I materiali da costruzione: i conci (cuzzetti) e la malta (conza)
di Mario Colomba
Il “cavamonti”, detto zuccatore, era l’artigiano che materialmente estraeva i conci dal banco di tufo che, nelle località ove esisteva, consisteva in un ammasso di arenaria (banco) coperto da una coltre di terreno vegetale che veniva preliminarmente rimosso.
Il tufo pugliese fa parte dei calcari teneri di origine sedimentaria marina, di facile lavorazione con mezzi normali come le mannare e sono adatti ad essere cavati e squadrati in conci parallelepipedi regolari con superficie piana.
Il De Giorgi considera i tufi calcari arenacei, costituiti da “sabbie marine mescolate con elementi calcarei di origine organica (perischeletri di foraminiferi) con frammenti di coralli, briozoi, molluschi, echinodermi, legati fra di loro con cemento calcareo siliceo-argilloso”. Sotto l’aspetto litologico essi sono di origine sedimentaria (esogena, acquea, nettunica) contenente detriti (calcarei e cretacei), provenienti dalla terra ferma e spoglie calcaree di organismi (molluschi), il tutto cementato con sostanza calcitica segregata dallo stesso sedimento.
I tufi hanno generalmente caratteristiche variabili: anche nella stessa cava gli strati successivi possono differenziarsi sia nell’aspetto che nella costituzione e nelle caratteristiche meccaniche.
Dopo avere spianato il banco, rimuovendo anche lo strato superficiale di arenaria intrisa di terra rossa e, spesso, friabile, venivano cavati i conci con l’uso di un attrezzo simile ad un piccone ordinario (lu zueccu) ma caratterizzato da una estremità molto sottile e da un’altra molto larga
Con l’estremità sottile detta pìnnulu venivano praticate sulla superficie orizzontale del banco delle fessure longitudinali parallele (carasse), alla distanza, l’una dall’altra, di circa 25 cm (un palmo) o 30 cm (per i pizzotti) e della profondità di circa cm. 20 o 25 cm. (per i pizzotti); successivamente veniva praticata un’altra serie di fessure ortogonali alle prime, distanti fra loro circa 65 cm., corrispondenti alla lunghezza dei conci da cavare (due palmi e mezzo).
In seguito, con l’estremità larga del piccone veniva estratto (scappato) il primo concio e successivamente tutti gli altri componenti della stessa fila e quindi quelli delle altre file, fino all’esaurimento di tutto lo strato (linea) del banco.
Il concio così ottenuto era un parallelepipedo che aveva, dopo la squadratura, le dimensioni di centimetri 63 x 25 x 20 di spessore. Poteva anche ottenersi il cosiddetto palmatico, che aveva uno spessore di centimetri 25, generalmente non usato da noi, oppure il pizzotto, da cm 30 di spessore.
Decisamente, il lavoro dello “zuccatore” era il più duro fra tutti quelli praticati nel settore delle costruzioni, non solo per il sacrificio fisico della costrizione a lavorare sotto il sole d’estate e al freddo e al vento d’inverno ma anche per la precarietà del risultato produttivo. Infatti non era infrequente l’eventualità di dover estrarre i conci da banchi naturalmente fratturati all’interno che non si lasciavano intravedere dall’esterno ma che si scoprivano man mano, quando i conci si fracassavano durante la scappatura, vanificando il lavoro di ore o a volte di giorni, senza alcuna possibilità di produzione,, necessaria per il sostentamento personale e familiare. Per questo e per l’imprevista presenza di catene (strati interclusi di calcare duro e compatto di spessore variabile da qualche millimetro ad alcuni centimetri) alcune cave anche di modesta profondità venivano abbandonate.
Il limite della profondità della cava a cielo aperto era rappresentato dalla disponibilità del suolo necessario per la costruzione di agevoli rampe di accesso la cui pendenza e lunghezza doveva essere necessariamente contenuta nei limiti della capacità di tiro e di resistenza dei cavalli che equipaggiavano i traini (traìni) di trasporto.
Qui le parti precedenti dello stesso Autore:
Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia
L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte
Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento
L’arte del costruire. Il cantiere edile a Nardò e nel Salento
Articolo molto interessante
Vivissimi complimenti.
In passato vi sono state altre pubblicazioni in merito a questa tematica?
Grazie
Francesco
Articolo interessante anche se molto incompleto. Nella nostra provincia esistevano molte cave tufacee sparse in diversi posti e proprio per questo esistevano diverse tipologie di tufi, con caratteristiche diverse. Per esempio nell’agro di Cutrofiano esistevano un tipo di tufo molto leggero e facile da lavorare e si prestava per lo più per interni delle abitazioni, era un coibentato naturale ma molto delicato; mentre la pietra ricavata dalla zona di Gallipoli era molto più dura e quindi utilizzata meglio per gli esterni. Per quanto riguarda la pietra del magliese si prestava meglio per lavorazioni di fregi, statue e abbellimenti in quanto più cretosa e meglio plasmabile. I nostri nonni conoscono bene queste nozioni. Interessante scrivere anche della produzione della calce viva fatta in casa con attrezzature semplici; mi è stato raccontato da una persona anziana di Parabita e ne sono rimasto affascinato. Grazie e complimenti per quello che trattate. Tiziano
E’ solo un paragrafo del libro.
Sugli argomenti che richiama le segnalo quanto ha scritto l’ingegnere Angelo Micello:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/12/i-tufi-di-puglia/
e l’architetto Fabrizio Suppressa:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/09/calcare-e-calcinari-nellarneo-2/
Benvengano altri arricchimenti da parte dei lettori