Antiche memorie dei riti e commemorazioni della Settimana Santa a Nardò prima della Riforma Liturgica (Costituzione Dogmatica “Sacrosanctum Concilium” del Concilio Vaticano II (4.XII.1963)
di don Santino Bove Balestra
La Settimana Santa dai fedeli era considerata come il periodo della catarsi (“purificazione” dell’anima e del corpo da ogni contaminazione) corporale e spirituale, tanto che curavano con particolare attenzione l’igiene personale e la pulizia straordinaria della biancheria e suppellettili domestiche.
Ogni sera di questa particolare settimana in Cattedrale, la Chiesa Madre, quando non era ancora consentita la celebrazione della Messa Vespertina , officiava un padre predicatore con un sermone sulla Passione di N.S.G. detto “Passio”. Vi era grande concorso di popolo che partecipava con forte impatto devozionale ed ogni fedele portava con sé dalla propria abitazione una sedia o uno scanno, che lì sarebbe rimasto per tutto il periodo ad uso personale. I pochi banchi in dotazione alla chiesa erano riservati ai più anziani, che occupavano con largo anticipo rispetto all’orario prefissato.
Il solenne triduo era il momento più forte ed aveva inizio al mattino del giovedì santo, quando, nel Cappellone del SS. Sacramento, il Vescovo con il clero secolare e regolare celebrava la Messa Crismale. Nel pomeriggio il popolo si recava in Cattedrale, nelle chiese parrocchiali e nelle rettorie per la tradizionale visita ai cosiddetti “Sepolcri” (repositori), debitamente allestiti dalle rispettive comunità e confraternite, osservando che il numero di quelli visitati fosse dispari. Lungo il tragitto si recitava il Rosario.
Una volta giunti davanti al SS.mo Sacramento si ripeteva la seguente giaculatoria: “Sipulcru isitatu, ti lacrime bagnatu ti la tesoreria della Vergine Maria”, recitata per tre volte, seguita da altrettanti Pater, Ave e Gloria. Si invitava a fare altrettanto anche i fanciulli presenti, riponendo un obolo nell’apposita cassetta delle offerte da destinare alle spese di culto e all’acquisto della cera che bruciava. L’addobbo del “Sepolcro” era sontuoso e solenne, ornato con tessuti pregiati, damaschi e broccati scrupolosamente conservati di anno in anno. L’Urna era collocata in basso e la porticina del tabernacolo restava aperta, mentre in alto dell’altare era alloggiato il SS.mo Sacramento in posito contenitore. I gradini dell’altare, in genere scelto tra quelli laterali della chiesa, e la mensa erano ornati con piattini su cui nelle settimane precedenti erano stati fatti germogliare semi di frumento, lupini, ceci, cicerchie (comunemente detta tolica ianca) e lenticchie, con aggiunta di colorati fiori di campo inseriti poco prima dell’esposizione.
Questa preparazione richiedeva esperienza e particolare accuratezza, anche perché la semina su tufo e bambace disposti a strati richiedeva tempi scadenzati, così da far coincidere la crescita con la festività. Prerogativa di questi “piatti ti sipurcu” è che quanto era germogliato dovesse essere candido, bianco, in pratica senza che si fosse avuta la fotosintesi ed il conseguente verde. Per questo subito dopo la messa a dimora dei semi nei piattini e l’adeguata umidificazione del supporto si tenevano al riparo, in locali assolutamente privi di luce, per almeno 15 giorni. Qualcuno li faceva germogliare e crescere nei cassetti dei comodini, innaffiandoli dopo il tramonto, per evitare che la luce solare vanificasse quel segno di rinascita e di purezza.
Il tempo concesso per la visita ai “Sepolcri” durava fino alla recita dell’Ora Terza dell’Ufficio delle Ore, che venivano cantate in latino in Cattedrale dal “Breviario o dal Liber Usualis” del Venerdì Santo. Occorrerà la Costituzione Dogmatica “Sacrosanctum Concilium” del Concilio Vaticano II, nel 1963, per l’approvazione, da parte dei Padri Conciliari , della celebrazione in lingua italiana della Messa avvenuta questa per la prima volta precisamente il 7 marzo 1965 e presieduta da S.S. Papa Paolo VI, nella parrocchia di Ognissanti dei Padri Orionini, in Roma, la stessa dove si reca annualmente Papa Francesco.
VENERDI’ SANTO
In Chiesa Madre, dopo la recita dell’Ufficio Liturgico dal Capitolo Cattedrale, si procedeva alla rimozione dei paramenti del “Sepolcro” e a partire dalle ore 13,00 esatte fino alle ore 15.00 si celebrava “l’Agonia di N.S.G.C.” Ogni anno veniva invitato dall’Arciprete del Capitolo, un valido padre predicatore, in genere un religioso (andavano per la maggiore i Missionari della Congregazione dei PP. Passionisti o i Padri Cappuccini), che dal pergamo della Basilica commentava “Le ultime sette Parole di Cristo”, intercalando alcune giaculatorie nel proclamare ogni singola parola (statio).
Si tramanda, da una delle poche testimoni oggi felicemente in buona salute (è alla vigilia del centesimo genetliaco!) (*) che correva l’anno 1930, quando fu introdotto il suggestivo ed emotivo rituale della “Schiodazione” del Crocifisso in cartapesta, oggi custodito nella Sagrestia della Basilica Cattedrale. Ciò avvenne davanti alla prima delle colonne in stile gotico, alla destra dello “Stipone delle Sante Reliquie dei Santi”. Si racconta, da parte di chi era presente e ne sia quindi oggi preziosa e rarissima testimone oculare, che alcuni fedeli a causa di istintive reazioni emotive, causate dalle forti grida emesse da alcuni presenti nell’assemblea, crollassero di colpo a terra privi di sensi. Tanto era forte la compulsione per il commento omiletico del racconto della morte del Nazareno, a maggior ragione scenograficamente rappresentata dal distacco delle membra dello stesso Crocifisso. Ciò accadeva soprattutto dopo la settima parola: “Nelle tue mani, Padre consegno il mio spirito!”, quando seguiva un forte terrificante rumore che sembrava scuotesse le mura dell’antico edificio sacro, simile ad un boato sismico, seminando tra gli astanti panico, pianto e tremore.
Terminata “l’Agonia”, seguiva la celebrazione della cosiddetta “Messa scirrata”, officiata da tre presbiteri, in maniera del tutto disordinata, senza tovaglia sulla mensa eucaristica, o posata in modo scomposto, sgualcita e non stirata, senza i candelieri (talvolta se ne faceva uso di uno solo, senza che il celebrante indossasse la stola della pianeta, oppure si invertiva l’ordine delle ampolline dell’acqua con l’altra del vino). La durata della celebrazione era più lunga del solito, poiché, secondo l’immaginario collettivo, i tre celebranti “perdevano i sensi” e quindi il retto incedere del rito, ciò provocato dalla sofferenza della morte dell’Innocente Redentore. A tarda serata, con il calare delle tenebre, si snodava la Solenne Processione di Cristo Morto.
Erano tenuti alla partecipazione, oltre che il Vescovo, il Capitolo Cattedrale, i sacerdoti e i religiosi, anche tutte le “Congreghe” e le Pie Unioni cittadine e che, secondo un gerarchico criterio, precedevano il Carro del Cristo Morto. Si univano molte altre corporazioni cittadine, dagli artigiani ad altre categorie di sodalizi urbani, che puntualmente facevano a gara per la cosiddetta “Asta”, dove al migliore sodalizio offerente, veniva concesso il privilegio di portare la bara del Cristo Morto. I portatori indossavano rigorosamente smoking nero con camicia bianca e cravatta nera.
Si tramanda che, alcuni portatori, non avendo la possibilità economica di acquistare l’abito nero, se lo facevano dare in prestito dagli sposi novelli di quell’anno! Seguivano i devoti e quindi la statua della B.V.Maria Addolorata, vestita in nero, e portata a spalle dalle “Pie donne”, anch’esse in elegantissimo tailleur nero e guanti. Seguiva la storica famosissima Banda Verde di Nardò, e il coro delle voci bianche (donne, adolescenti e fanciulli), che cantavano il famoso Inno a Cristo Morto (“Sulla Salma insanguinata c’è l’ucciso Nazareno”), una marcia funebre composta dal Maestro Giuseppe Cacace (1828-1891) di Taranto intorno al 1850 e introdotto a Nardò dal suo concittadino il Vescovo neretino Mons. Giuseppe Ricciardi (1839-1908).
Il Venerdì Santo era solitamente – si racconta- una giornata uggiosa, fredda e con forti raffiche di vento, così denominata dalla gente di “Amarezza” tanto che si recitava un antichissimo detto: “Puru lu Signore sta chiange!”, riferendosi al cielo grigio e senza raggi di sole. La Processione terminava all’Alba del Sabato Santo, perchè percorreva quasi tutte le vie del Centro storico, e il suo arrivo era preannunciato dal triste rumore della “troccola” (è un idiofono a percussione diretta, un tipo di strumenti musicali popolari composti di una tavola di legno su cui sono installate delle “maniglie” in metallo. Agitando la troccola le maniglie metalliche percuotono il corpo in legno producendo un suono caratteristico. I fedeli che la suonano , ancora oggi, per rispetto si tolgono il cappello e al termine la baciano, in particolare nei punti in cui vi è impresso il simbolo della Passione. La troccola in alcuni luoghi prende il nome di crotola o crotalo).
SABATO SANTO
Era il giorno della Resurrezione e a mezzodì in punto tutti i fedeli, uomini e donne, si fermavano allo scoccare dello scampanio solenne delle campane – si diceva in vernacolo: “Quandu scapulavanu li campane!” che suonavano a festa per l’Annuncio di Pasqua. Tutti, indistintamente e obbligatoriamente, nessuno escluso, in qualsiasi luogo si trovassero, interrompevano ogni forma di attività per elevare la loro preghiera di lode e ringraziamento al Signore Risorto! I contadini, poi, nelle campagne, dismessi i loro attrezzi agricoli, si mettevano “a ginucchiuni”, prostrandosi a terra e togliendosi la “coppula”, antico segno di sudditanza feudale, diventato in quell’istante vero segno di sacra riverenza all’Unico Maestro e Signore Risorto.
*Un grazie speciale alla Signora Assunta – “Ninuzza” – Giaccari per il prezioso contributo reso alla stesura del seguente articolo, quale testimonianza vivente di quanto a noi trasmesso con ammirevole cristallina memoria.