Libri| Pane!…Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della Grande Guerra

Salvatore Coppola, Pane!…Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della Grande Guerra, Lecce, Giorgiani 2018    

 

Prefazione di Giuseppe Caramuscio

«Le donne stanno per diventare uomini», scrive Rosa Rorà in un romanzo comparso nel 1917, compiacendosi dei passi compiuti dal gentil sesso verso l’indipendenza e l’eguaglianza civile. Già ad inizio del XXI secolo la cultura e l’opinione pubblica occidentali erano state penetrate da una dialettica intesa a ridefinire l’immagine e il ruolo della donna in una società attraversata da profonde trasformazioni. Tuttavia in Italia il movimento ‘emancipazionista’ o ‘femminista’ (spesso denominato anche ‘suffragista’ per la rivendicazione del diritto elettorale femminile) non coglie risultati analoghi a quelli delle Nazioni europee più avanzate. Lo sconvolgimento operato dalla prima guerra mondiale, poi, a giudizio di molti storici, presenta ricadute ambivalenti: tappa decisiva per l’emancipazione femminile o piuttosto momento di esaltazione delle differenze e delle discriminazioni fra i sessi?

Sebbene con notevole ritardo rispetto ai ritmi della ricerca internazionale, anche in Italia la riflessione su tali processi ha inaugurato suggestive piste di lavoro persino in un ambito, quale la guerra, che la tradizione ha da sempre considerato esclusivo dominio virilista, tanto sul piano pratico quanto nella dimensione dell’immaginario. In effetti, oggi non può sembrare esagerato affermare che l’avanzamento degli studi sulla Grande Guerra sia in buona parte debitore proprio dellagender history, spesso e volentieri rafforzata dall’apporto della storia sociale e dalle indagini su realtà territoriali circoscritte.

Questi approcci si riscontrano ben presenti (e fra loro interagenti) nella nuova monografia di Salvatore Coppola, già noto alla comunità scientifica come uno dei più attrezzati storici pugliesi del movimento contadino e sindacale del Novecento. Egli si muove lungo una linea metodologica che non considera la storia delle donne come una sfera separata del discorso storiografico, bensì la inserisce in una serie di rapporti fra elementi di una complessa trama. Peraltro, è appena il caso di rimarcare che nell’occasione viene superato il nesso – ritenuto indiscindibile da non poche storiche – tra soggetto e oggetto della narrazione storiografica, dal momento che il presente volume di Coppola rappresenta uno dei (rari) casi in cui è un uomo ad occuparsi di uno spaccato di storia delle donne.

Nell’occasione la sua attenzione non si rivolge al tema, divenuto ormai classico, della vicarianza delle donne nei lavori a prerogativa esclusivamente maschile. Indotta dall’eccezionale mobilitazione bellica del 1915-18, tale funzione ha già ricevuto (a partire almeno da trent’anni fa) un congruo approfondimento, in particolare grazie a studi mirati sulle aree urbane e industriali del Paese, dove le donne sono state chiamate, in misura consistente, a sostituire operai e tecnici in mansioni ritenute fino a pochissimo tempo prima a loro inaccessibili sia per intensità che per qualità di impegno psico-fisico. Oggetto del presente lavoro è una peculiare forma di conflitto sociale che esplode negli anni centrali della Grande Guerra, un inedito e imprevisto movimento di donne propagatosi, a macchie di leopardo, anche in numerosi centri della Terra d’Otranto in un arco cronologico relativamente breve. Si tratta di agitazioni locali che, originate dalla protesta per il carovita e per l’inadeguatezza dei sussidi pubblici, arrivano a porre sul banco degli imputati i grandi proprietari terrieri, i commercianti, gli amministratori municipali fino a contestare decisamente la guerra in corso.

Tratti comuni a tutti questi movimenti la preponderante ed energica presenza femminile, il suo attivarsi al di fuori dei partiti e dei sindacati, il ricorso a forme di lotta illegali senza timore delle possibili conseguenze penali. La scoperta del protagonismo femminile in questo tipo di agitazioni (di fatto antibelliche) è un’acquisizione relativamente recente da parte della letteratura nazionale, al punto da considerarsi piuttosto l’avvio di un’operazione scientifica potenzialmente foriera di risultati fecondi. Sorprende ancor di più che tali sommovimenti si siano manifestati nel territorio otrantino, già valutato, a giudizio unanime delle autorità prefettizie del tempo, come impermeabile alla propaganda sovversiva e renitente non solo a forme di protesta (più o meno) organizzata, ma anche alla ribellione spontanea.

