di Armando Polito
La condivisione, come tutti i concetti umani, ha una connotazione morale neutra, nel senso che sarà l’applicazione concreta a decidere, sulla scorta di ciò che la nostra razza, troppo spesso per unanime, ipocrita convenzione che per sincera e responsabile convinzione, avrà fatto in concreto, se condividere, come anche il suo contrario, dissociarsi sia un bene o un male. Se qualcuno mi chiedesse un vocabolo o una locuzione sostitutiva di “rete” direi senza pensarci su troppo, “condivisione digitale”. Già quella non virtuale aveva i suoi inconvenienti: riferendomi, per esempio, alla pubblicità, sono veramente sempre sicuro dell’affidabilità del passaparola relativamente alla bontà o meno di un prodotto? Pagheremo di persona, questo è certo, l’esserci fidati e pure il suo contrario e, se non siamo idioti, dopo essere rimasti disgustati, mettiamo, da un prodotto alimentare consigliatoci da un amico, non consumeremo più quel prodotto e ci terremo l’amico? Ma al mangiare, diventato sempre più freneticamente convulso e disordinato, della vita reale, corrisponde il fagocitare di quella virtuale e, come tendiamo a rimpinzarci di quel certo cibo di una certa marca che in quel momento è di moda, così tracanniamo, senza pensarci su almeno tre volte, tutti i bocconi che la rete ci offre: ora genuini, ora artefatti, ora scientificamente fondati, ora giullarescamente fantasiosi , e chi più ne ha più ne (im)metta. Finché il social non è esistito, il rischio della diffusione del letame culturale (che non fa bene al cervello come, invece, quello reale fa bene alla terra) si limitava in partenza a qualche blog personale (in cui non mancava qualche banner a farti l’occhiolino …) in partenza e nella credulità dell’internauta in arrivo. Quest’ultimo, però, se avesse voluto rendere partecipe qualche amico dei contenuti che avevano suscitato il suo entusiasmo, avrebbe dovuto annotarsi l’indirizzo e passarglielo: operazione troppo complicata per diventare abituale. Con il social la musica cambia, perché basta un semplice clic per condividere con tutto il mondo qualcosa di veramente nostro o spacciato come tale (senza citazione dell’autore per pigrizia o, più spesso, per malafede) o qualcosa che altri a loro volta hanno condiviso con noi; e in qualche caso con effetti esilaranti … (https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/20/uno-scherzo-da-prete-anzi-da-cardinale-no-unidiozia-made-in-web/).
Com’è noto, il reato di plagio riferito ad una persona è stato cancellato dal nostro ordinamento, ma permane, almeno sulla carta, quello riferito all’ambito artistico in generale ed a quello letterario in particolare. Se lo sfruttamento commerciale di un’opera altrui era in passato facilmente perseguibile avendo tra le mani il corpo del reato (la pubblicazione plagiata), con l’avvento della rete l’operazione risulta molto più complicata perché spesso la creatura spacciata per originale è un mosaico frutto di un copia-incolla in parecchi casi, fra l’altro, pateticamente maldestro.
La stessa rete, però, a dimostrazione che anche un raggio laser può incenerire un corpo o guarirlo, offre lo strumento, a chi ne ha tempo ma soprattutto voglia, di smascherare l’inganno tramite l’accorto uso di motori di ricerca sempre più sofisticati.
Il caso contemplato nel link prima segnalato è a tal proposito emblematico, ma quello che sto per proporre è ancora più interessante e, per certi versi, scandaloso1, nonché la riprova che il proverbiale vizio del lupo è congenito, invece, alla nostra razza …
La Biblioteca arcivescovile Annibale De Leo di Brindisi custodisce, fra l’altro, manoscritti, alcuni dei quali, digitalizzati ed immessi in rete, ho potuto sfruttare più di una volta2.
Potrei definirlo, in base alle conclusioni che ho tratto, Dossier Tresca. Prima di entrare nel cuore dell’argomento, non guasta qualche immagine.
Chi volesse leggere integralmente quello che riguarda il post di oggi, lo troverà all’indirizzo http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209704&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU.
Inizio con quello che può essere considerato a tutti gli effetti (lunghezza compresa, non certo eccezionale a quei tempi) un frontespizio.
Descrizione della Giapiggia in lingua Toscana formata d’Achille Tresca di Lecce per servizio, ed uso del Real Infante D. Carlo IV Borbone, Dio gratis, degnissimo Real Figlio di D. Ferdinando IV, che il Ciel feliciti, Invittissimo Monarca, Re delle due Sicilie, di Gerusalemme, Infante delle Spagne, Duca di Parma, e Piacenza , e Castro, Gran Principe di Toscana, e Suoi Gloriosissimi Antecessori. Nella medesima opera l’Autore dedica ed offre venti sonetti, e due sestine alla R. M. di D. Ferdinando IV, Real Progenitore del sopra nominato Reggio Infante. 1775
(carte 4r-5v; la foto seguente si riferisce alla 4r, la trascrizione a tutte)
Cinque lettere responsive, che forma l’Autore in lingua toscana, e le dirigge per la volta di Vineggia ad un tal Ettore Morosini, chi dimanda d’aver qualche distinta notizia della Giapiggia, come familiarissimo Amico del medesimo.
Allorché, Sire, mi surse talento di pregare S. R. M., Dio gratiis, a concedermi la grazia, ed a darmi l’onore di poter io dedicare La descrizione della Nostra Giapiggia al vostro Reale Infante, e nostro Novello Padrone, fu sorpreso il mio cuore da un eccessivo piacere, perché conobbi avverato quel, ch’egli innanzi tratto presagito m’avea, val quanto dire, che la nostra Padrona, che il Cielo la conservi, e la feliciti, infantar si dovea, e produrre alla luce un Real Bambino; tanto più crebbe in me la gioia, ed il contento in aver io la bella, e vaga sorte di vedere assicurati li vostri Regni, e Domini colla perpetuità della Prole, e di godere noi il gran vantaggio d’essere perpetui Vassalli, come di Vostra Real Maestà, così ancora della di lei Real Progenie, per lo mezzo della nostra discendenza. Io non ò tralasciato, come tuttavia non cesso, di porger grazie all’Altissimo per un tale felice avvenimento; gli avanzo di continuo le mie preghiere per la conservazione di S. R. M., e per quella del suo Real Figlio, affinché in processo di tempo se ne veda Progenitor contentissimo; e noi altri suoi fedeli Vassalli possiam godere gli effetti, non solo di vostra protezione, m’ancora di quella del vostro Reale Infante in staggione così lieta, e tranquilla, com’è la nostra, perché parmi rinovellato l’aureo tempo de’ Cesari, e dell’Augusti. Mentre ch’io ero dalla grande allegrezza scosso, ed aggitato, mi ritenevo nel chiuso recinto della mia stanza brillandomi il cuore in petto fuor dell’usato per lo soverchio impiacimento alla novella del felice successo , quando mi si fe’ presente la mia musa, ed in atteggiamento di leggiadra, e veneranda donna venn’ella meco a parte della mia consolazione, poiché fattamisi d’appresso tutta lieta, e festante, dettandomi in una notte, ed in jn giorno sessanta sonetti, e sei sestine, dieci de’ quali, ed una sestina ò stimato i situarli nel principio della descrizione della Giapiggia, ed altri dieci con un’altra canzone nell’ultimo luogo della medesima. Il rimanente lo serbo io presso di me, per non recar noia, ed infastidire S. R. M. colla lunghezza, e coll’inculto stile de’ miei rozzi versi. Va’ mi disse ella, che là dove ptterai dedicar la descrizione della Giapiggia al nato Infante Reale, parmi ben convenevole di offerire alla R. M. di Ferdinando IV, di costui Real Progenitore, quel che ora io ti detto. Dopò di chè ottenutami la promessa, si dileguò in aura la musa, e mi si diè l’aggio di esemplarne la copia delli seguenti versi, quali a S. R. M. gli presento, ed umilio. Sire, conosco molto bene di qual castigo sia degno colui, che alla sua musa oppone, e contrasta: quindi per obbedirla, mi convenne fargli alla M. S. presenti . Ma mio malgrado, perocché stimo di essere troppo grande l’audacia di quei vassalli, che s’ingegnano di lodare in prosa, od in verso la virtù del loro Monarca, essendo questo qual chiarissimo Sole, che dapertutto scintilla, e risplende. Egli è un Vicedio della Terra, cui deesi prestar cieca ubbidienza, e rispettoso omaggio da’ suoi Vassalli; ma incoraggisco il mio spirito ad umiliarle i qui descritti versi, non per altro motivo, se non se, per dimostare al mondo la fedeltà. e devozione di un suo umilissimo, e sincero suddito, qual’io sono, e protesto; ed oltre a ciò le porgo tal proferta benche tenuissima, affinché i Lettori della descizione della nostra Giapiggia possano in verità rilevare, che alla bellezza del sito della medesima, alla moltitudine de’ prodotti corrisponda assai bene il Real Valore del Padrone, che la possiede, qual’è S. R. M., di cui umilmente ne imploro la protezione.
Seguono (carte 5v-12r) 5 sonetti e una sestina e ancora 5 sonetti. Per motivi di spazio, già prima emersi, da ora in poi riporterò solo la trascrizione dei brani che ci interessano.
(carte 13r-16r)
Cinque lettere responsive, che forma l’Autore in lingua toscana, e le dirigge per la volta di Vineggia ad un tal Ettore Morosini, chi dimanda dall’Autore d’aver qualche distinta notizia della Giapiggia.
Lettera prima
Ecc.mo Sig.re
A me medesimo rincresce, ed il mio cuore è da gran cordoglio trafitto, quando meco stesso considero d’essersi in parte spenta, e pressoché dell’intutto dileguata la gloriosa rimembranza, ed il celeberrimo nome della nostra rispettabile Reggione, talché se vestiggio alcuno, per così dire, o reliquia di gran Cittadi in parecchi luoghi si scorda, ciò però non ostante se n’è smarrito il sentiero,e se n’è confusa la traccia, né rinomata alcuna sovrasta, o delle orrevoli cose intraprese, o delle Città medesime, o di alcune lettere particolari, onde gli nostri Giapiggi si servivano, innanzi tratto, che i Greci qui calassero appresso il Troiano Eccidio. Questa è del Mondo la variabile incostante vicenda. Corrono a dileguarsi le cose de’ Mortali, non altrimenti, che lieve soffio d’aura passeggiera, o pur qual nebbia, qual ombra, o qual fugace sogno, il vorace tempo tutto rode, e consuma. Penzo io, che la nostra Giapiggia fusse stata molto gloriosa, e di celeberrima fama poco prima del Troiano diroccamento . Ripigliò la medesima forza, e vigore dopo l’arrivo di Lizzio Idomeneo, e de’ Spartani, e di Falanto, vergando i Greci il tutto sù delle carte, per li autentici monumenti delle lettere. Di belnuovo li Goti, indi li Longobardi occupando l’Italia a richiesta de’ Greci, o piuttosto de’ Romani, ogni Reggione, ch’era nel mezzo dell’uno, e l’altro Impero fù da que’ Barbari miseramente devastata, e pressoché distrutta, giacché trovasi la Messapia ,o sia Giapiggia allogata nel mezzo dell’Oriente, e dell’Occaso. Porgo a S. E. un esempio qual fù la Guerra de’ Turchi, che se poco prima fusse stata eseguita, forse, e senza forse tutta la Giapiggia vedrebbesi da noi presentemente al suolo adeguata, e compiagnerebbesi nostro malgrado la totale rovina della medesima. Fioriva, egli è vero, una gran moltitudine di uomini, una gran copia di Città, e di Reggioni là nel Peloponneso, capace di molti potentissimi Popoli; ora però dalle continue Guerre de’ Viniggiani, e de’ Musulmanni è stata in tal maniera rovinata, e disfatta, che reca pietoso spettacolo agl’occhi de’ guardanti. Il documento degli antichi scrittori da noi si è smarrito. Come di Eratostene, e d’Ipparco. Nella staggione di Ptolomeo, Plinio, Pomponio, Strabone, e Dionisio in questa Terra altro non vi soprastava per la variabil fortuna delli umani accidenti, che piccoli Contadi, Terre malnote, o neglette. Se a noi sarà di gradimento di riandare i libri degli antichi Istorici, e Giografi, ritroveremo nella Giapiggia anche cose degne di ammirazione e perciò d’esser annotate. Falanto, Platone, Archita, Aristotele, Theofrasto, e le Guerre di Annibale: il porto di Brindisi meritò da pertutto lodevolissima fama, e solenne rimembranza, per lo passaggio de’ Romani in Grecia. Quindi gli scrittori tramandarono a noi delle testè divisate cose qualche memoria considerevole, e speciosa. Io mi persuado, e credo, che Giovano Vitalliano abbia dato gloria, ed onore alla Città di Otranto, la di cui manierosa maniera pompeggiò e di eterna rinomata divenne a’ tempi di Giustiniano Imperatore, mentre ché Vitalliano lo serviva da Capitano nella Guerra de’ Goti, onde prese tutta la Provincia il nome dell’anzidetta Cittade. Leuca, Ugento, Gallipoli, Nardò, Vaste, Galatone, Soleto, Rugge, Mandurio, Cellie, Oira, Galeso state sono dall’ingiurie de’ tempi desolate, e pressocché diserte, e l’Eroiche gesta de’ Naturali, e Cittadini delle medesime furon poste in oblio, od ignorate, o neglette. La nostra Lecce sol tanto egli è purtroppo rinomata, e gloriosa per la storia del Principe dell’Antonino, la qual ne addita, che abbia egli tratta la sua materna prosapia da Malennio di Dasumno Figlio, e Re de Salentini. Altri chiamolla col titolo di Lupiarum, altri col solo nome di Rhudiarum. Guidone di Ravenna, che molti scrittori li più moderni in parecchi cose lo adoprano per Testimonio, e che io poco fà ò letto, e riandato, non è né troppo novello, né troppo antico Autore. Lo stato in cui erano le nostre cose nel di costui secolo rilevasi a chiaro lume dalle parole del testé divisato, le quali io con brevità ne porgo a S. E.; e presento in brieve il senso, e il significato. Leggonsi molte cose che fà duopo comprendere, e capire. In alcune altre mancò, in quelle deesi accaggionare l’ingiuria del tempo. In questo è degno di compatimento, in quelle meritevole di lode. Perocché se quelle in qualunque maniera siano, scritte non avesse, neppur noi potremmo a chiaro lume capire queste, che a S. E. scrivo. Egli il divisato Autore è stato il mio fido compagno con averlo più fiate trascorso, e riletto. Dal di lui avviso, e notizia me ne sono avvaluto, senza mai dipartirmi dal suo giudizio, e dalla mia idea, quando l’ò conosciuta, e ravvisata alla verità più propinqua,e vicina. Non così aggevolmente può mettersi in prospetto quel che una fiata si è dileguata, ed abbolito dalla memoria degli uomini. Noi per quanto le nostre forze reggeranno cerchiamo sempre dar lustro al Padrio suolo. Ch’egli tra’ Salentini abbia considerata Lecce, non traviò dal vero, ma fecesi vincere, e superar dall’errore allorché nomò Gallipoli colla voce di Lecce, ch’Ennio tratti avesse i suoi natali nella Calabra sponda; dice il vero che abbia avuta, e sortita la sua origgine in Taranto, s’inganna all’ingrosso. Perciocché Pomponio dice, che la Nobiltà dell’Antica Rugge la tragga, e la ripeta dal suo Cittadino Ennio,qual Città non era troppo da Lecce lontana, anzi se voglia prestarsi fede a’ que’ pochi spezzoni, e fragmenti, che a noi il testè divisato Poeta sono per buona nostra sorte rimasti illesi dall’ingiuria de’ tempi, egli medesimo di propria bocca confessa – Rhudiae me genuere vetustae -. Il ché non era troppo da Lecce distante. Forse trà queste due Città frapponeasi lo spazio di tredici stadii, ed è rimasto deluso, e ingannato dall’uno, e dall’altro nome per la voce, ed appellazione de’ suoi Natali dal sopra descritto Autore prostituita, e corrotta. Non tedio di vantaggio S. E. con tali oscuri racconti, mentre resto baciandole divotamente le mani. Lecce li 2 Agosto 1772. Divotissimo servitore vostro obbligatissimo Ach. Tresca
Chiedo scusa al lettore se ho scelto di far parlare lo stesso autore, ma questo espediente permetterà di comprendere più agevolmente l’intera questione. Fino ad ora, comunque, abbiamo appreso attraverso la lettera appena riprodotta che Achille Tresca3, aderendo ad una richiesta del suo amico Ettore Morosini, si appresta a fornirgli una descrizione della Iapigia, per la quale dichiara come fonte principale, anzi pressoché unica, Guidone di Ravenna, geografo del XII secolo, autore di Geographica, opera in cui laconiche notizie sulla Iapigia appaiono in ordine sparso (27-29, 69 e 71-72). Prima di procedere è opportuno ricordare che alla data del 1775 l’opera più completa sulla Terra d’Otranto rimaneva il De situ Iapygiae di Antonio De Ferrariis (1444-1517) alias il Galateo, opera uscita postuma per la prima volta per i tipi di Perna a Basilea nel 1553. É vero pure che Girolamo Marciano aveva già scritto Descrizione, origine e successi della provincia di Otranto, ma l’opera rimase manoscritta fino al 1855, quando venne pubblicata, con le aggiunte di Domenico Tommaso Albanese, per i tipi della Stamperia dell’iride a Napoli nel 1855.
Con la seconda lettera (carte 17r-31v) del 2 aprile 1773, con la terza (carte 32r-59r) del 6 aprile 1774 e con la quarta (carte 60r-100r) dell’8 maggio 1774 il Tresca invia quella che è in sostanza la traduzione dell’opera del Galateo con qualche aggiustamento che non tradisca l’imbroglio e guardandosi bene dal citarne almeno una volta il nome o l’opera4. Puntigliosa (non può essere altrimenti,quando l’accusa mossa è grave, anzi gravissima …) documentazione di tutto ciò è alla fine di questo lavoro.
Ad onor del vero di questo si erano già accorti i letterati dell’epoca, come testimonia la replica del Tresca (carte 133r-139v), ridicola ed tratti veramente imbarazzante, pur in assenza della lettura diretta (ammesso che da qualche parte si conservi il testo) della stroncatura: Protesta che fà l’Autore ad una lettera cieca pervenutagli. Alcuni saccentuzzi del nostro secolo avendo incombro il di loro petto da livido cuore d’invidia, ed avendo nell’istesso tempo inteso, che volevo io dare alle stampe la descrizione della nostra Giapiggia, vibrarono contro di me la lor trifulca lingua, dichiarando sotto ignoti caratteri, che io non avevi troppo bene penzato di mandare a capo il mio disegno per li quattro seguenti motivi.
Primieramente, come io nel descrivere la Giapiggia abbia trascurato di dare al Corrispondente una distinta descrizione di me medesimo.
2 Che io nella ridetta opera mi sia portato con isfrontatezza da succido ladrone, avvalendomi delle altrui fatighe, e sudori, da donde cercai rintracciarne gloria, e fama.
3 Che io abbia fatto un pasticcio, tramestando nella consaputa opera versi, e prosa per obietti troppo diversi e staccati.
4 che mi conveniva parlare, e far menzione all’orbe intero nel divisato libro dell’Eroiche virtù, e della gloria della nostra Real Padrona che Dio sempre la prosperi, e secondi, a’ quali motivi l’Autore à dovuto rispondere colle seguenti proteste.
Ero già pur troppo vago, e desideroso a formar la descrizion della nostra Giapiggia per darne io un dettaglio all’Italiana Nazione. Mi è riuscito grazie al Cielo, divisarne quel breve saggio, e corta relazione, come per me s’è potuto, ma finalmente mi sono di già avvertito, che avendo io voluto mandare a capo la medesima abbia mancato il di più, che mi era convenevole. Conoscerà ognuno da’ miei apporti la vaghezza del di lei sito , l’amenità dell’aere, ed il moderato temperamento del clima, e quanto sia la medesima ferace, e copiosa di tutto quel,che poteva la benigna Natura a soccorso, e nudrimento dell’uomo prestare; ma non comprende di quali imperfezioni sfreggiato sia lo scrittore, e di qual corrotto, e guasto costume composto,e sguisato. Misera umanità! Descrivesi alle Repubbliche il di più, ed il meno si trascura. Rimiro spesse volte, e meco stesso considero l’ignoranza, e l’audacia degli uomini a parlare delle cose, che sono fuori di loro, senza darsi penziero di formar la descrizione del di loro temperamento, ed umore. Se l’Alto Divin Facitore nel produrgli alla luce avesse lor cangiata la falda della bisaccia, talché quella, che nel dorso va’ sospesa, fusse nel petto, vedrebbesi a chiaro lume ammanzita la di lor vanità, e ciaschedun di noi favellar diversamente da quel che raggiona. Ero io già di fresca guancia vestito, e cominciava a balenar nel mio spirito fior di raggione quando io derterminai applicare allo studio dell’umane lettere. Mi chiusi perciò nella scuola della Grammatica,e quotidianamente raggiravami all’intorno di quei libri, da donde rilevar potess’io il conoscimento, e la pratica di saper la lingua latina. Mi versavo nella profana, e sacra Storia, e divagava sovente il mio penziero col verseggiare e col farla da imperito Poeta. Ma lasso me! Dove incauto trasportavami il fallace desio. Mi ero già impratichito de’ versi di Orazio, di Virgilio, e di Omero, parlavo speditamente l’idioma latino, della Storia ne avea preso qualche saggio, e dettaglio, ed al pari d’ogn’altro inculto versificatore facevo carmi, e sestine. Ma che! Sul bollor delle mie applicazioni, mi assaliva un panico timore, che scuotendomi dapertutto le ossa, mi gelava ben volentieri il sangue nelle vene. Divenivo sovente bersaglio della malnata cupidiggia, che tutto giorno mi conquidea, e mi affannava.Tormentavami l’ira e la libbidine, scoglio inevitabile a cui rompe, e frange l’incauta Gioventù. Era l’intestina guerra, ed il contasto de’ giorni miei. Terminato il corso della Grammatica, un’intensa voglia mi trasse in età piucché adulta d’imparare a suonare il cembalo, per sollevare l’animo dalla diuturnità de’ miei studi. Piacevami l’acuto de’ tuoni, ed il grave delle note mi feriva lo spirito per l’armonia, e proporzione delle consonanze. In tale stato di cose dall’esterno suono delle corde passavo sovente a determinare il mio animo sicché reggesse in calma, e trà la quiete ne’ colpi della seconda, ed avversa fortuna. Ma ciò tutto era vano, perché non sostenea egli nelle occasioni al martello. Dalla musica bene spesso alla Giomedria facevo io passaggio. Mi era gradevole la cognizione dell’essenza de’ triangoli, della natura de’ circoli, e de’ quadrati. Sapevo, che le linee rette tirate dalla circonferenza del circolo fino al suo asse, equalissime fussero trà di loro nella lunghezza e nella dimenzione. Dopò di qualche profonda applicazione, che io nella suddetta scienza metteva, dimandavo a me stesso: misura con matematico ordegno la grandezza, e moltitudine de’ vizii tuoi, la smisurata propenzione del tuo cuore, che à nello sdegno, nell’invidia, negli amori, nella gelosia. Puoi tu (ripigliavo io meco stesso) dalla medesima dedurre, che con i de lei insegnamenti arrivi l’uomo a scandagliare, e misurar se medesimo circa a quanto gli sia bastevole, ed intorno a quello, che la vanità lo predomini. Ti è nota e manifesta l’essenza della linea retta; ma ignori la rettitudine dell’oprare. Egli è aggevole col matematico compasso dividere in più parti il tuo rustico predio, o campo; ma tutto riesce di poco frutto, quando dalle Professioni non si rilevi la maniera di rendersi in ogn’ora felice, e contentarsi de’ beni, che dentro di se stesso nascono, di cui mi rendo incapace prenderne compiacimento, perché divagato dal copioso fallace stuolo de’ beni stranieri (se così vogliam dirli) onde sono convinto, ed invischiato, non mi permette la scienza di me medesimo. Mi apparto dalla Matematica, ed alla Scuolastica Filosofia mi appiglio. Quante, e vane questioni mi si paravan d’innanzi, che per comprenderne delle medesime il vero sovente il mio intendimento turbavano. Volevo io conoscere l’essenza del vacuo se disperso, se disseminato raggirasse nella gran machina del Mondo, se la corporea dimenzione soggiacesse a’ colpi di ferro, che in infinitum la disgiunga, e divida. Ma traea la voglia di percepire colla raggionela Natura, ed Esistenza del Divin Facitore, come l’uomo s’ingeneri, da donde acquistino il movimento le veggetabili, e le sensitive creature, da quai principi sia ogni Ente prodotto, se dal fuoco, come ad Anassacora piacque, o da i quattro elementi, come altri dicea. Dimandavo con fervorose preghiere dalla Filosofia, che mi dichiarasse la materia del sole; ed ella sovente rispondeami: Egli è di ferro, o di selce, o pur di altra più nobile sostanza di fuoco. In fine nel mezzo della medesima mi scorgevo io tutto cinto di tenebre, e ravvolto nel buio degli errori, e dei dubii. Trà le molte naturali questioni mi consideravo uno Stoico, un Pirronista, dalla curiosità conquiso, e niente pago di aver potuto rintracciare il vero delle cose. Da tali atteggiamenti di spirito volgevo dentro di me stesso lo sguardo, ed altro non ravvisavo, che un’assidua violentissima procella di spinose cure, e di affanni, talché naufrago io nello svariato Pelago di tanti mali, non sapevo qual onda secondare come amica, e qual, come avversaria schifare. Da tutto ciò potrà ogn’un comprendere quanto sia di vanità l’uomo carco, e ricolmo, poiché gli riesce aggevole di formar la descrizione piuttosto delle cose esterne, che di se medesimo. Cade qui in acconcio il detto di Bionte “Nil difficilius, quam nosse se ipsum”. Quindi dove si può molto bene delle cose parlare senza prevenzione di passione; il formare una pittura del mio guasto, e corrotto natural costume, era troppo per le mie forze malaggevole, e difficoltoso. Descriver l’uomo è lo stesso, che dipigner tele, e ritrarre in carte l’ingratitudine, e l’incostanza. Ognun conosce le massime del mondo traditore, tutti vediamo a chiaro lume l’insussistenza del nostro penzare. Quel che ora io trà me stesso risolvo frà pochi momenti mi affanna, e mi affligge, e tormentandomi lo spirito mi fà tosto cambiare voglia, e penziero. Ogn’aura ci scuote, ogni vento ci altera, qualunque svariata vicenda ci perturba, e scolora.Perciò parmi che poco bene rifletta colui, che voglia lo stesso descrivere al mondo, perché nemo tenetur infamare se ipsum. Oltre di questo se l’Autore nel descrivere la Giapiggia, o ne’ versi, ch’egli a Sua Eccellenza presenta, ed umilia avrà preso qualche sbaglio, o si troverà qualche proposizione del medesimo, che si opponga, e contrasti le leggi della nostra Religione Cattolica, o pure i dettami della pulizia dello stato, il sudetto Autore avvanza le sue proteste dirette a’ correggitori di quest’opera, che vadano, cassino e cancellino tutto, quel che di soverchio, d’improprio, e di erroneo sarà stato nel decorso della medesima scritto, e vergato. Implora un benigno compatimento, giacché la povera umanità è troppo sottoposta, e soggetta a travedere nel buio, e nelle tenebra dell’ignoranza, di lei indivisibil compagna. “Hoc unum scio, me nihil scire”. Brontola contro di me la veneranda adunanza de’ letterati, che nella sudetta descrizione della Giapiggia da vero ladro io mi sia mostro, et additato, perché altro non abbia fatto che rivangare quel, che altri ne’ secoli caduti con diverso idioma ne scrisse. Cesserà però la maldicenza, e la critica di costoro, mentre io sarò per ricordarli, che ogni scienza nel mondo sia limitata, e finita, perché dalli uomini escogitata, e prodotta. Non vi à Poeta, Prosatore non trovasi, che nelle sue respettive opere non s’abbia d’altri antecedente lui servito, ed avvaluto. Confessa tutto ciò a chiare note il nostro Orazio, che fù fedel imitatore di Lucilio, Virgilio fedelissimo seguace di Omero e tanti altri di rinomatissima rimembranza, che a rammentarli tutti sarebbe lo stesso, che non finirla giammai. Sono ammaestrato dalla ragion legale, che “Pater, et Filius sint una eademque persona”. Dal che se ne potrà dedurre, che avendo avuto io il desidero di dedicar le lettere della Giapiggia alla Maestà del nostro Reale Infante (che Dio lo conservi) stata sia audacia troppo grande la mia farla da Poeta, e ricantar le glorie di Filippo IV nostro Real Padrone. Bella riflessione invero formata da’ nostri giureconsulti, non per altro motivo, se non se, per quelli, che sono alle leggi sottoposti, e soggetti. Ma trattandosi de’ Monarchi non corre, né regge a martello la massima divisata. Io per me sarò loro sempre fedele, ed ubbidientissimo vassallo, e gli terrò sempre mai per due distinti Padroni ad amendue divotamente offerendomi. Né si meravigli tal’uno,come io nella qui retroscritta opera non abbia niente della nostra Padrona fatto menzione. Il fù mio Genitore dedicò per mezzo del fù mio zio Commendatore all’Augustissima di lei Genitrice un libro di prose, e di versi, ricantando le glorie, ed i Trofei della Casa d’Austria , delli quali quantunque la sudetta Real Augusta Famiglia niun bisogno ne avea, per aver ella in tutto l’Orbe qual fulgidissimo Pianeta, che per ogni parte sfolgorante vibra la sua chiara luce, e lo spendore, pur tuttavia il fù mio Padre volle dare a divedere a tutti un verace attestato di quella venerazione, ed ossequio, onde un suddito è al suo Padrone tenuto, ed obligato. E chi rivocherà in dubbio quel, che io rammento, me lo accenni, me lo divisi, che tosto ne gli farò capitare il manuscritto ed istampato esemplare.
Ho già definito imbarazzante questa difesa. Non mi rimane che uscire dall’imbarazzo dicendo che in essa l’unica nota interessante è quella finale relativa all’opera del padre5, con il cui frontespizio mi congedo prima di procedere al raffronto dettagliato tra il testo del Tresca (in grassetto corsivo) l’originale del Galateo (corsivo) che ho ritenuto opportuno accompagnare con la mia traduzione e, in rosso, l’eventuale commento. Laddove compaiono all’inizio e alla fine dei brani esaminati tre puntini vuol dire che i pezzi intermedi sono assolutamente coincidenti. Delle lettere ho riportato, comunque, l’incipit e l’explicit.
(carta 17r) Lettera seconda. Sulla situazione della Giapiggia
Quel che ora Italia addimandasi, traendo la sua origine dalle Alpi, viene dal mar Superiore, e dall’Inferiore battuta, ed innaffiata, e tra’ l’Oriente Iberno, e nel mezzo giorno è posta, ed allocata, dalli altissimi monti dell’Appennino, come se fussero due penisole del Chersoneso, quasi due conii di bipartito Albore vien terminata e finita. Queste due penisole, o tal Reggione fraposta negli antichi secoli era non solamente ad ogn’altra Terra preferita, ma tenevasi da ognuno in maggiore stima tralle Nazioni di Grecia…
Quae nunc Italia dicitur, ab Alpibus ortum habens, supero, et infero mari abluitur, inque ortum hybernum, et meridiem porrecta, perpetuis Apennini iugis, duabus peninsulis, seu (ut Graeci dicunt) chersonesis, finitur. Quae quasi vertices sunt, seu coni bifidae arboris. Hae peninsulae et interiacens ora, antiquis temporibus non solum coeteris terris, sed ipsi quoque Graeciae praelatae …
Quella che ora è detta Italia, avendo l’origine dalle Alpi, viene bagnata dal mare superiore [l’Adriatico] e inferiore [Tirreno] e, allungata tra nord e sud dai continui gioghi dell’Appennino, termina con due penisole o, come dicono i Greci, chersonesi. Esse sono quasi le cime o coni di un albero biforcuto. Queste penisole e il territorio intergiacente, preferiti nei tempi antichi non solo alle altre terre ma pure alla stessa Grecia …
Incipit assolutamente coincidente.
