di Valentina Pagano e Riccardo Viganò
Il territorio di San Pietro in Lama è stato da sempre vocato alla lavorazione e produzione di manufatti ceramici in quanto ha saputo sfruttare la conformazione geomorfologica del territorio in cui insiste, un’area del Salento nota come Valle della Cupa. Qui la presenza di terreni fertili, unita alla facilità di reperimento di argilla e d’acqua, ha incoraggiato la frequentazione e lo sfruttamento del territorio da parte dell’uomo sin da tempi antichissimi.
La propensione alla produzione ceramica è insita nel DNA di questo centro produttivo. La sua importanza sul territorio salentino la possiamo dedurre in già “antiquo” dal nome con cui San Pietro in Lama era noto in passato, vale a dire “degli Imbrici”.
Nel 1580 il domenicano Egnazio Donati, su commissione di Papa Gregorio XIII, realizza le Tavole Geografiche d’Italia e nella sezione dedicata alla Sallentina Peninsula il paese viene denominato come “San Pietro dell’Imbrice”.
Osservando la carta si denotano errori legati alla corretta ubicazione del centro ; tuttavia è importante sottolineare che all’autore interessa evidenziare, a scapito dell’esattezza geografica, l’attività prevalente degli abitanti, vale a dire la produzione su vasta scala di laterizi. Un’ industria questa che caratterizzava ed interessava non solo il tessuto ma anche il disegno del centro abitato tanto che i camini delle fornaci sono ben evidenziati nella tela del XVII secolo, conservata sull’altare maggiore della chiesa della Madonna dell’Immacolata o della Croce, in cui si raffigura S. Irene che protegge dai fulmini il piccolo casale con la città di Lecce .
L’aspetto geomorfologico del territorio viene evidenziato da due cartografie, eseguite nel 1567 e nel 1595 dal cartografo veneziano Jacopo Gastaldi, dove il centro di San Pietro viene definito una prima volta di “Busi”, forse un richiamo all’attività di estrazione dell’argilla attraverso gallerie, e nella seconda stesura “Buli”, per la presenza di bolo.
La materia prima, l’argilla, veniva estratta nei terreni vicini all’abitato che si è sviluppato su sabbioni tufacei addossate ad argille giallastre e turchine. I banchi di argilla sono documentati in località S Anna e Cave dove, fino alla metà del ‘900, si potevano osservare gallerie sotterranee dalle quali si estraevano zolle di argilla giallastra che venivano, successivamente, lavorate nelle botteghe dei figuli.
Un’altra area di estrazione era sita in località Purtune Russu: qui vi erano cave di argilla azzurrina e bolo .
In assenza di dati provenienti da scavi archeologici, una fonte preziosa per la ricostruzione del passato recente del nostro centro sono le ricerche eseguite alla fine degli anni sessanta dello scorso secolo, dagli studiosi tedeschi Hampe e Winter, i quali si recano nei vari centri produttori presenti nel Salento, tra cui San Pietro in Lama, per studiare le tipologie di fornaci e i tempi di cottura del materiale ceramico prodotto nelle botteghe tradizionali ancora efficienti.
Da essi veniamo a conoscenza che nelle botteghe erano attive delle fornaci di tipo verticale, presenti anche a Cutrofiano, definite dagli stessi studiosi di tipo “salentino” . Oggi, tuttavia, di questa tipologia di fornace a San Pietro in Lama non sembra esserci più traccia. Solo negli atelier appartenenti ad antiche manifatture site nella periferia nord ovest del paese, in località Purtone Russu, sono ancora attive fornaci a combustione simili a quelle antiche, ma tipologicamente diverse dal primo esemplare in quanto costruite con una forma ed una tecnica che richiamano quelle di origine grottagliese, importate nel basso Salento da figuli proveniente da Grottaglie nella prima metà dell’800.
Le botteghe, in passato, erano concentrate nel cuore dell’attuale centro storico, con Nardò, quasi un unicum in Puglia. Ogni quartiere aveva nel suo interno uno o più atelier ceramici.
Il centro storico coincide con lo sviluppo urbanistico che il paese aveva già ben definito agli inizi del Seicento. In questo periodo si possono riconoscere i seguenti quartieri: isola di S. Antonio Abate, protettore dei ceramisti, il quartiere più antico; l’isola di S. Nicola, così chiamata per la presenza dell’omonima chiesa abbattuta sul finire dell’800 per favorire l’ampliamento di piazza del Popolo; l’isola delle Amendole; l’isola di S. Giovanni e l’isola di S. Stefano.
In generale, le botteghe erano prossime alla casa in cui il figulo abitava, di solito confinanti ed in simbiosi con laboratori di conciatori di pelli e saponari per via della grandissima facilità di reperire a poco prezzo la cenere. A causa dell’interdipendenza di botteghe di diverso utilizzo ed altamente inquinanti a volte accadevano disordini, legati alla carenza di igiene, che davano fastidio alla comunità e che portavano a delle soluzioni abbastanza drastiche.
Accadde, ad esempio, che nel 1753 a ridosso della festività patronale, per porre fine a questi continui “litigi, disturbi e pubbliche irrequietudini”, l’Universitas di Lecce decise di demolire alcune di queste botteghe inviando sul posto l’ingegnere ebreo Mosè per far eseguire quanto stabilito. Dai documenti sappiamo che le botteghe demolite erano di proprietà della famiglia Andriolo e di Vito Pascali, ed erano ubicate lungo la strada che collegava la piazza con la chiesa della Madonna della Croce, vicino alla piazza del mercato .
Ad un esponente della famiglia Pascali, il maestro Pietro, si deve la realizzazione di uno dei manufatti più noti della produzione di S. Pietro in Lama. Si tratta del boccale a sorpresa, il cosiddetto “bevi se puoi”, oggi esposto nella Pinacoteca Barocca “Antonio Cassiano” del Museo Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce. Il boccale, rispetto ad altri esemplari della stessa tipologia conosciuti, si distingue per una filastrocca che accompagna il gioco della passatella, scritta e firmata dallo stesso Pascali nel 1750.
Il testo dice:
“Da qui sopra entra il vino Lo vedete e lo sentite
E se bevere volete bisogna fatigar
Cercate e provate quell’ingegno bello e caro
Ma se io non vi la imparo
Solo viento e ci escerà.
IO M. PIETRO PASCALI SAN PIETRO IN LAMA – 1750.”
Grazie a questo esemplare e ad antichi documenti riguardanti l’antico Monastero di S. Chiara di Nardò sappiamo che San Pietro in Lama non era specializzato solamente nella produzione di laterizi, come mattoni, tegole e coppi, appunto “imbrici”, ma anche di ceramica d’uso e da dispensa. Si producevano, infatti: “mortai”, “catini” e “limbe per fare la colata” etc., piatti e boccali smaltati e decorati come il nostro “bevi se puoi”. La produzione, nonostante il basso numero di botteghe presenti, e la diversificazione di fatture, riusciva a soddisfare non solo le esigenze della vicinissima città di Lecce, ma anche quella di altri importanti centri vicini, come la città di Nardò e Copertino .
È bene evidenziare che l’elenco dei ceramisti qui dato, per il periodo compreso tra il Seicento ed il secolo successivo, data l’alta mobilità di manodopera specializzata, potrebbe risultare incompleto perché non tutti i ceramisti esistenti ed operativi a S. Pietro in Lama sono registrati come tali nella documentazione ufficiale in nostro possesso.
La contestualizzazione delle botteghe dei secoli passati viene mantenuta anche nell’Ottocento.
Dallo studio dello Stato dei Patentati di questo centro produttivo, redatto durante il periodo napoleonico a cavallo degli anni 1811 – 1815, non solo la distribuzione delle botteghe rimane invariato, ma anzi da una lettura complessiva di questo elenco, si evince come a San Pietro in Lama ci fosse uno dei centri con più manodopera specializzata registrata, dopo i centri di Cutrofiano e Grottaglie in Terra d’Otranto.
La decadenza degli atelier ceramici, se di decadenza possiamo parlare, comincia quando Angelantonio Paladini imprenditore già Sindaco di Lecce nel 1866, fondò nel 1872 nella sua villa esistente nel territorio di San Pietro in Lama una manifattura ceramica che dava lavoro a più di 150 impiegati, (agli inizi reclutati dall’area napoletana) e nella quale si fabbricavano, tra l’altro, maioliche artistiche (firmate Manifattura Paladini- Lecce).
Fu un esperimento questo destinato ad avere breve durata, difatti si concluse solo nel 1896, quando la fabbrica chiuse i battenti a seguito della morte del fondatore .
A questa quasi feroce industrializzazione alla quale sopravvive si aggiunge la crisi del settore avvenuta con l’introduzione dei materiali plastici i quali a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, fecero decadere usi poveri e tradizioni pluristratificati da secoli, a favore di una più agiata “modernità”.
A tutt’oggi nonostante le crisi di settore, e la mancanza di vocazioni all’arte, questa tradizione fatta di argilla acqua e fuoco, viene portata avanti dagli oramai rari discendenti di queste famiglie che da secoli con Orgoglio si trasmettono da padre in figlio segreti alchemici di quest’arte millenaria.