di Salvatore Coppola
Nel corso dei lavori della Conferenza interregionale delle Federbraccianti di Puglia e Lucania (Matera, 13 e 14 maggio 1950), si discusse ampiamente delle occupazioni delle terre che si erano avute nella provincia di Lecce. «Nei mesi di novembre e dicembre 1949 e gennaio 1950» – si legge nel testo del documento finale – «in concomitanza con tutta la grande azione dei contadini calabresi e siciliani, per l’occupazione e la trasformazione del latifondo in queste regioni, si sviluppava l’azione veramente di massa dei contadini poveri e dei braccianti nel leccese per l’occupazione delle terre incolte dell’Arneo e delle altre zone paludose o abbandonate del litorale adriatico del Salento. A questa azione hanno partecipato fino a 10 o 15.000 piccoli contadini ed avventizi agricoli, i quali molte volte sono partiti da comuni, come Copertino o Carmiano, distanti 15 o 20 Km. dalle terre da occupare». Si mise in evidenza, tuttavia, che le occupazioni avevano avuto un carattere fondamentalmente simbolico. I risultati complessivi, considerato che della grande estensione occupata solo poche centinaia di ettari risultavano assegnate in enfiteusi ai contadini, dovevano considerarsi nel complesso deludenti specie se messi a confronto con quelli conseguiti nella provincia di Matera dove si erano mobilitati, oltre ai braccianti, anche i coltivatori diretti, e l’occupazione di 10.000 ettari, che era stata effettiva e non simbolica, aveva portato alla concessione di 2.500 ettari di terre. Se il bilancio complessivo delle lotte venne considerato positivo, vennero individuati anche lacune e difetti («le nostre organizzazioni non sono riuscite ancora a costituire un efficace fronte contadino da opporre al fronte agrario […] molti nostri organizzati ed anche alcuni dirigenti si sono chiusi in un settarismo di categoria»). È per questo che fu proposto alle Federbraccianti pugliesi e lucane di farsi esse stesse promotrici della lotta in difesa degli interessi, non solo dei braccianti, ma anche dei coltivatori diretti (perché fossero esonerati dal pagamento dei contributi unificati e venissero esclusi dall’obbligo dell’imponibile di manodopera), dei piccoli proprietari (perché ottenessero lo sgravio di tasse e imposte ingiuste), dei compartecipanti (per un contratto che migliorasse la loro quota di riparto) e per i mezzadri (per rivendicare la giusta ripartizione dei prodotti). Tuttavia, nelle conclusioni del convegno, mancava qualsiasi riferimento preciso e programmatico ai temi della riforma agraria[1].
Nella primavera del 1950 continuarono nel Salento le occupazioni delle terre a sostegno della battaglia politica e parlamentare tesa al conseguimento di una legge di riforma agraria generale. Dopo i tragici avvenimenti di Modena (dove, nel corso di una manifestazione operaia, vennero uccisi dalla polizia sei lavoratori), e dopo la costituzione del nuovo governo presieduto da Alcide De Gasperi (del quale non facevano più parte i liberali, tra i più tenaci oppositori del progetto di riforma agraria), vennero adottati, nonostante la resistenza dei rappresentanti degli agrari meridionali, i primi provvedimenti di riforma. La legge 230 (cosiddetta legge Sila) fu approvata il 12 maggio. La 841 (legge per l’espropriazione, la bonifica, la trasformazione e la concessione delle terre, detta legge stralcio perché doveva costituire lo stralcio di un più vasto e organico progetto di riforma agraria) fu approvata il 21 ottobre 1950. Le due leggi, per la prima volta nella storia d’Italia, intaccavano la proprietà privata, sia pure con un diverso criterio di esproprio. Mentre la legge del maggio 1950 prevedeva interventi di scorporo sulla parte di proprietà eccedente i 300 ettari, la legge stralcio, con criteri più limitativi rispetto all’ammontare complessivo dell’estensione posseduta dal singolo proprietario, individuava i terreni suscettibili di esproprio con riferimento al reddito dominicale. Una volta censite ed espropriate, le terre sarebbero state assegnate ad appositi Enti di riforma che le avrebbero successivamente concesse ai contadini con contratto di enfiteusi. I dirigenti nazionali della CGIL e della Federbraccianti, pur esprimendo un giudizio complessivamente non positivo sulle leggi agrarie, considerate provvisorie e di portata limitata, si impegnarono a lottare per la gestione democratica delle stesse e per la loro estensione ad altre aree del Paese non incluse nella previsione della stralcio. Denunciarono, inoltre, la volontà del governo e della maggioranza parlamentare di mirare a dividere i contadini in quanto solo una piccola minoranza di loro avrebbe ottenuto, a pagamento, la terra, mentre ne sarebbe stata esclusa la stragrande maggioranza degli aventi diritto e, nel mentre sollecitavano l’adozione di una riforma agraria che, fissando un limite alla proprietà fondiaria, assegnasse in enfiteusi ai contadini con poca o senza terra i milioni di ettari eccedenti, mobilitarono i braccianti allo scopo di ottenere l’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate anche sulla base delle vecchie leggi Gullo e Segni ancora in vigore[2].
