli (da cui, auspicia da aves specere, osservare gli uccelli) che era il modo più antico d’indagine, dall’osservazione dei tuoni (tonitrua), delle saette (fulmina) e dei lampi (fulgura), vale a dire dagli auspicia caelestia (dai segni del cielo), e dal modo di mangiare dei polli sacri (auguria pullaria) gli auguri interpretavano la volontà degli dèi. Vale a dire se gli dèi erano consenzienti all’azione che s’era in procinto di fare.
In definitiva non si voleva conoscere l’avvenire ma sapere solo che quanto si stava per intraprendere non violasse il patto stipulato con gli dei, la cosiddetta pax deorum.
Tra i privilegi goduti, i pontifici e gli auguri — come per altro i loro figli — erano esentati dall’essere arruolati nella milizia e da obblighi pubblici (munera publica), in più, come i tribuni della plebe, erano inviolabili (sacro sanctius), nel senso che nessuno poteva arrecar loro anche il minimo danno fisico. Il solo toccarli, era infatti punibile con la pena capitale.
Avevano inoltre il diritto di partecipare alle cerimonie indossando la toga praetexta e prendendo posto tra i decurioni, quando c’era d’assistere ai ludi ed agli altri spettacoli che si svolgevano a Brindisi.
Durante le cerimonie sacre, i sacerdoti municipali erano assistiti da personale subalterno, quali i camilli (paragonabili agli attuali chierichetti), il tibicen (flautista), ed i victimarii, personale incaricato di uccidere l’animale vittima nei sacrifici.
Pare che a queste celebrazioni potessero partecipare officianti di altri specifici culti, come, ad esempio, Lucio Pacilio Tauro e Flavia Cypare, rispettivamente sacerdote e sacerdotessa della Magna Mater Cibele e della dea Syriae presso il municipio brindisino, i cui nomi sono stati preservati da due antiche epigrafi.
(3 – continua)
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