Coronavirus: le storie dell’orso

di Nazareno Valente

Lo confesso. Dopo un mese e più di segregazione, sono un po’ sul depresso e non riescono a modificare questo mio triste stato — se non in peggio — le audaci performance, per fortuna ora solo bisettimanali, del dottor Angelo Borrelli, soprattutto se in compagnia del professor Silvio Brusaferro. Con calma olimpica i due alti esponenti degli apparati governativi snocciolano i dati tragici dell’epidemia, appunto come se, invece di vite umane, si trattasse di noccioline.

Chiaro che a metterci troppa enfasi, si rischierebbe di far allarmare viepiù i già tanto preoccupati cittadini, però un minimo di partecipazione al lutto magari non guasterebbe. In particolare maggiore trasparenza, tanto per non avere la sensazione che, oltre al danno, si debba subire la beffa di passare per quelli che se le bevono tutte. Anche la fantasia ideata sul momento.

Il massimo si raggiunge quando si dà spazio alle domande dei giornalisti, dando l’avvio ad un dialogo tra sordi o, meglio ancora, tra persone che usano gli stessi termini assegnando però loro un significato completamente diverso.

Domanda tipica: ma i tanti morti in casa sono compresi tra quelli che ci comunicate dovuti al Coronavirus?

Risposta di rito che dice e non dice. Che si arrovella nelle più ingegnose circonlocuzioni con l’unico intento di tenersi lontani dal dare una chiara definizione della questione.

Tutti rimangono nel dubbio: ma è un sì, oppure un no? Ivi compreso il giornalista che ha posto la domanda che, però, abbozza. E ringrazia pure.

Resta però un mistero, cosa intenda il dottor Borrelli quando parla di morti per Coronavirus.

Il fatto è che per la Protezione civile i “morti” di cui dà nota non sono tutti i deceduti che hanno contratto il Coronavirus ma solo una parte, vale a dire unicamente quelli la cui positività è stata accertata dal tampone. Quindi, in assenza di test, anche se i sintomi sono tali da non lasciare spazio a possibili dubbi, non si è morti per Coronavirus.

D’altra parte, sempre per non allarmare la gente, ed anche allo scopo di tacitare i numeri, si è sempre un po’ contato sull’ambiguità terminologica. Il problema sta a monte e bisogna risalire alla definizione di caso per capirci qualcosa.

Tra i documenti dell’Istituto Superiore della Sanità si scopre tra le note che “La definizione internazionale di caso prevede che venga considerata caso confermato una persona con una conferma di laboratorio del virus che causa COVID-19 a prescindere dai segni e sintomi clinici”.

A parte la cacofonica ripetizione dei termini, pare di capire che, per convenzione internazionale, un caso di contagio è tale solo se accertato da un test. Non è quindi possibile diagnosticarlo in altro modo, anche qualora segni e sintomi clinici lo rendessero manifesto. In definitiva non si è contagiati finché un tampone non abbia rilevato la positività.

Evidente che, se si muore prima di essere stati dichiarati contagiati ufficiali, non si può essere morti per Coronavirus, anche qualora gli effetti del virus fossero evidenti.

Chiaro pertanto che meno tamponi si fanno, meno contagiati ci sono e, di conseguenza, meno morti causati dal virus.

La questione che pare andare oltre la definizione internazionale — comunque tutta d’accertare vista la trasparenza equivoca dei comunicati governativi — è che nel nostro Paese per essere considerati “contagiati” ci vuole anche un ulteriore test. Leggiamo infatti in un bollettino dell’Istituto Superiore della Sanità (ISS) che i casi di Covid-19, diagnosticati dai laboratori di riferimento regionale come positivi, vengono poi processati dal laboratorio nazionale dell’ISS.

Sembrerebbe pertanto che al tampone regionale debba seguire un tampone nazionale, e solo se si è positivi in entrambi si può essere a pieno titolo conteggiati tra i “contagiati”.

Ora, se la valutazione fatta a livello nazionale rilevasse consistenti discrepanze con i risultati ottenuti in sede regionale, questo secondo passaggio avrebbe motivo d’essere. Scopriamo invece che i risultati concordano quasi sempre: di fatto nel 99% dei casi, come lo stesso Istituto Superiore della Sanità fa sapere. In definitiva, sempre che io abbia compreso il congegno, il tampone che potrebbe essere usato per scoprire altri positivi, sarebbe invece spesso adoperato per permettere all’ISS di mettere il suo bollino. Si sprecherebbe così una risorsa — l’unica di cui si è dotati per scovare dov’è il virus e combatterne la diffusione — per porre un sigillo che, nel 99% dei casi, non fa altro che accertare quello di cui si era già certi prima.