(carta 24r) … questa è la dessa, onde più speciosa, e ben degna commemorazione Orazio ne fece. Questa, Chersoneso, con vari nomi da diversi autori trovo chiamata. Altri come Aristotele , ed Herodoto Giapiggia la nomarono …
… haec insularum omnium peninsularumque ocellus quondam fuerat. Haec est de qua Horatius cecinit: Unde si Parcae prohibent iniquae,/dulce pellitis ovibus Galaesi/ flumen et regnata petam Laconi /rura Phalantho./ Ille terrarum mihi praeter omnes/angulus ridet, ubi non Hymetto/ mella decedunt viridique certat/baca Venafro;/ ver ubi longum tepidasque praebet/ ìIuppiter brumas et amicus/Aulon fertili Baccho minimum Falernis/invidet uvis./Ille te mecum locus et beatae/postulant arces; ibi tu calente/ debita sparges lacrima favillam/vatis amici .Hanc chersonesum variis nominibus a diversis auctoribus subinde appellatam fuisse habeo: alii, ut Aristoteles Herodotusque, Iapygiam dixere …
… questa un tempo era stata la perla di tutte le penisole. Questa è quella della quale Orazio ha cantato così: “Se [dalla guerra] le inique Parche mi terranno lontano andrò verso la corrente del Galeso cara alle pecore spinte al pascolo e verso le campagne su cui regnò lo spartano Falanto. Quell’angolo di terra più di tutti mi sorride, dove il miele nulla da invidiare ha a quello dell’Imetto e l’olio a quello della verdeggiante Venafro, dove Giove offre una lunga primavera e tiepidi inverni e l’amico Aulone con la fertile vite non ha nulla da invidiare alle uve di Falerno. Quel luogo e i felici colli ti vogliono con me; ivi tu con la dovuta lacrima bagnerai le ceneri dell’amico poeta”. Mi risulta che questa poi come penisola fu chiamata con vari nomi dai diversi autori: alcuni, come Aristotele ed Erodoto, la chiamarono Iapigia …
Nella traduzione del Tresca non sono riportati i versi di Orazio (Odi, II, 6, 9-24)
(carta 27r) … veleno si cava fuori, e dilegua col beneficio del canto, e del suono. “Est etiam ille malus Calabris in montibus anguis”. Vi sono parimenti serpi pestilentissime, denominate chersidri surte da secco ed arido terreno…
…venenum cantu, et fistulis pellitur. De his loquitur Virgilius Georgicon libro secundo verso 42: Est etiam ille malus Calabris in montibus anguis. Sunt et serpentes pestilentissimi: chersidri enim sunt nati in arida tellure …
… il veleno viene eliminato col canto e con la musica. Di questo parla Virgilio nel verso 42 del secondo libro delle Georgiche: Est etiam ille malus Calabris in montibus anguis. Ci sono anche serpenti velenosissimi: i chersidri infatti nacquero nella terra arida …
Nel Tresca manca l’indicazione di Virgilio e della sua opera.
(carta 28r) … siccome qui, così nella Campania, tanto nella state, che nel verno scuote soventi fiate il terreno lo strepitoso fragore, e rimbombo di parecchi fulmini. Saremo dunque noi perciò alla natura ingrati, che ricusiamo i di lei presenti, e favori, perché …
… nam hic, ut in Campania, hyeme, et aestate sunt fulmina. Erimusne nos, Spinelle, naturae ingrati, ut recusemus illius munera quoniam …
… infatti qui, come in Campania, d’inverno e d’estate ci sono fulmini. Saremo noi, o Spinelli, tanto ingrati verso la natura da rifiutare i suoi doni perché …
Il Tresca ha eliminato il nome di Giovan Battista Spinelli, destinatario del De situ Iapygiae, che è in forma epistolare e che era stato richiesto al Galateo perché il sovrano Ferdinando il Cattolico fosse ragguagliato sullo stato dei territori di recente conquistati. Nella fattispecie lo scimmiottamento può condensarsi in una proporzione: Morosini: Spinelli=Ferdinando IV: Ferdinando il Cattolico.
(carte 31r-31v) … e siccome la terra chiude, e ricuopre nelle sue viscere le ossa de’ bisonti, così distrugge Città, e Reggioni, e niuna cosa può in eterno durare. Il Tasso mi ripiglia a tempo: Chiude il fasto, e la pompa arena, ed erba. La caliggine, e la folta trascuraggine degli uomini de’ secoli caduti mise in profondo sempiterno oblio la fama ed i nomi di quelle, e la chiarezza de’ luoghi. Noi proseguiremo in tanto a dare a S. E. notizia della Giapiggia, indi ci appresseremo fil filo riandar con distinzione per le parti della medesima, mentre resto baciandole di votamente le mani. Lecce 2 Aprile 1773
…et quemadmodum urbes, et ossa hominum terra operuit, sic et famam illarum, et aliquarum etiam nomina, et locorum claritatem depressa temporis caligo obtenebravit. Nos primum oram, deinde mediterraneas partes prosequemur.
… e come la terra ha ricoperto le città e le ossa degli uomini, così la nebbia del tempo discesa ha ottenebrato pure la loro fama e di alcune anche i nomi e la magnificenza dei luoghi. Noi tratteremo prima della costa, poi delle parti interne.
Manca nel Galateo la citazione dal Tasso.
(carte 32r-59r) Lettera terza. Descrizione della Giapiggia. Littorale
I Greci indagando il principio di Taranto a Taranton, o come altri vuole a Talanton, che noi Talento diciamo, Stefano pose il nome a questa città da quello, ch’è Taras, Tarantos, ch’è un nome commune tra’ la medesima e la fiumana …
Principium a Tarento sumentes, Graeci Taranton, ut illi talanton, quod nos talentum dicimus. Stephanus ab eo quod est Taras, quod est urbis nomen, et fluvii commune, posuit …
Cominciando da Taranto: i Greci la chiamarono Taranton, come essi dicono talanton ciò che noi chiamiamo talento. Stefano pose il nome da quello che è Taras, che è nome comune alla città e al fiume …
Incipit perfettamente coincidente.
(carta 34v) … e dacché questi pervennero al colmo delle ricchezze, tralignarono dalla primiera severità di vita da lor Maggiori tenuta; ma poiché Eccellentissimo Signore mio ò addossato il carico di narrarli sù di ciò minutamente quel, che gli Autori ne scrissero, perciò sembrami ben convenevole divisarli in compendi qualche cosa secondo il costume di Filosofo, e non come all’Istorico appartiene. Aristotele rammenta nei suoi Problemi …
…et Romani quum ad summum divitiarum pervenere, a maiorum vitae severitate degeneraverunt. Facile ii temperate vivunt, quibus desunt luxuriae alimenta: at ii quibus ampla sunt facultates, non possunt non molliter, et delicate vivere. Exemplo nobis sunt Principes sacerdotum, quibus dum pauperes erant , satis fuerunt oluscula et pisciculi minuti; nunc nec terrae, nec maria eorum gulae, ac libidini sufficiunt. Hic est mos fere omnium gentium, quae cum inopes sunt, atque omnium rerum indigae, parce, modeste, frugaliter, ac temperanter vivunt. Quae deinde per bella, et caedes, et rapinas, et miserorum viscera saginatae, contempta, quam prius laudaverant necessariam, frugalitate, in omni luxuriae genere volutantur. Testes sunt Medi, Persae, Macedones, et ipsi rerum Domini Romani. Nec non, et nos Christiani, ut dixi, dum pauperes, et mendici fuimus, pie, iuste, et sancte viximus; at postquam res Christiana ad tantas devenit opes, in apicem vitiorum ascendimus, nec habemus quo ulterius progrediamur. Certant inter se duo illa maxima vitia, avaritia, atque luxuria, et cum utraque in summo sit, non est facile iudicare utra illarum sit maior. Res admiratione digna est, quomodo, et homines, et Dii ferre possunt scelera nostra. Spinelle, Vir excellentis animi et ingenii, non mihi cura est omnia exquisite narrare, quae Auctoresa scripsere,sed summatim aliqua, ut tibi morem geram, et ut Philosophum, non ut Historicum decet. Aristoteles ait in suis Problematis …
… e i Romani quando pervennero al sommo della ricchezza tralignarono dalla severità di vita degli avi. Facilmente vivono con moderazione coloro ai quali manca l’alimento del lusso, ma quelli che hanno ampi mezzi non possono non vivere mollemente e voluttuosamente. Sono esempio per noi i più importanti dei sacerdoti ai quali, finché erano poveri, bastarono ortaggi di scarso valore e pesciolini insignificanti. Ora né le terre né i mari sono sufficienti alla loro gola e libidine. Questo è il costume di di quasi tutte le genti, che, quando sono povere e bisognose di tutto, vivono parcamente, modestamente, frugalmente, moderatamente. Esse poi attraverso guerre, stragi e rapine, sazie delle viscere dei miseri , disprezzata la frugalità che prima avevano lodato come necessaria, rotolano in ogni genere di lusso. Sono testimoni i Medi, i Persiani, i Macedoni . E anche noi Cristiani, come dissi, finché fummo poveri e mendichi, vivemmo piamente, giustamente e santamente; ma, dopo che il Cristianesimo pervenne a tanto grande ricchezza, salimmo sulla cima dei vizi e non abbiamo dove spingerci ulteriormente. Gareggiano tra loro quei due massimi vizi, l’avarizia e il lusso e quando entrambe sono all’apice non è facile giudicare quale di esse sia più grande. É cosa degna di meraviglia come e gli uomini e gli dei possano sopportare le nostre scelleratezze. O Spinelli, uomo di eccellente animo e talento, non è mia preoccupazione narrare le cose che gli autori scrissero non minuziosamente ma per sommi capi alcune per venire incontro al tuo desiderio e come conviene ad un filosofo, non ad uno storico. Aristotele dice nei suoi Problemi …
Da notare nel Tresca il taglio della parte che poteva urtare la suscettibilità di un cattolico e, verso la fine, la sostituzione di Spinelli con Signore mio.
