di Armando Polito
(Il fratello, credendo di consagrarle all’Eternità, con pessimo consiglio si risolvè di stamparle.)
Probabilmente la figura di Angelo Gorgoni sarebbe stata inesorabilmente avvolta dalle tenebre del tempo se non ci avesse lasciato memoria della sua vita il suo conterraneo Alessandro Tommaso Arcudi (1655-1718) alle pp. 68-69 della sua Galatina letterata uscita per i tipi di Giovambattista Celle a Genova nel 1709. Così in particolare: Ora di questa famiglia [Gorgoni] abbiamo veduto, e pratticato ne’ nostri giorni, ed in un secolo tanto nella mia Patria scarso, ed avaro di letterati, per eruditissimo Angelo Gorgoni. Egli doppo aver sedate alcune turbolenze insorte nella sua casa, e legatosi in stato matrimoniale, attese con ogni ardenza a fondare, e promovere l’Accademia degl’Irrisoluti: e diede sprone alla gioventù con gloriosa emulazione ad erigere l’altra de’ Risoluti. Più volte abbiamo inteso il Signor Angelo publicamente discorrere, ed in verso, ed in prosa, con applauso di tutta la radunanza. Ma doppo la sua morte a poco, a poco, l’una, e l’altra Accademia restano quasi dimenticate, e sepolte. Il suo fratello, e già Archidiacono D. Giovanni Camillo Gorgoni, soggetto che ancor vive in Napoli, al par di lui erudito, fece stampare alcune delle sue Poesie,col titolo di Melodie di Parnaso, risuscitando il nome del Signor Angelo dal sepolcro, nel quale fu chiuso nell’anno 45 della sua vita a 24 Febraro, e nel Bisestile 1684.
Sulle due accademie fondate dal Gorgoni l’unica, scarna fonte è l’Arcudi con questo passo e con un altro de Le due Galatine difese, raccolta di suoi diversi opuscoli fatta e pubblicata da Francesco Saverio Volante, per i tipi dello stesso editore di Galatina letterata, nel 1715. Le pp. 8-15 contengono un pezzo dal titolo L’autore a gli signori accademici Risoluti di Galatina e alle pp. 237-244 un’epistola datata 10 ottobre 1681, che così inizia: Cugino carissimo, desiderando V. S. di leggere le mie due composizioni poetiche, l’una latina, e l’altra volgare da me recitate contro le maledicenze del signor Musarò nella nostra Accademia, celebrata alle lodi dell’Apostolo Pietro principale Padrone, e protettore della mia Patria. E più avanti (p. 243): Dovete finalmente sapere, che l’Academia celebrata dall’Academici Risoluti, i quali fanno per impresa la fiamma, fu sotto gli auspici del Signor Sindico Angelo Mongiò, che fà per impresa la Luna, il quale qualche tempo fu travagliato da infermità di pazzia; che la mia impresa è l’Orsa stellata, che Galatina erge la Civetta coronata, alla quale Urbano VI aggionse le chiavi di Pietro e Gallipoli il Gallo. In quella radunanza erudita io presentai il libro del Musarò, leggendo publicamente l’accennate parole sue, sopra le quali facendo una breve perorazione, poi recitai quelle composizioni, che per ubidirla le invio. All’Arcudi si rifà Camillo Minieri-Riccio1 indicando come data di fioritura il 1715, cioè quello di pubblicazione del libro. Basta, però, una lettura superficiale dello stesso (a parte la lettera del 1681) per capire che gli opuscoli ivi raccolti erano stati preparati da tempo e che, quindi, conformemente alla testimonianza dell’Arcudi, a quella data (erano passati trentuno anni dalla morte del fondatore) l’accademia doveva essere estinta da un pezzo.
Del Gorgoni nulla sarebbe rimasto, dunque, se suo fratello Giovanni Camillo non avesse provveduto a pubblicare le sue poesie a quattro anni dalla morte nel volume intitolato Le melodie di Parnaso, uscito per i tipi di Michele Monaco a Napoli nel 1688.
