di Nazareno Valente
Ora che siamo stati catapultati in uno di quei racconti di fantascienza in cui l’umanità lotta per la sopravvivenza, molte sono le domande che ci poniamo su un virus che occupa già gran parte dei nostri pensieri. Così, dando un’occhiata alle tabelle statistiche che caratterizzano la situazione nei vari Paesi, viene da chiedersi come mai in Italia il Covid-19 appaia di gran lunga più letale che in altre parti del mondo.
Per darsi una risposta, bisogna necessariamente risalire al momento iniziale, quando vengono definite le modalità con le quali il fenomeno in esame si presenta.
Un numero di per sé dice poco; assume un significato se sappiamo a cosa si riferisce, e questo riferimento deve essere chiaro ed univoco per tutti quelli che partecipano alla discussione. Soprattutto in statistica bisogna accordarsi bene sui termini utilizzati e sul significato da dare loro, in particolare quando si ha a che fare con le cosiddette variabili qualitative, tipo, ad esempio, il colore dei capelli. Se leggiamo che in un certo universo ci sono 100 che hanno i capelli di colore biondo, 870 bruno e 17 rosso, ci si potrebbe chiedere dove siano stati enumerati quelli che hanno i capelli di colore castano. Se chi ha compilato la statistica non l’ha indicato, ciascuno potrà stressare i numeri a proprio uso e consumo. Qualcuno potrà dire che i biondi sembrano pochi, perché i castani sono conteggiati con i bruni; altri, che i bruni sono sottostimati, perché i castani sono finiti con i biondi. E così via. Morale della favola, ognuno potrà tirare acqua al proprio mulino, e tutti potranno dire d’avere ragione. In definitiva, per venirne fuori, dobbiamo prima sapere con precisione cosa effettivamente s’intende per coloro biondo, bruno e rosso.
Tornando al caso specifico, alla domanda: come mai nel nostro Paese il Covid-19 ha un tasso di letalità di gran lunga superiore a quello riscontrato nelle altri parti del mondo? prima di rispondere, bisognerebbe chiedersi se tutti i Paesi hanno usato la stessa definizione di “contagiato”; e, se così non è stato, quali definizioni ciascuno ha adottato.
Alla prima domanda, direi proprio di no. Non a caso le tabelle non sono accompagnate da una legenda e questa circostanza chiarisce che un simile accordo preliminare non ci sia stato. Alla seconda, risponderei che lo sa il Cielo. Ed è già tanto aver scovato quale sia quella adottata dalle nostre autorità, perché in merito c’è un qual certo consapevole riserbo.
Comunque sia, da noi s’intende per “contagiato” da Coronavirus chi risulta positivo al test del tampone ed alla successiva valutazione dell’ Istituto Superiore della Sanità (ISS). Quindi vengono conteggiati i soli casi di positività da tampone, validati dall’ISS. In pratica solo chi ha il bollino dell’ISS è un “vero” contagiato; tutti gli altri, ai quali non è stato fatto il test, sono “sani”, come se non avessero mai contratto il virus, anche nel caso la malattia fosse stata diagnosticata in base ai sintomi.
Da questo assunto, deriva inoltre che solo chi ha bollino di contagiato da Covid-19 può morire per tale causa. Sicché, chi è escluso dai contagiati – perché non gli è stato fatto il test – non può conseguentemente far parte dell’aggregato dei deceduti da Coronavirus, e non farà parte delle statistiche relative.
Appare del tutto evidente che la via seguita dalle nostre autorità comporta una sottostima sostanziale del fenomeno, perché esclude qualsiasi caso non certificato dal tampone. In pratica è sufficiente, ad esempio, anche un banale ritardo nel fare un test perché diminuiscano i contagiati ed i decessi per Covid-19.
Questo modo di procedere può creare ulteriori problemi statistici, se rivisto in una diversa ottica.
Per semplificare, ipotizziamo che la persona X sia risultata positiva al tampone. A questo punto si ricostruiscono i possibili movimenti di X per verificare lo stato delle persone che sono venute in contatto con lui. Ad operazione conclusa, con questo gruppo di persone si potrebbe procedere in uno dei seguenti modi:
1) tutti sono sottoposti a tampone;
2) si tamponano solo quelli che manifestano sintomi ed il resto è posto in quarantena;
3) sono sottoposti a tampone sono quelli che manifestano sintomi evidenti; chi ha sintomi lievi o nessun sintomo è posto, invece, in quarantena;
4) non si fa nessun tampone, perché, quando il contagio è talmente evidente da poter essere diagnosticato a prescindere, non è strettamente necessario, e, quando i sintomi sono lievi o nulli, del tutto inutile; tutti sono pertanto messi in quarantena.
Evidente che, a seconda della procedura seguita, si avrà un numero diverso di contagiati; numero che andrà decrescendo dal punto 2) in poi, sino ad azzerarsi del tutto se la strategia seguita è quella del punto 4). In quest’ultimo caso si arriva a non ritenere contagiate persone che in effetti lo sono in maniera palese.
La questione fa sorgere anche domande non banali: come vengono curati questi contagiati non validati alla luce dei criteri dell’Istituto Superiore della Sanità? Sono lasciati in casa, insieme ai parenti che devono accudirli? oppure sono ricoverati in ospedale? Ed in quali casi si sceglie una via oppure l’altro? Nel caso di decesso, inoltre, non essendo stata accertata con il test la loro positività, le morti non sono attribuite all’infezione di Coronavirus ma a chissà a quale altra causa.
Sono quesiti che la statistica non può risolvere ma che servirebbe porre. Da un punto di vista statistico, si constata che una buona fetta di ammalati (e parte dei decessi) non viene considerata tale, e che quindi i numeri che giornalmente comunicati dalla Protezione civile tendano a sottostimare gli effetti dell’epidemia.
Potrebbe, però, ritenersi questo un ipotetico caso di scuola, e nulla più. Magari accademicamente interessante ma con nessun risvolto pratico, se non fosse che una prassi, almeno simile, pare sia stata effettivamente adottata.
Occorre a questo punto ricordare che il Ministero della Salute, con circolare del 25 febbraio scorso, ha raccomandato che “l’esecuzione dei tamponi sia riservata ai soli casi sintomatici”. Quindi c’è l’invito ministeriale a sottoporre a tampone solo chi ha manifestato sintomi, senza tuttavia esserci l’obbligo. Di conseguenza sussiste l’eventualità che qualche regione decida di non fare il tampone, neanche in presenza di sintomi.
Ed è quanto sembra di fatto avvenire o essere avvenuto. “Il Dolomiti”, nella sua versione in linea del 21 marzo, presenta un articolo, “Contagi da Coronavirus, il Trentino fa peggio di tutto il Triveneto”, a firma di Luca Andreazza, in cui si legge: “sappiamo che la Provincia di Trento non fa il tampone a chi si ammala e presenta i sintomi da coronavirus e vive con una persona che era stata già certificata positiva da tampone”. In parole povere, la malattia viene diagnosticata ma non accertata con il tampone, in quanto ritenuta evidente. Tant’è che per questa provincia esistono a quella data due quantità diverse di positivi: quelli validati (642), enumerati poi nelle statistiche tra i contagiati, e quelli complessivi (1067) che comprendono, invece, 425 casi che di fatto sfuggono ai conteggi statistici.
Come diretta conseguenza della definizione data all’aggregato, il dato dei contagiati – ed anche quello delle morti per Coronavirus – risulta qui palesemente sottostimato.
Ma non sono questi i soli motivi, non solo ipotetici, che inducono a credere che i contagiati siano molti di più di quelli validati dall’Istituto Superiore della Sanità. Concorrono infatti a crearli sempre le stesse indicazioni ministeriali sulla somministrazione del tampone che, come già riportato, si raccomanda di non usare nel caso di asintomatici.
In effetti un tale consiglio non pare avere alcuna base scientifica, visto che lo stesso Istituto Superiore della Sanità l’ha contestato a chiare lettera, e sembra piuttosto un marchingegno per non fare emergere il reale numero dei contagiati.
Nei pochi giorni in cui il tampone fu usato con maggiore libertà, si calcolò che gli asintomatici potevano essere quasi il 50% dei positivi, quindi approssimativamente in numero pari ai sintomatici.
Questa scelta, in definitiva, non solo dimezza il numero dei positivi – non ricercando gli asintomatici – ma rischia, alla lunga, di accentuare la diffusione dell’epidemia, in quanto non limita l’azione di potenziali veicoli di propagazione del virus.
Ne è prova evidente quanto si ricava confrontando i dati di due regioni – la Lombardia ed il Veneto – la cui omogeneità socio-economica e strutturale, anche riguardo alla organizzazione sanitaria, è talmente conclamata da accomunarle nell’usuale locuzione geografica di Lombardo-Veneto. Ebbene la Lombardia si è attenuta alla raccomandazione ministeriale lesinando sui tamponi; il Veneto, invece, le ha disattese somministrando, se del caso, il tampone anche a chi non presenta evidenti sintomi. Il risultato di queste diverse strategie è sotto gli occhi di tutti: pur in zone di fatto simili, la letalità del virus in Lombardia risulta del 16,17%, più di tre volte (3,41) superiore a quella del Veneto calcolata pari al 4,73%. Come dire che su 100 contagiati in Lombardia ne muoiono più di 16, mentre nel Veneto meno di 5.
Chiara indicazione questa che un uso ragionato del tampone porta a “stanare” i positivi, elevandone inizialmente il numero ma, alla lunga, frenando la diffusione dell’epidemia, ne limita gli incrementi.
Considerando questo effetto combinato si può calcolare che i contagiati in Lombardia non siano i 42.161 comunicati dalla Protezione civile ma, in realtà, proprio perché il tampone viene usato solo in presenza di sintomi, non meno di 130.000. Mentre in Italia i contagiati totali siano più vicini alle 250.000 unità e non certo agli 101.739 dichiarati.
Se poi si tiene conto che i contagiati da Coronavirus non validati dall’Istituto Superiore della Sanità hanno le stesse probabilità di non farcela di quelli certificati, si può ragionevolmente stimare che anche i decessi siano di più di quelli (11.591) di cui si racconta e probabilmente siano circa il 30% in più, quindi sulle 15.000 unità.
Concludiamo dando un’occhiata alla nostra regione.
In Puglia, il tasso di letalità del virus è attualmente pari al 5,32% mentre a livello nazionale è dell’11,39%; la somministrazione del tampone risulta alquanto diffusa (nell’86,95% dei casi riguarda negativi, contro il 62,04% della Lombardia ed il 91,17% del Veneto); i casi positivi coinvolgono lo 0,042% della popolazione, e quindi la diffusione dell’epidemia risulta molto inferiore a quella della Lombardia (0,419%) e distante anche da quella del Veneto (0,178%). Si deve però considerare che i numeri in gioco sono ancora gestibili. I problemi sorgono quando si debbono fronteggiare numeri ai quali le strutture sanitarie non sono nemmeno lontanamente calibrate e prossime al collasso. Come attualmente avviene in Lombardia, che pure è una zona tra le meglio attrezzate del nostro Paese.
La speranza è che nel prosieguo si voglia seguire la strategia del Veneto, con un uso diffuso del tampone per cercare ed isolare i casi di positività, e non quella basata sulla raccomandazione del Ministero della Sanità che ne riserva l’utilizzo ai soli casi sintomatici. Scelta questa che, temo, ha forse già fatto pagare un prezzo ben più elevato del dovuto.