[carte 35v-36r) … da Taranto navigandosi a seconda del vento Euro , si para d’avanti agli occhi de’ nocchieri, dacché si è varcato il mare al di là di otto miglia, un luogo anticamente nomato Bafia, che oggi quei naturali lo addicono in latino Saturum: amenissimo il tratto di questo paese: à sul merige campagne pur troppo amene …
… a Tarento in Eurum navigantibus ad VIII millia pasum occurrit in ora locus, quem incolae Saturum penultima producta nominant, amoenissimus tractus est, et apricus in meridie …
… per chi naviga da Taranto verso est a circa 8 miglia si presenta sulla costa un luogo che gli abitanti, allungata la penultima, chiamano Saturo; è un tratto amenissimo e luminoso a mezzogiorno …
Notevole nel Tresca il toponimo Bafia, probabilmente presente nell’edizione del De situ Iapygiae da lui utilizzata o sua integrazione, frutto, forse, di confusione con l’omonimo centro della Sicilia orientale (registrato da Vito Maria Amico, Lexycon topographicum siculum, tomo III, Puleggio, Catania, 1760).
(carta 38v) … si portò così bene il bellicoso coraggio di quei cittadini, che nessuno può chiamarli vinti, o dall’oste nemica superati. Eccellentissimo Signore se io passo sotto silenzio, e non rammento la fedeltà di coloro che abitano nell’ultimo luogo dell’Italia, ch’è un’angolo di Lucera, a me par convenevole di porre in prospetto, e commendare l’eroiche gesta adoperate da cittadini di Gallipoli, ed Otranto …
… sic se Callipolitani gessere, ut nemo illos iure victos dicere possit, sed a multitudine hostium superatos. Praeclarissime Spinelle, quando eorum, qui in extremo Italiae angulo Luceriae, virtus et fides oblivioni, ac silentio datur, nos ipsi Callipolis,et Hydrunti fortia facta non taceamus …
… i Gallipolini si comportarono in modo tale che nessuno a buon diritto li può definire vinti, ma battuti dalla superiorità numerica dei nemici. Illustrissimo Spinelli, quando sono consegnati all’oblio e al silenzio il valore e la fede di coloro che stanno a Lucera, un estremo angolo d’Italia, proprio non passiamo sottosilenzio le forti gesta di Gallipoli r di Otranto …
Ancora la già vista sostituzione di praeclarissime Spinelle con eccellentissimo Signore.
(carta 48r) … ogni sacerdote fù ad uno ad uno scannato, non perdonando tampoco il furor maomettano, neppure a’ quei poveri preti, che sull’are tenendo l’ostia sacrata tra’ le mani celebravano il divin sacrifizio. Da poiché per tutta quella notte appresso la quale spuntò, e succedette quella torbida giornata,Stefano Pendinelli, ch’era l’Arcivescovo del sudetto luogo, patrizio di Nardò, e consanguineo del fù Antonio de Ferraris avendo confirmato tutto il Popolo col divin sacramento dell’Eucaristia, si presentò alla matutina Guerra …
… sacerdotes in ecclesia omnes ad unum trucidaverunt, et nonnullos super altaria hostiam tenentes tamquam victimas mactaverunt. Postquam nocte tota, quam turbolentus ille dies secutus est, Stephanus Archiepiscopus consanguineus meus, omnem populum divino Eucharistiae sacramento firmaverat ad matutinam, quam prescierat, pugnam …
… in chiesa trucidarono ad uno ad uno tutti i sacerdoti e ne ammazzarono come vittime sacrificali parecchi mentre tenevano in mano l’ostia sull’altare. Dopo che nell’intera notte precedente quel turbolento giorno l’arcivescovo Stefano mio congiunto aveva confortato tutto il popolo col divino sacramento dell’Eucaristia fino alla battaglia del mattino che aveva previsto …
Si tratta dell’unico brano in cui compare, però in terza, non compromettente persona, il nome del Galateo.
(carte 57r-57v) … ma la negligenza de’ cittadini recò infamia a questo luogo:che se disserrati ell’avesse gli suoi acquedotti, non avrebbe mai tale sventura sortita. Mi ricorda di aver io letto, che in Napoli morta fusse gran copia di abbitanti …
… sed civium negligentia urbem hanc infamavit, quae si aquae suos exitus apertos habuissent, numquam tale nomen assecuta fuisset. Nonne vides, Spinelle, quot mortales hoc anno Neapoli periere …
… ma la negligenza dei cittadini infamò questa città, che, se le acque avessero avuto aperto il loro sbocco, non avrebbe avuto tale fama. Non vedi, Spinelli, quanti uomini sono morti quest’anno a Napoli …
Spinelli ormai naturalmente assente nel Tresca.
(carte 58v-59r) … tai parole fanno ben degna fede dell’integrità, e costanza della Brindisina Nazione, solita sempre a prestar ubbidienza alli Augustissimi Imperatori. Dopo di questo, Eccellenza, parmi ben convenevole di descriverle distintamente le parti mediterranee della Giapiggia, le quali dopò qualche respiro, ed in altra occasione le prometto con altra lettera a formare quel distinto raguaglio, che da me si potrà, rilevandolo dall’oblio de’ secoli caduti. E con ciò raffermo mi resto. Lecce li 6 Aprile 1774
… haec verba, Spinelle, maximum perhibent testimonium integritatis, et fidei illius regionis, quae non nisi veris Imperatoribus parere solita est . Nunc de mediterraneis dicendum est …
Nel Tresca, oltre all’ormai fisiologica assenza di Spinelli, il tratto finale prepara la lettera successiva.
(carta 60r) Lettera quarta. Delle parti mediterranee della Giapiggia
Si frapponevano a Brindisi e a Taranto due antiche città …
Inter Brundisium et Tarentum duae antiquae urbes fuere …
Tra Brindisi e Taranto ci furono due antiche città …
Ancora l’incipit perfettamente coincidente.
(carta 61v) … Ora è tanto il numero e la copia de’ libri, che non solamente gli medesimi, ma né pur degli Autori gli nomi ponno scolpiti. ed impressi restar nella nostra memoria. Riderà forse tal’uno, che io mentre in altri commendi la brevità del dire, e nell’altrui scrittura, sia io prolisso, con lungo torno di parole stenda, e dilarghi tal descrizione …
… nunc tanta est librorum copia, et magnitudo, ut non solum dicta, sed ne nomina quidem auctorum memoriter tenere valeamus. Ridebis fortasse, Spinelle, Galateum, qui brevitatem suadet, cum ipse prolixus sit, sed hoc rite fit …
… ora è tanta l’abbondanza e l’estensione dei libri che non siamo in grado di tenere a memoria neppure i nomi degli autori. Forse riderai, o Spinelli, del Galateo che invita alla brevità quando lui stesso è prolisso, ma ciò avviene solitamente …
Nel Tresca illustri assenti, in un colpo solo, Spinelli e il Galateo.
(carta 81v) … il modello delle qui soprascritte lettere furono presentate ad alcuni savii di quella staggione, come al Pontano, ad Hermolao, ad Accio, a Chariteo, al Summonzio, li quali furono tutti al mio parere concordi, avendole chiamate lettere di Messapia …
… harum litterarum exemplum, Pontano, Hermolao, Actio tuo, immo et meo, Chariteo, et Summontio misi, et nonnullis aliis: omnes mecum sensere has esse Mesapias literas …
… di queste lettere ho inviato una riproduzione al Pontano, all’Ermolao, al tuo, certamente anche mio, Azio, al Cariteo e al Summonte e a parecchi altri: tutti convennero con me che questi erano caratteri messapici …
Con savii di quella staggione e con l’eliminazione di meo dell’originale il Tresca si è liberato della cronologia; non poteva certo aver chiesto la consulenza di Giovanni Pontano (1429-1503), di Ermolao Barbaro il Giovane (1454-1493), di Azio (nell’Accademia Pontaniana pseudonimo di Iacopo Sannazzaro, 1456 circa-1530), del Cariteo (nome umanistico di Benedetto Gareth, 1450 circa-1514 e di Pietro Summonte (1463-1526).
(carta 83r) … alla distanza di tredici mila passi fabricata si vede Galatone. Altri la chiamano Galatana, chi Galatina …
… hinc ad XIII millia passuum, Galatana, unde mihi origo est. Alii Galatenam, alii Galatinam …
… da qui a 12 miglia Galatone, donde io ho origine. Alcuni la chiamano Galatena, altri Galatina …
Come poteva essere mantenuti l’originario unde mihi origo est?
(carta 84r) … ero io di fresca guancia, ed in età fiorita, quando nel riandare l’opera di Livio lessi, e ravvisai la città di Theuma …
… cum essem iuvenis, legens apud Livium inveni Theumam …
… essendo giovane, leggendo presso Livio trovai Teuma …
Innocuo riferimento cronologico, dal momento che Livio poteva tranquillamente essere stato letto tanto dal Galateo che dal Tresca.
(carte 84v-85r) …deponendo costumi, vestimenta, come ancora l’argivo dialetto: ma non la ceppaia. Non mi vergogno punto di propalare l’origine de’ nostri Maggiori. Siam Greci ed ognuno lo si deve a gloria recare. Platone il Dio de’ filosofi costumava sovente di ringraziare i Numi per queste tre cose: che Uomo e non bruto, che Maschio, e non Donna, che Greco e non barbaro fusse nato, e cresciuto. Il suo servidore, Eccellenza,che la Giapiggia descrive non da’ Mauri, non dalli Ethiopi, non dalli Allobrogi, o Sicambri, ma dalla Greca Nazione sorge, e deriva. Il Progenitore di chi tal dettaglio della Giapiggia li porge, non ignorò il Greco, e molto meno l’idioma Latino. Fù celebre non per valore dell’armi,ma fù difeso, e scortato dall’integrità della vita, e dalla bontà de’ costumi. Mi vergogno, Eccellenza, parlando seco lei senz’Arbitri dirle, come io nell’Italia abbia tratta la mia origine, e derivati i miei natali, sebbene alcuni scrittori posero il suolo Giapiggio fuor dell’Italia …
… mores, et vestes, et Graecam linguam deposuerunt sed non genus. Nec pudet nos generis nostri. Graeci sumus, et hoc nobis gloriae accedit. Divinus ille Plato in omnibus gratias Diis agebat, sed praecipue in his tribus: quod homo non bellua; mas, non foemina; Graecus, non Barbarus natus esset. Galateus tuus, Spinelle, non a Mauris, aut Lingonibus, non ab Allobrogibus, aut Sycambris, sed a Graecis ducit genus. Pater meus Graecas, et Latinas literas novit; avus, et progenitores mei Graeci Sacerdotes fuere, literarum Graecarum, Sacrae Scripturae, et Theologiae minime ignari: non armis, hoc est, vi, et caedibus, et rapinis, sed bonis moribus et santitate vitae celebres. Pudet me, Spinelle (tecum sine arbitris loquor) in Italia natum fuisse, quamvis Iapygiam terram extra Italiam scriptores quidam posuere. Graecia sua vetustate, sua que fortuna, Italia suis consiliis, suisque discordiis periit …
… deposero i costumi, le vesti e la lingua greca, ma non la stirpe. Né ci vergogniamo della nostra stirpe. Siamo Greci e questo ci torna a gloria. Quel divino Platone rendeva grazie a tutti gli dei ma soprattutto per queste tre cose: per essere nato uomo e non animale, maschio e non femmina, greco e non barbaro. Il tuo Galateo, o Spinelli, trae origine non dai Mauri o dai Lingoni, non dagli Allobrogi o dai Sicambri, ma dai Greci. Mio padre conosceva il greco e il latino, mio nonno e i miei antenati furono sacerdoti greci, per nulla ignari delle lettere greche, delle sacre scritture e di teologia, cioè celebri non per le armi, la violenza, le stragi e le rapine ma per i buoni costumi e per la santità della vita. Mi vergogno, o Spinelli (con te parlo direttamente), di essere nato in Italia, sebbene certi scrittori abbiano posto la Iapigia fuori dell’Italia …
Sostituzione di Galateus tuus, Spinelle con Il suo servidore, Eccellenza.
(carta 86r) … dove un tempo fabricato vi era un Munistero assai Nobile di Monaci Basiliani, dedicato, ed eretto a gloria di S. Nicola. Comincia di bel nuovo il detto Appennino…
… ubi erat quondam nobile coenobium monachorum magni Basilii, divo Nicolao dicatum, cui avunculus meus plusquam triginta annis praefuit. Inci pit molliter insurgere …
… dove era un tempo un nobile cenobio di monaci del grande Basilio, dedicato a S. Nicola, al quale presiedette per più di trent’anni un mio zio materno . Comincia ad innalzarsi leggermente …
Qui è lo zio materno ad essere stato eliminato.
(carte 88r-89r) … di tempo in tempo avviene, che quivi cresca in tal maniera l’inondazione, che par di volersi egli ingoiare l’intero Abitato. Crebbe in tale smodato eccesso ne’ secoli caduti, che molti se ne annegarono. Il vino, il formento, l’olio furon dall’onda insana assorbiti, e rimase logora, e stracciata la più parte delle suppellettili. L’acqua medesima distrusse, e seppellì ne’ suoi gorghi quantità di libri Greci, e Latini, che quivi erano con molta diligenza custoditi, e serbati. Questa città … que’ cittadini nell’assiduo contrasto valorosamente resistettero, e si difesero. In tal guerra difensiva militò da soldato un tal De Ferrariis Galatio. Finalmente a Giovannantonio non essendoli potuta riuscir felicemente l’impresa, distaccato l’assedio, altrove drizzò le sue mire ed in altra parte rivoltò le sue armi. Dopò di questo avendo finito di vivere la Regina Giovanna, ed il Caldora, tutta la Giapiggia si ridusse nel dominio di Giovannantonio. Il de Ferrariis, come di costui giurato inimico, fù rilegato in esilio nella città di Gallipoli. Postesi finalmente le cose in assetto, il Prence Giovannantonio desiderando di ascoltar la causa della discolpa del de Ferrariis, che contro di lui aveva militato, ed imbrandito il ferro, nella seguente maniera da Gallipoli scrisse il medesimo al suddetto Principe Giovannantonio: “Io, per quanto an sostenuto le mie debili forze non ò fatta resistenza alcuna agli suoi disegni …
… quandoque tanta est imbrium copia, ut oppidum aquarum illuvie laboret. Tempore avi mei tanta per oppidum crevit aquarum multitudo, ut in aliquibus locis duorum passuum mensuram excederet. Nonnulli periere, vinum, oleum, triticum, hordeum et quamplurima supellectilia absumpta sunt: libros Graecos, quorum avus meus magnam habebat copiam in Ecclesia, quae nostri iuris est, ubi ipse versabatur, aqua delevit, atque consumpsit. Haec urbs … oppidani continua pugna acerrime restiterunt; in qua pugna pater meus interfuit. Tandem Ioannes Antonius re infecta, et longa obsidione soluta, alio arma vertit. Post haec Regina, et Caldora vita functis, tota Iapygia in potestatem Ioannis Antonii pervenit. Pater meus tamquam hostis ab Ioanne Antonio inauditus Gallipoli exulare iussus est. Compositis tandem rebus, Ioanni Antonio causam audire cupienti,in hanc sententiam scripsit patermeus: “Nulla, o bone Princeps, a te accepta iniuria ausis tuis quoad potui obstiti …
… di tanto in tanto tale è l’abbondanza di piogge che la città soffre per inondazione. Al tempo di mio nonno la massa di acqua crebbe tanto da superare in alcuni luoghi la misura di due passi. Molti morirono, vino, olio, grano, orzo e moltissime suppellettili furono trascinate via; l’acqua distrusse e consunse molti libri greci, dei quali mio nonno aveva una grande quantità nella chiesa, che è di nostro diritto, nella quale esercitava la sua funzione. Questa città … i cittadini resistettero fieramente con una lotta continua: ad essa partecipò mio padre. Alla fine Giovanni Antonio, essendo diventata difficile la situazione e tolto l’assedio, volse altrove le armi. Dopo di ciò, essendo morti la regina tutta la Iapigia venne sotto il potere di Giovanni Antonio. Mio padre come nemico senza essere ascoltato da Giovanni Antonio ebbe l’ordine di andare in esilio a Gallipoli. Sistematesi finalmente le cose, mio padre contro questa sentenza scrisse a Giovanni Antonio che desiderava ascoltare le sue ragioni: O buon principe, non essendo stata ricevuta da te alcuna offesa, finché ho potuto mi sono opposto ai tuoi piani …
I casi del padre del Galateo vengono trattati in terza persona.