La legge stralcio prevedeva interventi di esproprio nelle aree del Fucino, della Maremma, del Delta del Po, in Emilia, nel Veneto, in Molise, in Campania, in Sardegna e, per quanto riguarda la Puglia, nelle province di Bari e Foggia, ma non in quella di Lecce. È per questo che, a partire dai primi giorni di dicembre del 1950, la CGIL salentina promosse una campagna di propaganda e di mobilitazione finalizzata all’occupazione dell’Arneo con l’obiettivo di costringere il governo ad includere quella ed altre aree del Salento nelle previsioni di esproprio della legge.
La lotta, che si sviluppò a partire dal 28 dicembre 1950, fu impostata e condotta in modo politicamente efficace e in forme diverse dalle tradizionali jacqueriés tipiche del movimento sindacale pugliese e salentino. Essa era coordinata e diretta dai dirigenti del PCI, del PSI e della CGIL e nulla fu lasciato al caso o alla spontaneità delle masse («da vari giorni», comunicava il 28 dicembre il commissario di Pubblica Sicurezza di Nardò dr. Michele Magrone al ministro degli Interni, «questo ufficio era informato che la locale Camera del lavoro stava organizzando, dietro ordine degli esponenti provinciali del Partito Comunista Italiano, una nuova occupazione di terre nella vicina plaga dell’Arneo»). I marconigramma e le relazioni inviate dal prefetto Grimaldi al ministro degli Interni Mario Scelba sembravano tanti bollettini di guerra: «Federterra et dirigenti comunisti», si legge in una comunicazione urgente e riservata del prefetto, «hanno sospinto numerosi gruppi contadini a portarsi in alcune località zona Arneo per procedere occupazione terre. Sono affluiti in zona procedendo simbolica occupazione terreni incolti aut insufficientemente coltivati circa milleduecento braccianti agricoli vari Comuni. Numero occupanti successivamente est aumentato at circa duemila. Sul posto est stata notata presenza onorevoli Giuseppe Calasso comunista et Mario Marino Guadalupi socialista. Forze polizia et Arma scopo ottenere sgombro zona occupata facevano uso mezzi lacrimogeni, senza ottenere grossi risultati perché occupanti dileguavansi soprastante boscaglia […] tutte locali forze Polizia sono impegnate fronteggiare situazione». Nella strategia dei dirigenti politici e sindacali che promossero la nuova occupazione delle terre, questa non doveva costituire più, come per il passato, uno strumento di pressione sui proprietari terrieri per conseguire alcuni obiettivi limitati come l’imponibile di manodopera o il rinnovo dei contratti né doveva servire solo a ottenere miglioramenti salariali e altri benefici di natura economica o previdenziale. L’obiettivo era molto più ambizioso, molto più avanzato. La lotta mirava, infatti, a mettere in discussione i secolari rapporti di proprietà nelle campagne, a distruggere il latifondo e ogni forma di rendita parassitaria, a porre fine ai rapporti di tipo feudale ancora largamente presenti nelle campagne salentine e a gettare le basi per realizzare, in forme nuove e tutte da sperimentare, il programma della terra ai contadini. Poiché in quel momento lo strumento più efficace per conseguire tale risultato sembrava la legge stralcio, i lavoratori agricoli furono mobilitati per ottenere l’inclusione della provincia di Lecce nelle aree di esproprio previste dalla stessa, ritenuta come il primo passo verso la riforma agraria generale. Se i fini erano ben individuati, anche le forme di lotta furono attentamente programmate, ad ogni Lega dei paesi gravitanti sull’Arneo fu assegnata una determinata zona da occupare, ai capilega comunali e agli altri dirigenti sindacali fu affidato il compito di guidare i contadini e furono date istruzioni per evitare (con tattiche di tipo militare di avanzata e di ritiro strategico all’interno della boscaglia) scontri diretti con la polizia. Il centro operativo si trovava Lecce in via Idomeneo (dove, a poche decine di metri di distanza, avevano la propria sede tanto la Federazione provinciale del PCI quanto la CGIL), il movimento era guidato dal segretario del PCI Giovanni Leucci, dal vicesegretario Giovanni Giannoccolo, dai deputati Giuseppe Calasso (PCI) e Mario Marino Guadalupi (PSI), dal segretario della CGIL provinciale Giorgio Casalino e dal segretario della Confederterra Antonio Ventura. A livello locale la guida della lotta era assicurata dai segretari delle sezioni del PCI, del PSI e delle Leghe bracciantili dei paesi più direttamente coinvolti nell’occupazione (Salvatore Mellone di Nardò, Felice Cacciatore di Veglie, Crocifisso Colonna di Monteroni, Ferrer Conchiglia di Trepuzzi, Cosimo Di Campi e Cosimino Ingrosso di Guagnano, Luigi Magli di Carmiano, Mario Montinaro di Salice, Pietro Pellizzari di Copertino, Giuseppe Scalcione di Leverano, Pompilio Zacheo di Campi Salentina). I dirigenti delle sezioni del partito e delle Leghe bracciantili degli altri paesi della provincia erano impegnati a organizzare azioni di solidarietà morale e materiale con gli occupanti[3].
Note
[1] Archivio nazionale Flai-Cgil, Programma dei lavori della Conferenza Interregionale delle Federbraccianti di Puglia e Lucania.
[2] Sulla posizione della Federbraccianti, G. Gramegna: Braccianti e popolo in Puglia, cit., pp. 133-135.
[3][3] Asle, Prefettura, Gabinetto, b. 345, fascicoli 4208 e 4211.
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Per la seconda parte: