di Nazareno Valente
C’è più d’un motivo per sospettare che soprattutto le classi più abbienti brindisine non furono per nulla soddisfatte dalla legge Iulia de civitate latinis (et sociis) danda, con cui nel 90 a.C. Roma concedeva la cittadinanza romana alle comunità dell’allora Italia peninsulare. La modifica istituzionale che tramutava la precedente autorevole colonia latina di Brindisi in un municipio romano comportava per la classe dirigente, e per quella equestre, una indubbia perdita di potere non del tutto controbilanciata dai benefici che s’acquisivano. Da un punto di vista formale la norma non implicava un obbligo, in quanto le città avrebbero potuto in teoria non avvalersi del nuovo stato giuridico e permanere in quello precedente. Tuttavia nella sostanza l’Urbe attuò tutti gli strumenti a sua disposizione per piegare la volontà anche delle comunità più riottose, magari usando bastone e carota insieme, al fine di arrivare ad una situazione di totale equiparazione istituzionale.
Silla — peraltro grato ai Brindisini che l’avevano accolto e sostenuto nella lotta contro Mario e Cinna — accordò, appena divenuto dittatore, al futuro municipio l’ateleia1, vale a dire la franchigia per tutte le merci trattate nel porto, e questo beneficio fu sufficiente a placare ogni possibile mal di pancia. Brindisi perse in tal modo potere politico, finendo per divenire un anonimo municipio, acquisì però un notevole impulso economico.
La scelta si rivelò azzeccata soprattutto successivamente al periodo tormentato delle guerre civili in cui la città salentina si trovò, quale punto strategico di rilevo, sempre in prima linea, con inevitabili conseguenze negative per le normali attività urbane. Passata la buriana, la pace instaurata da Augusto dopo Azio (31 a.C.) e le mutate mire espansionistiche dell’Urbe — indirizzate ormai verso il nordest dell’Europa — oscurarono l’importanza militare del porto brindisino, superato in tal senso da Ravenna e Miseno, nel frattempo scelte ad ospitare la flotta imperiale.
Le nuove strategie tolsero sì la ribalta alla città — che infatti nel prosieguo sarà meno citata dagli storici — ma ebbero l’effetto salutare di preservarla dai contraccolpi negativi che il coinvolgimento nelle attività belliche implicava, primo fra tutti quello di non dover più avere a che fare con i legionari, le cui frequenti prepotenze erano causa di grave imbarazzo per la popolazione civile.
Brindisi si mise alle spalle le pericolose glorie del passato e inaugurò il suo periodo più redditizio, la cui durata andò ben oltre le radicali riforme di Diocleziano avviate alla fine del III secolo dell’era cristiana. Fu così possibile sfruttare il porto in senso commerciale e ciò procurò notevoli vantaggi economici perché permise, grazie innanzitutto alle agevolazioni fiscali fruite, di imporre i prodotti brindisini al ricco mondo orientale. Alle produzioni di nicchia, tra le quali la più famosa riguardava le ostriche, coltivate, diversamente da quello che si narra2, nei bacini del porto interno dove le acque erano meno soggette alle correnti e non c’era pericolo che le larve venissero disperse, si aggiungevano quelle intensive riguardanti il vino e l’olio. Prodotti questi ultimi che raggiunsero anche i più sperduti mercati delle province romane. Brindisi seppe così sfruttare gli effetti positivi conseguenti all’essere stata inserita in un organismo statale di ampio respiro che consentiva contatti internazionali sino ad allora negati alla struttura coloniale.
Esamineremo magari in futuro questo boom economico che la rese una delle più ricche comunità dell’impero. In questa occasione ci soffermeremo sull’ordinamento istituzionale del municipio brindisino, aspetto questo sinora del tutto trascurato dalla storiografia locale.
Le fonti non ci forniscono una data certa di quando Brindisi fu eretta a municipio, sebbene vari indizi inducono a ritenere che nell’83 a.C. l’iter giuridico previsto fosse ormai stato definito e che, quindi, all’incirca in quell’anno iniziarono ad operare le cariche municipali. Va qui inoltre ricordato che l’etimologia del termine municipium traeva origine da munus capere (assumere un onere) indicativo della circostanza che, in cambio della cittadinanza romana, le comunità si assoggettavano ad oneri di vario tipo, determinati nello specifico dall’atto costitutivo del municipio che fissava inoltre i limiti dell’autonomia comunale. Di fatto gli abitanti dei municipia optimo iure, come quello brindisino, avevano gli stessi diritti ed i medesimi doveri dei romani originari, mentre la loro vita cittadina era regolata dai singoli ordinamenti.
Dello statuto che disciplinava la vita municipale della città non è rimasta neppure la più esigua traccia, per cui la struttura amministrativa è ricostruibile solo attraverso i testi epigrafici o le sparse informazioni disseminate nei resoconti degli autori antichi che, in genere, si soffermavano poco su questi aspetti dando per scontato che i loro lettori ne fossero a perfetta conoscenza. L’ordinamento di Brindisi non può pertanto essere completamente delineato perché esso presentava aspetti particolari sui quali, data la limitatezza delle notizie concesse dalle fonti, è possibile solo formulare delle ipotesi. Pur tuttavia poiché la riorganizzazione delle comunità italiche in municipi avvenne seguendo uno scenario legislativo comune, è possibile integrare le nostre conoscenze con quanto si è in grado di desumere, per analogia, dagli ordinamenti delle altre città coinvolte nella medesima riforma.