L’articolato e apprezzabile ragionamento dell’autore non fornisce una risposta all’interrogativo accennato all’inizio “viene da chiedersi come mai in Italia il Covid-19 appaia di gran lunga più letale che in altre parti del mondo”.
Per di più, l’analisi, in conclusione, porta a ben più numerosi casi nel nostro Paese, sia come contagi sia come decessi.
Lo sconcerto è purtroppo grande.
Mi parrebbe del tutto implicito. Considerato che il tasso di letalità ha come denominatore i contagiati, i quali sono di gran lunga più sottostimati dei decessi (posti al denominatore) ne deriva che tale numero è di gran lunga inferiore a quello della tabella 1. Alla situazione del 30 marzo (l’articolo sarà stamani aggiornato con la situazione del 31 e quindi i valori si modificheranno di conseguenza) abbiamo al 30 marzo un tasso ufficiale di 11,39% (al 31 marzo sarà di 11,75%) e un tasso stimato del 6% (al 31 marzo del 6,15%) che è decisamente minore. Il che deriva evidente al di là dei conteggi che si sono per lo più voluti omettere perché le cifre saranno quasi ogni giorno aggiornati mentre l’articolo (con i suoi contenuti generali) rimarrà fermo alla situazione del 31 marzo. Buona giornata.
Oltre a quanto esposto nell’analisi, certamente corretta, bisogna aggiungere che l’identificazione precoce dei contagiati permette una più valida cura: se in ospedale arriva un anziano con polmonite bilaterale, pur in presenza di posti in terapia intensiva (cosa che durante i picchi è tutt’altra che certa), la prognosi del paziente sarà senz’altro peggiore rispetto a quella che vrebbe potuto avere in caso di cura in una fase precoce dell’infezione, magari trattabile con successo con antivirali.
Questo, a sua volta, farebbe calare il numero di posti di terapia intensiva necessari, perché alcuni pazienti potrebbero essere curati prima di averne bisogno, migliorando così la possibilità di sopravvivenza anche per i pazienti che comunque raggiungessero uno stadio critico della malattia.
Ma, oltre a questo, c’è un’altra osservazione che è necessario fare: indipendentemente dalla strategia utilizzata fin ora, non vi è nessun altro modo per uscire dal completo lockdown se non quella di ‘trace, test and treat’ (rintracciare, testare e curare) messa in atto dal Sud Corea e dalla Germania.
In sostanza, per avere un risultato efficace, questo tempo di lockdown deve essere utilizzato per potenziare la capacità diagnostica delle singole regioni – come già si sta facendo in Veneto e Toscana, con l’acquisto di macchinari che automatizzano l’analisi dei tamponi, permettendo di efettuarne molte migliaia al giorno; in tal modo, una volta abbassato l’effettivo numero di contagi, si potrà progressivamente ridurre le restrizioni ma potenziando la capacità di individuare i casi residui che indubbiamente ci saranno.
Altrimenti, non rimarrà che continuare con le misure di lock down per molti mesi, per evitare possibili recrudescenze, scelta questa evidentemente non sostenibile, dal punto di vista economico.
Mi trova del tutto d’accordo. Quel mio accenno a ciò che sta avvenendo in Lombardia e in Veneto voleva proprio trarre morali di questo tipo. Se non si cerca (limitandosi a fare pochi tamponi riservati a casi specifici), non si trova. E, se non si stana il male, non lo si può circoscrivere e curare. Di aspetti medici ho solo limitate conoscenze, tuttavia, ho il sospetto che siamo tutti delle potenziali mine vaganti che non possono essere tenute chiuse vita natural durante e che, pertanto, vanno quanto prima disinnescate. Ho reso in maniera banale il mio pensiero che mi pare sia in linea con quello che lei ha espresso con maggiore cognizione di causa. La ringrazio per il suo commento.