La cosa appare così strana che, con tutta probabilità, sono io che prendo lucciole per lanterne, sebbene proprio ieri (21 aprile) è stato diffuso un nuovo dato che tenderebbe a confermarlo: il milione e mezzo di test fatti (1.450.150, per la precisione) ha riguardato solo 971.246 persone. Di conseguenza c’è ampio spazio che questo doppio accertamento sia in effetti stato svolto.

D’altra parte l’equivoco è alimentato nelle stesse conferenze stampa della Protezione civile, dove più volte si è fatto cenno alla questione, senza però affrontarla con la dovuta considerazione.

Molta più attenzione è stata invece riservata ad una faccenda, per certi versi ben più imbarazzante, vale a dire come mai da noi il Coronavirus comporta una mortalità quasi quattro volte superiore a quella rilevata in Germania.

Qui i consulenti governativi, aspiranti tali e non, hanno fornito le più disparate spiegazioni.

Taluni hanno affermato che fosse conseguenza del fatto che siamo una popolazione “molto” più anziana; peccato che abbiano momentaneamente dimenticato che i Tedeschi, in media, sono sì più giovani di noi ma per questioni di qualche mese, cosa che più di tanto non può incidere.

Altri hanno argomentato che i Tedeschi ammalatisi erano tutti giovani (in quanto l’avevano contratta nelle stazioni invernali, sciando), mentre i nostri connazionali erano all’opposto dei vecchietti che l’avevano contratta nei loro abituali ritrovi; peccato che poi i contagiati in Germania sono diventati decine di migliaia, e farli passare tutti per sciatori è parso anche a queste eccelse menti un po’ eccessivo.

Gli esponenti dell’ISS hanno invece partorito una spiegazione scientifica. In particolare il professor Brusaferro che ne è presidente, ha fatto sapere che un loro studio consente di identificare in maniera inequivocabile le caratteristiche del deceduto: egli è, in media, un settantanovenne con 3,3 patologie croniche pregresse. Quindi un Italiano ormai più minato dai problemi fisici precedenti che dal virus.

Il che, non solo è servito a dare una risposta ammantata dai crismi della scientificità ad un inquietante interrogativo, ma anche di far considerare che, se morti ci sono state, queste coinvolgevano chi già, per pregresse patologie, era ormai al termine del suo cammino.

Probabilmente, senza volerlo, ha dato pure esca a tutta una serie di antipatiche considerazioni che indicano sempre più l’anziano come destinatario – e, ciò che è peggio, a volte pure fonte – della diffusione del virus. E la sparata (molto poco democratica), con cui la signora von der Leyen ha invitato a segregare gli anziani, è la naturale conseguenza d’un ritornello ormai diventato un must.

Infatti a sentir ripetere sempre la solita tiritera, ed in aggiunta cantata in coro da cotanto qualificato pulpito, si finisce per convincere anche i più ribelli ed a farla ritenere una scontata verità.

Ma è davvero così?

Per curiosità ho provato a verificare l’affermazione. E, come al solito, andando al fondo delle cose, si scopre che non è tutto oro quello che riluce. Anzi che di oro ce n’è ben poco.

Intanto una considerazione di carattere generale che a me pare del tutto scontata: gli anziani hanno di per sé un’aspettativa di vita inferiore ai giovani e, quindi, non c’è bisogno di scomodare il Covid-19 per assegnare loro una maggiore probabilità di salutare questo mondo. Tutto ciò avviene comunemente, in qualsiasi contesto normale. Senza fare conseguentemente di loro dei possibili pericoli.

Nello specifico, l’affermazione del professor Brusaferro – e la sicurezza con cui essa è pronunciata – accentua ancor più questo stato di fatto.

C’è un report, che l’ISS redige periodicamente titolandolo “caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia”, da cui il professor Brusaferro ha tratto le informazioni utili.

In quello compilato con riferimento ai dati del 20 aprile scorso, si afferma che, analizzato un campione di 21.551 casi, come dire più di 2.500 in meno di quelli che costituivano la popolazione alla data precitata1, si ricava che i deceduti hanno un’età media di 79 anni e presentano un numero medio di patologie croniche preesistenti, vale a dire diagnosticate prima di contrarre l’infezione, pari a 3,3.

Il che attesterebbe la veridicità di quanto più volte dichiarato dal professor Brusaferro.

Tuttavia, quello che non viene mai precisato in pubblico, ma che risulta contenuto nel report, è che tale valore di 3,3 patologie preesistenti non riguarda il campione già ristretto di 21.551, ma di un campione ulteriormente ridimensionato di 1.890 deceduti, vale a dire di quelli di cui si è potuta analizzare la cartella clinica

Senza tediarvi troppo sugli aspetti teorici riguardanti la scelta di un campione statistico e su come calcolare una sua idonea numerosità, vado subito alle conclusioni.