L’indagine di Coppola prosegue nella direzione recentemente aperta da alcuni contributi – non a caso firmati da archiviste – che hanno attinto ai fascicoli della Prefettura per delineare i fondamentali elementi conoscitivi delle agitazioni del 1916-17 nel Salento: l’andamento dei fatti e i conseguenti provvedimenti adottati. Di più, l’Autore allarga lo sguardo all’intera Provincia Otrantina, analizzando i diversi casi locali che costituiscono una sorta di “geografia della protesta”. Compulsando le carte dell’Archivio Centrale dello Stato, è riuscito inoltre ricomporre un quadro più organico e credibile sull’ordine pubblico e sugli atteggiamenti della popolazione civile durante la guerra del 1915-18.

Una folla anonima ed esasperata, costituita quasi esclusivamente da casalinghe e contadine di ogni età, emerge così, dopo un secolo, dalle carte d’archivio, prende corpo, anima, voce, si concretizza in alcune individualità, si agita e indirettamente ci racconta la drammaticità dell’emergenza scatenata dalla guerra. Merito dello studioso è di averci restituito il clima di quegli anni ricostruendo una pagina pressoché ignota della nostra storia recente, in grado di porre in discussione lo stereotipo della donna meridionale rassegnata, passiva e indifferente alle vicende sociali e politiche. Al contempo Coppola riesce ad evitare l’opposta seduzione dell’enfatica celebrazione delle donne tumultuanti, quasi eroine di un rinnovato Quarto Stato in marcia, capaci di fare a meno della tutela maschile.

Egli raggiunge una posizione di equidistanza tra i due estremi interpretativi grazie ad un’attenta disamina delle fonti e alla corretta contestualizzazione delle vicende nel loro sfondo storico-geografico: in tal modo l’Autore può dare ragione dell’origine, dello sviluppo, della fenomenologia, dei caratteri e dei limiti di questo movimento femminile di protesta.

La collocazione nella periferia meridionale ci spiega la matrice dei moti, sostanzialmente contadina sia nel senso dell’appartenenza sociale che della sua caratterizzazione culturale, ma questa non è sufficiente, persino in un’area limitata, per pervenire ad una sia pur approssimata generalizzazione geografica del processo. Infatti, epicentri delle agitazioni sono i Comuni capoluogo, come Lecce e Gallipoli, che si dilatano a piccolissime realtà di poche migliaia di abitanti; coinvolgono territori con una certa tradizione di lotte politiche e sindacali, come Nardò e Galatina, ma anche cittadine prima ignote alle cronache della lotta sociale. Tra le poche certezze desumibili, l’assenza dei paesi del Capo dalla mappa della protesta e la constatazione di un certo “effetto domino” nella propagazione dei tumulti. I documenti concordano nell’attribuire alle donne del luogo la guida, la responsabilità e la composizione totale degli assembramenti, con la sporadica compartecipazione di minorenni e anziani dell’altro sesso. Esse vengono identificate con connotazioni genericamente dispregiative, non di rado mutuate dal lessico maschilista.

Non si riscontra altresì, nelle relazioni delle autorità, il sospetto che la leadership dei moti possa attribuirsi ad una regìa (magari maschile) esterna al territorio: motivazione, questa, invece abbastanza ricorrente anche nell’interpretazione ufficiale di fatti simili accaduti in passato, specialmente quando le caratteristiche di pericolosità dei disordini sono tali da non potersi spiegare con l’improvvisazione. Si adombra tuttavia l’ipotesi (non infondata) di un concorso, quanto meno morale, dei militari in licenza, in funzione di sobillatori e di divulgatori di notizie in senso allarmistico e disfattistico. Se nell’Italia settentrionale le masse femminili trovano negli operai politicizzati la sponda al loro dissenso, nella periferia del Mezzogiorno lo schieramento che si oppone alla guerra in corso vede l’alleanza implicita tra donne e quei combattenti che, con l’esperienza al fronte, hanno maturato una più elevata consapevolezza dell’insostenibilità –se non dell’inutilità – del sacrificio militare e civile.