(carta 90r) … tali parole furono con tanta gratitudine accolte daquel buon Principe, che cangiato, convertito l’odio in amore fin ché visse costui, lo amò, e l’ebbe caro al pari degli altri suoi più intimi, e familiari Amici, e sofferse di buon grado la di lui Eroica morte, che sostenne per amor della verità, e per attenersi sempre fedele, aspra vendetta ne prese. La città di Galatone …
… haec verba adeo grata bono Principi fuere, ut totum, si quod erat odium, in amorem verteret, tantumque patri meo quoad vixit fidei praestitit, quantum cuivis eorum, quos charissimos habebat, eiusque heroicam mortem, quam pro veritate, et fide servanda passus est, molestissime tulit, atque aspere ultus est. Haec urbs …
… queste parole furono tanto gradite al buon principe che, se c’era qualche odio, lo cambiò tutto in amore e prestò tanta fiducia a mio padre quanto a ciascuno di coloro che aveva carissimi e sopportò con grandissimo dolore la sua morte eroica che patì in difesa della verità e della fede e lo vendicò fieramente. Questa città …
Continua la narrazione in terza persona della vicenda del padre del Galateo.
(carta 91r) … la ridetta città abbondava di molti sacerdoti Greci, trà gli altri ve ne avea d’uno massimamente in quei tempi, che lo addimandavano il Maestro, da donde surse, e derivò la famiglia del de Magistris, il di cui nipote chiamato Virgilio avendo per venti anni fatto induggio in Bisanzio …
… haec complures Sacerdotes Graecos doctissimos habuit, sed praecipue unum, quem magistrum appellaverunt, unde Magistrorum familia, cuius nepotem Vergilium, ego puer novi, et proavi mei, quorum unus viginti annis Byzantii versatus est …
… questa ebbe parecchi dottissimi sacerdoti greci, ma soprattutto uno che chiamarono maestro, donde la famiglia dei De Magistris,il cui nipote Virgilio io fanciullo conobbi, ed i miei proavi, dei quali uno visse venti anni a Bisanzio …
Come c’era da aspettarsi, è saltata la conoscenza personale di Virgilio , nonché il ricordo dei proavi.
(carta 99v) …ne’ secoli caduti appressavasi ognuno, che volea sacrificarsi alle scienze nella città di Nardò per istudiare …
… temporibus patris mei ab omnibus huius regni provinciis ad accipiendum ingenii cultum Neritum confluebant …
… ai tempi di mio padre confluivano a Nardò da tutte le province di questo regno per acculturarsi …
Il temporibus patris mei del Galateo nel Tresca è diventato ne’ secoli caduti.
(carta 100r) … Era tal paese un tempo da Bellisario Acquaviva. Potrei far altre distinte descrizioni di luoghi ragguardevoli, e rinomati, che furon trà la Giapiggia, ma non volendomi io punto abbusare della pazienza di chi sarà per leggere tal mia descrizione, finisco col verso del Venusino Poeta “Neritum longae finis chartaeque viaeque” riserbandomi in altra disertazione descrivere la Città di Gallipoli. Ed è quanto devo mentre rassegnandomi resto. Lecce li 8 Maggio 1774.
… hic et ego prima literarum fundamenta hausi. Galatana me genuit, haec urbs educavit, et fovit, et literis instituit. Hic Aquaevivus tuus, imo et meus Belisarius, magni Aquaevivi frater, dominatur. Neque ero ingratus, si ut initium descriptionis Tarento, sic et finem Nerito tribuero. Hoc exigit locorum ratio; et conviviorum magistri semper aliquid, quod maxime delectet, in finem reservant, sic “Neritum longae finis chartaeque viaeque”.
… qui pure io appresi i primi fondamenti delle lettere. Galatone mi generò, questa città mi educò e coltivò e mi avviò alle lettere. Qui domina il tuo, anzi anche il mio, Belisario fratello del grande Acquaviva. E non sarò ingrato se, come ho affidato l’inizio della descrizione a Taranto, così pure affiderò la fine a Nardò. Questo esige la disposizione dei luoghi; e i maestri del convito sempre riservanoalla fine qualcosa che diletti in sommo grado; così “Nardò sia la fine del lungo viaggio e racconto”.
Censurati (e che poteva fare …) nella parte iniziale tutti i dati personali riguardanti il Galateo, per finire più in bellezza rispetto a come aveva iniziato e proseguito, il Tresca mostra di voler essere recidivo con la sua intenzione di fare la stessa operazione con un’altra opera del Galateo. E così fu puntualmente. Nel manoscritto-dossier la quinta lettera, datata Gallipoli li 6 Febraro 1775, la Descrizione della città di Gallipoli occupa le carte 101r-124r.
Non è da escludere che, se avrò tempo da perdere, me ne occupi con la stessa procedura …
_____________
1 Di altro colpevole, ma sempre ai danni dello stesso autore scippato oggi, per quanto il reato sia meno pesante: https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/05/14/se-non-e-plagio-ditemi-voi-cose/.
Un caso meno appariscente in https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/02/06/pasquale-oronzo-macri-e-nicola-maria-cataldi-duecento-anni-dopo/.
2
https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/24/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-15/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/08/mesagne-luca-antonio-resta-vescovo-laffumicato/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/25/taranto-suo-stemma/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/07/la-grecia-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803/
3 Di lui risulta pubblicato solo il sonetto inserito in Poesie italiane, e latine del sig. d. Damiano Romano avvocato fiscale della sacra regia Udienza di Lecce dedicate all’illustriss. sig. il signor marchese d. Bernardo Tanucci, Viverito, Lecce, 1739
4 Per fortuna questo lavoro del Tresca non fu pubblicato. Ad ogni modo, essendosi salvato il manoscritto, il leccese avrebbe fatto una figura migliore, se avesse optato sic et simpliciter per una traduzione dichiarata del De Situ Iapygìae, seguendo, oltretutto, una prassi consolidata nei secoli precedenti e successivi di dedicare a qualche personaggio importante la traduzione di un’opera famosa. E in questo sarebbe stato il primo, precedendo le traduzioni ottocentesche di Vincenzo Dolce, Rusconi Napoli, 1853, di Gaiancamillo Frezza, Del Vecchio, Lecce, 1853 e di Salvatore Grande, Tipografia Garibaldi di Flascassovitti e Simone, Lecce, 1867.
5 Di Francesco Maria nel Dizionario Biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto, Lacaita, Manduria, 1999, p. 61 è segnalato pure un sonetto in lode di Giuseppe Ruffo inserito in Componimenti vari in lode di Giuseppe Ruffo Vescovo di Lecce, Benevento, 1737. Per il fratello Berardino, oltre alla dedica e ai due sonetti inseriti nell’opera di Francesco Maria rispettivamente alle pp. 3-7, 8 e 288, il citato dizionario ricorda un altro sonetto inserito in Raccolta dei componimenti in lode di Carlo Borbone re delle due Sicilie, Lecce, 1745.