Intanto, data la popolazione di partenza, i 1.890 casi rappresentano una numerosità campionaria che garantisce un errore statistico molto basso. Quindi più che sufficiente a garantire ottimi risultati.

Il campionamento andrebbe poi fatto in modo che il sottoinsieme prescelto sia rappresentativo della popolazione che s’intende studiare e che, quindi, sia in grado di sintetizzarne le caratteristiche. Solo a queste condizioni è infatti possibile fare inferenza, cioè a dire ricavare dal campione ciò che c’interessa sapere della popolazione. In definitiva il campione va scelto con metodi ben precisi, detti probabilistici.

Quello fatto dall’ISS è, invece, il tipico campionamento di convenienza, non basato su metodi probabilistici, ma sulle unità che in quel momento passa il convento.

Già di per sé un campione così fatto fornisce valori poco attendibili e compromette la possibilità di generalizzare i risultati. Qui in più c’è l’aggravante che recluta unità del tutto particolari che lo rendono lontanissimo dalla popolazione che vorrebbe al contrario rappresentare. Infatti il campione utilizzato dall’ISS è costituito dai soli deceduti di cui s’è potuta analizzare la cartella clinica. In altre parole di quelli che, nella maggior parti dei casi (se non proprio in tutti), per problemi clinici precedenti avevano avuto già a che fare con il sistema sanitario, tant’è che le strutture ospedaliere erano in possesso della loro cartella clinica.

In definitiva un campione “distorto” — di fatto il più indicato per desumere risultati del tutto fuorvianti — in quanto costituito con le unità con più probabilità di avere patologie preesistenti e con la totale esclusioni di chi, al contrario, ha meno probabilità di averne.

In pratica si sono calcolate le patologie croniche pregresse di 21.551 positivi, valutando un campione che non lo rappresenta in quanto costituito da unità con più possibilità di essere “malate” e con l’esclusione di quelle con più possibilità d’essere “sane”.

E come se, ad esempio, volessimo indagare sull’uso abituale e prolungato di tabacco da parte di una certa popolazione ed includessimo nel campione solo quelli che fumano. È chiaro che avremo dei valori elevati, che tenderanno a diminuire man mano che le unità del campione sono sostituite con chi non fuma, sino a diventare addirittura zero, quando il campione include solo chi non ha mai fumato.

Non stupisce pertanto che lo studio dell’ISS sia arrivato a definire il deceduto positivo da Covid-19 minato già da molteplici magagne fisiche. Considerato il campione prescelto, è difficile che potesse essere diversamente.

In definitiva non credo proprio che quel valore di 3,3 patologie pregresse croniche attribuite a chi non ce l’ha fatta a superare la malattia abbia un qualche riscontro con la realtà. E, in ogni caso, quando la storiella viene raccontata in pubblico, andrebbero precisati, per completezza d’informazione i grossi limiti metodologici con cui si è proceduto nei calcoli.

Ma, quel che più conta, non può essere utilizzato per giustificare, nemmeno in parte, l’alto tasso di letalità rilevato (13,40%) per i contagiati italiani. Né l’alto numero di vittime che il Covid-19 ha mietuto nel nostro Paese.

Né, a maggior ragione — ma questo è tutto un altro discorso —costituire la base scientifica con cui accreditare eventuali politiche di segregazione degli anziani.

Come sembrerebbe sempre più all’orizzonte.

 

1 Probabilmente, diversamente da ciò che è scritto, i dati si riferiscono a qualche giorno precedente anche se la cifra indicata non combacia con nessuna di quelle comunicate dalla Protezione civile. Tuttavia in un altro documento, “Epidemia Covid-19” — però riferito al 16 aprile — in nota ad una tabella, si legge testualmente: “la tabella non include i casi con sesso non noto”. L’affermazione è di per sé strana perché ci racconta che ci sono deceduti di Covid-19 di cui l’ISS non conosce neppure il sesso. Ma, sebbene tutto sia possibile, parrebbe ancor più strano che un simile dubbio possa riguardare moltissimi casi. Sicché la diversità delle cifre dovrebbe essere per lo più causata dai ritardi di comunicazione, del tutto naturali in simili frangenti.

 

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2 Commenti a Coronavirus: le storie dell’orso

  1. Non me ne intendo. Sono solo uno statistico. Sui metodi statistici, sulla raccolta dei dati, sull’inferenza ed altro che riguardi i numeri, mi sento titolato ed in grado di parlare e, se qualcuno ritenesse di volerne discutere con me, sarei contento e disponibile a farlo. Al più potrei anche dialogare con profitto su antichità latine e greche; altri argomenti non saprei trattarli con cognizione di causa. E meno che meno sono in grado di dialogare su affermazioni generiche. Come detto sono uno statistico e, in quanto tale, mi sento più portato ad affrontare questioni concrete. Una felice giornata.

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