Il malcontento femminile non mette in discussione tanto i rapporti strutturali di classe o di proprietà, quanto l’iniqua distribuzione delle risorse alimentari e la gestione clientelare e personalistica di esse a svantaggio dei ceti meno abbienti. Non a caso viene scelto quale momento ‘fondativo’ della protesta la distribuzione del pane o dei sussidi alle famiglie. Il primo bersaglio polemico è l’amministrazione municipale, mentre le invettive contro la guerra chiamano in causa il governo nazionale. Manca l’individuazione dello strato intermedio della rappresentanza politica, i parlamentari, i quali, dal canto loro, ingaggiano una competizione, a suon di interpellanze e di suppliche, per ostentare il proprio interessamento nei confronti della popolazione dei rispettivi Collegi elettorali (nel 1913, lo ricordiamo, si erano svolte in Italia le prime elezioni a suffragio universale maschile).

La fiammata si estinguerà gradualmente fino a spegnersi del tutto proprio in prossimità della disfatta di Caporetto, che attiverà la speranza di una conclusione del conflitto, o forse perché il governo rafforzerà le misure preventive e repressive di pubblica sicurezza. Le reazioni dei responsabili dell’ordine appaiono improntate più ad una preoccupata sorpresa che all’indignazione scandalizzata o ad una reazione dura. In effetti rifuggono dall’uso della forza, come di solito accade per analoghe manifestazioni a guida maschile. La protesta non rimane senza esiti immediati, per quanto modesti: le promesse di un’assegnazione di prodotti di migliore qualità, contestualmente alla sospensione dei provvedimenti più gravosi, troveranno qualche precaria soddisfazione. In casi più rari si arriverà alle dimissioni di sindaco o assessori.

Ma il movimento non troverà un’adeguata sintesi politica a livello provinciale e tanto meno su scala nazionale, nemmeno da parte dei partiti di sinistra, più preoccupati che incoraggiati da movimenti popolari spontanei, sorti al di fuori del loro controllo e per di più ben connotati nel loro genere: davanti ad essi il movimento progressista italiano paleserà una impreparazione culturale e politica destinata a perdurare per molti anni.

Grati a Salvatore Coppola per la luce gettata su questo tema, i nodi storiografici rimasti da sciogliere rimangono i consueti nella storia di genere: in che modo i fatti hanno evidenziato la specifica identità femminile? Le ribellioni del 1917-18 possono essere considerate anche in senso emancipativo? È un fronte effettivamente trasversale ai differenti gruppi sociali? Qual è il ruolo di altre categorie nel contesto? Quanto alle prospettive di ricerca comparativa sulle “donne comuni” (nuova categoria storiografica, coniata per designare una massa più generale rispetto alle distinzioni tradizionali basate sulla classificazione cetuale), va osservato che il dibattito storiografico, avviato dalla questione del rapporto tra guerra ed emancipazione, si è allargato alla correlata discussione sugli esiti in termini di inclusione nella Nazione e nello Stato e di riconfigurazione delle identità e dei sistemi di genere. Le interpretazioni finora espresse risentono della scala di osservazione e dell’estensione dell’orizzonte temporale, del peso dell’angolo visuale (sociale, giuridico, temporale), e delle differenze tra donne (età, residenze, classe). I rapporti considerati da Coppola sono quelli tra i poteri e le donne, alla luce di una documentazione istituzionale, che lascia zone d’ombra su almeno altre due relazioni: tra donne e uomini, e tra cultura e istituzioni.

Forse sbaglieremmo a ricercare nelle ideologie tradizionali (il cattolicesimo) o nuove (il socialismo) l’humus delle proteste delle donne di Terra d’Otranto, sebbene l’una e l’altra possano aver influito sulla perdita definitiva della già scarsa fiducia nella guerra. La sempre più forte dissociazione tra Paese reale e Paese legale, l’affollata ritualità religiosa Pro pace, l’incremento delle azioni collettive di contestazione, le testimonianze dell’insubordinazione militare, i frequenti lutti bellici intfrafamiliari, rafforzandosi reciprocamente creano un effetto moltiplicatore delle rivolte popolari fino a renderle quasi epidemiche. Più che una coscienza di classe (i cui semi, comunque gettati, non tarderanno a dare frutto) sembra voglia imporsi un’appartenenza identitaria femminile. Lo spirito che emerge nella fattispecie pertanto potrebbe ritrovarsi nell’atavico istinto di sopravvivenza e di protezione familiare, che le nostre donne vogliono esprimere liberamente quali antiche vestali della Vita, ma per farlo dismettono le loro vesti consuete e ricorrono all’oltraggio e alla violenza a pubblici ufficiali, al danneggiamento di proprietà private o di edifici pubblici, insomma alle forme di lotta proprie del sesso forte.

 

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