La prima recensione che io conosco (e non ho certo la pretesa che questo mio scritto ne costituisca una sottospecie di ultima) è quella di Giovanni Battista Lezzi di Casarano (1754-1832), in Vite degli scrittori salentini , manoscritto (ms. D5) custodito nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi. A p. 462 (la numerazione non è per r/v), si legge: Per dire, che queste Poesie non sono lodevoli per alcun verso, basti il dire, che son del secento; ma l’Autore contento almeno di averle scritte non avea pensato di farne un regalo ai Posteri, o se avea avuto il desiderio di pubblicarle, non ne avea avuto il tempo, prevenuto dalla morte. Il fratello, credendo di consagrarle all’Eternità, con pessimo consiglio si risolvè di stamparle. Per osservarne il cattivo gusto, basta il leggere l’annesso sonetto ch’è de’ meno sciagurati.
L’autore ad Amico, che l’addimanda in che si trattiene, risponde.
Nacqui Cignoa, son Cigno. A Cliob che volle/
amico avermi, son’amico ancora;
amo la vita mia sempre canora
giachec sempre al mio core un spirto bolle.
Non mi ribellod dall’ Aonioe colle
per altri monti a divagar tal’ora:
ivi l’anima mia note migliora,
ivi l’alma erudita i versi estollef.
Umor Castaliog in urnah breve accoglio,
in cui disseto la mia penna, in cui
trovo materia d’eternare il foglio.
Se pianse Anchise e ne’ disastri sui
disse Fummo Troiani, io dir non voglio,
Non son Poeta se Poeta fui.
_____
a Appellativo di musicisti e poeti.
b Una delle nove Muse, protettrice della storia e della poesia epica.
c Per giacché, ma la forma (nata da già che) era di uso normale in testi a stampa del XVII e del XVIII secolo.
d non rinuncio
e dell’Aonia, regione montuosa della Beozia dove le Muse avevano la loro sede.
f innalza.
g della fonte Castalia, che prese il nome dalla fanciulla che si suicidò gettandovisi per sfuggire ad Apollo. In essa si purificavano i pellegrini che si recavano a Delfi per consultare l’oracolo del dio. Dai poeti romani era ritenuta ispiratrice di poesia. Quindi tutto il verso sta per attingo l’ispirazione con un piccolo vaso (difficile dire se il riferimento è alla limitatezza delle sue capacità di captazione o alla brevità dello schema metrico preferito, che è, qui come negli altri componimenti, il sonetto).
h vaso.
Premesso che le note di commento per questo sonetto e per i successivi sono mie, debbo rilevare che il Lezzi con quel suo basti dire che son del secento mostra di essere condizionato dal pregiudizio più banale in cui sovente cadiamo, non solo quando si tratta di dare il giudizio su un prodotto letterario: tutto ciò che non esprime il gusto del nostro tempo è da buttar via, quando, al contrario, ma non vale per il nostro caso dato l’esiguo lasso di tempo esistente tra il poeta ed il suo critico, non ci ergiamo a laudatores temporis acti. Da questa premessa ne consegue la stroncatura di un componimento che, pure, è considerato tra i meno sciagurati. Probabilmente il Lezzi non poteva tollerare quelle che a lui apparivano come oziose ripetizioni talora accoppiate a figura etimologica (Cigno nel primo verso, amico nel secondo con la figura etimologica di amo nel terzo, colle e monti rispettivamente nel quinto e nel sesto verso, anima nel settimo e alma nell’ottavo, poeta nell’ultimo. E dovettero sembrargli una prova di presuntuosa sicurezza gli ultimi tre versi, compreso, ad aggravarla, il ricordo virgiliano del primo di essi. È del poeta il fin la meraviglia, parlo dell’eccellente e non del goffo, chi non sa far stupir vada alla striglia! predicava Giambattista Marino, il pontefice della poesia barocca. Certamente il Gorgoni non è un cigno, ma non si può nemmeno invitarlo ad andare alla striglia senza dare uno sguardo integrale al suo volume che comprende componimenti che, secondo il Lezzi, probabilmente, sarebbero da considerare tutti più o meno sciagurati.
Per corroborare quanto affermato nel commentare questa poesia che nel volume è a p. 26 e perché il lettore si faccia una sua idea, propongo un estratto dell’imponente produzione2.
Comincio con un sonetto in cui l’autore, ben lungi da quella presunzione che una lettura superficiale del precedente indurrebbe a rilevare, mostra chiara consapevolezza dei suoi limiti (questa volta qualcuno lo accuserà di ipocrisia e falsa modestia? …) pur invocando a compensazione una certa correttezza morale e religiosa.
(p. 4) Per le sue Poesie, mentre vanno alle Stampe3
Ite innocenti mie dolci fatiche,
ne’ torchi amici à miglior vita haverne;
voi della penna mia già figlie antiche,
voi della Cetra mia note moderne.
Se le lingue de’ Savi havrete amiche,
poco vi cale di chi mal discerne.
Non Elene corrotte, et impudiche
v’accoglie Apollo in sù le sfere eterne.
Vergine la mia Clioa, però modesta,
a suon di corde d’or vita vi diede,
e, mentre v’adornò, la man fù onesta.
Quanto spetta al decoro, in voi si vede,
quanto a pena Cristiana, in voi s’innesta;
vi diede un Cigno purità di fede.
_________
a Vedi la nota b del componimento precedente.
Il sonetto che segue si direbbe quasi premonitore …
(p. 5) Per chi cenzura , e non scrive
Mille Zoilia vegg’io, che a’ Greci Omeri
mordono i fogli, et è livor lo sdegno;
di mille anco Aristofani severi,
che de’ Socrati ognor ridonsi à segnob.
Veston ali di cera i lor pensieri,
né giunger ponno della Fama al Regno.
Inutili di Palladec Guerrieri,
hanno l’armi alla lingua, e nò all’ingegno.
Chi commenzal d’Apollo oggi si spanded,
Pindaroe non fù mai. Né bene accenna
che delibòf col Dio sacre vivande,
non sà, chè fiero il Mar, chi mai l’Antennag
d’un pinh guidò. Né sà, che peso è grande
chi Atlantei non provò Cielo di penna.
________
a Zoilo fu un grammatico greco del IV secolo a. C., autore di un’opera, andata perduta, in cui criticava ferocemente i poemi omerici.
b Aristofane (V secolo a. C.) nella commedia Le nuvole ironizza su Socrate e i Sofisti.
c Dea protettrice delle arti.
d vanta
e Poeta lirico greco (VI-V secolo a. C.) famoso per i suoi voli, cioè ardite, improvvise digressioni.
f gustò
g l’albero
h nave (metonimia: invece dell’oggetto, la materia di cui è fatto).
i Zeus, che era figlio di Crono, lo costrinse a reggere sulle spalle la volta celeste per punirlo di essersi alleato con Crono per guidare o titani contro gli dei dell’Olimpo.
Proseguo con i sonetti dedicati agli animali.
(p. 31) La formica
Quando Sirioa più avampa, e ‘l fier Leoneb
co’ suoi raggi infocati il Mondo accora,
sbucata da mia concava magione,
de’ bruti in compagnia lodo l’Aurora.
Provedo a’ casi miei nella stagione
dell’ariste indorate avida ognora.
E per assimilarmi cal dio Plutone,
furo a Cerere afflitta i frutti ancora.d
Non di villano cor m’agghiaccian l’onte
Caccoe di brieve corpo. Io sono amante
delle bricef disperse, e lui del fonte.
Rispetto al corpo, alle minute piante,
s’ogni peso che porto appare un monte,
benche il nano de’ vermi io sono Atlante g.
___________
a É la stella più luminosa della costellazione del Cane e nel periodo della canicola (24 luglio-26 agosto) sorge e tramonta con il sole.
b Il sole è nel suo segno tra il 23 Luglio e il 22 Agosto.
c rassomigliare
d Allusione al mito di Cerere, la cui figlia Proserpina fu rapita da Plutone.
e Caco viveva in una grotta dell’Aventino e terrorizzava i vicini con i suoi furti. Fu ucciso da Ercole, al quale aveva rubato dei buoi.
f briciole
g Vedi la nota i del componimento precedente.
(p. 32) La mosca
Chi regal mi dirà!! Chi mi condanna
plebea frà tanti piccioli animali!
D’aquilino color vestendo l’ali,
ogni fisonomista in me s’inganna.
Se turbo il sonno altrui, sono tiranna;
arpiaa, se cene infestob a’ commenzali.
I Monarchi, i Plebei fò tutti eguali,
succhio a questi l’erbette, a quei la manna.
Mio Tron, è un volto in cui me spesso assentoc,
né temo, che mi fuga, indi importuna,
con flagello di carta ira di vento.
La sorte è a me, né lucida, né bruna;
con vicende di Fato, io m’alimento
in desco di Miseria, e di Fortuna.
___________
a Le Arpie erano creature mitologiche col volto di donna e il corpo di uccello. Erano specializzate nel saccheggio delle mense.
b invado
c siedo; qui l’autore, che non era certo un indotto, si è preso la licenza, dovuta ad esigenza di rima, di scambiare assido (da assidere) con assento (da assentire), attribuendo a quest’ultimo il significato del primo.
(p. 122) Lamenti d’un Bue
Su l’apparir de’ matutini albori
m’intima a fatigar bifolca mano,
e interrotti i placidi sopori,
o le valli coltivo, o solco il piano.
Trovo circonferenti i miei sudori,
se dura sfera è l’esercizio humano,
né pietade provede a’ miei languori,
che le leggi ad un Bue fa Re villano.
Son’io, che copro i semi, io che raccoglio
le ricche biade; e se talor mendico
cibo, lo porge rusticano orgoglio.
Riposa altrui nel vitupero antico,
io naufrago operando; e sì mi doglio,
che fra tanti cornuti io sol fatico.
(p. 142) L’Aragno
Priva di penne, ove convengon l’ali,
lega debol fil da muro, in muro,
e fabra, e spola: aggroppa i stami uguali,
Dedaloa verme ,c’ha veleno impuro.
Mille Tesei volanti, i dì fatali
chiudono a morte al carcere spergiuro,
e, fallace Arianna a loro mali
porge stami, e lo scampo è men sicuro.b
Pesca senz’amo, sù dell’Etra al Marec;
dalle viscere sue l’esche raduna,
fatte le reti Rie fila già rare.
Se ‘l cerchio indi le squarcia Aura importuna
meraviglia non è, che sempre appare
chiara incostanza a Rota di Fortuna.
_____
a L’inventore del labirinto, cui la tela del ragno somiglia.
b Allusione al mito di Teseo che uccise il Minotauro (rinchiuso da Minosse, re di Creta, nel labirinto) grazie all’aiuto di Arianna, figlia del re , la quale lo dotò di una matassa che, srotolata, permise all’eroe di uscire dal labirinto.
c dal cielo al mare
(p. 152) Il Gallo
Quando avanzano al dì brievi momenti,
la notte invoco à seminar gli orrori.
Ristorate dal sonno al fin le menti,
desto l’Aurora à dispensar gli albori.
Animato Orologgio: io balbia accenti,
rinforzo audace, e fremiti sonori,
invito à sursib effeminate genti.
Sono Metro del Tempo, e degli amori.
Coronato volante: à me natura
della prosapiac mia fidò l’impero,
altro che vigilar non è mia cura.
Iride hò nelle piume; e sempre altero
se co ‘l canto protestod ogni bravura,
degli Augelli son’io tromba, e Guerriero.
________
a Forma sincopata di surgersi(levarsi dal letto)
b balbettanti
c stirpe
d mostro
(p. 166) Per una sanguettolaa, morta sopra il braccio di bella Donna
Dai neri stagni, in lucida prigione
altri ti chiuse, di salute un Angueb,
acciò, svenando agl’innocenti il sangue,
fusse de’ vermi un fisico Neronec.
Mentre l’arte di Cood savia t’impone
mordessi il braccio à Lilla mia che langue:
avida, e tu, per non sentirla esangue,
fustee di sua salute empia cagione.
In picciolo Eritreof, tue rabbie absorteg,
inerme Faraon vedesti; e ‘l male
che ondoso s’annegò, anco fù forte,
ma, felice imparasti empio animale,
per non mutarti in cenere la Morte,
con i balsami suoi farti immortale.
________
a sanguisuga; all’epoca il salasso tramite sanguisuga era una delle terapie più usate in varie malattie. Sanguettola è diminutivo di sanguetta, voce regionale settentrionale.
b serpente
c Qui l’imperatore è assunto per antonomasia a modello di sanguinario.
f Il globulo rosso, scoperto da poco (dall’olandese Jan Wammerdam nel 1568).
g scatenate
(p. 236) Si paragona all’Ape
A te, ch’ali dorate Ape ramingo
apri a i raggi del Sol, Clotoa de’ fiori
e guerriero oricalcob, a’ tuoi clamori
coorti aduni, a parità mi fingo.
Tu nel fumo patisci, e io mi stringo
del Dio ch’è ciecoc ai fumiganti ardori,
tu favi ammonti, ed io con atri umorid
armoniche dolcezze al Mondo pingo.
Tu volante destrier sù l’Etrae biscif,
io di Marte scrivendo, or pugno, or giostro,
tu i Prati adori, io d’un bel volto i lisci.
Così, troppo uniforme è il viver nostro,
mentre noi stizza altrui: pronto ferisci
tu con ago mordace, io con inchiostro.
__________
a Era la più giovane delle tre Parche e il suo compito era quello di filare lo stame della vita.
b tromba
c Amore
d inchiostro
e nell’aria
f sibili
Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/28/angelo-gorgoni-1639-1684-di-galatina-e-una-stroncatura-forse-immeritata-1-2-2/?fbclid=IwAR3hwtlMSi_n1I7kvSJXU7n8M46Vpo52XgZLvcszVuz9X1gGqY8zfXTVexM
________________
1 Notizia delle Accademie istituite nelle Provincie Napolitane in Archivio Storico per le Province Napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, p. 147: Galatina. L’Accademia col nome di RISOLUTI fioriva tuttavia nell’anno 1715 in Galatina, e facea per impresa una Fiamma3. E in nota 3: Vedi ALESSANDRO TOMMASO ARCUDI a p. 8, 237 e 243 del suo libro Le due Galatine difese, che stampò in Lecce nel 1715 colla falsa data di Genova e col finto nome di Saverio Volante.
2 Sono 312 componimenti: 270 sonetti, 37 epigrammi e 5 altri di maggiore estensione. Due suoi sonetti , inoltre, si trovano inseriti, in lode dell’autore, in Vita e miracoli del glorioso S. Saba, di Onofrio Guido di Castrignano dei Greci, opera uscita per i tipi di Pietro Micheli a Lecce nel 1861 (le pagine non sono numerate).
3 Scrive il fratello nell’avvertenza al lettore che i sudori di mio fratello furono valevoli, accelerandogli il suo dì fatale, a privarlo della luce; e più avanti che si tratta di opere … la maggior parte ritrovate abbozzate trà misere cartuccie … Se, dunque, questo componimento non è un topos obbligato, Angelo aveva intenzione di pubblicare la sua fatica ma la morte glielo impedì.