di Armando Polito
(La prima immagine è tratta da http://www.brundarte.it/2018/12/05/professioni-mestieri-lecce-nel-1700/, la seconda da http://www.me123456.altervista.org/joomla/index.php/che-bella-foto/60-che-bella-foto/851-la-carratizza.html e la terza da https://www.pinterest.it/pin/59602395044422142/?lp=true)
Il progresso in generale e in particolare quello tecnologico dei nostri tempi ha già consegnato tanti strumenti non alla pensione ma, bene che vada, a qualche negozio di antiquariato, se non, come di solito succede, a quell’anticamera della rottamazione che chi parla bene ma senza rendersi conto di essere schiavo del consumismo, chiama obsolescenza.
La carratizza era una botte (poi un cilindro metallico) di dimensioni superiori alla media, che, sistemata su un carro agricolo, assolveva a più di una funzione. Non voglio mescolare il sacro con il profano, ma tant’è: la carratizza faceva la stessa cosa oggi fatta dall’autoespurgatore, solo che allora tutte le fasi dell’operazione erano condotte manualmente. La carratizza poi (non quella stessa …) al tempo della vendemmia veniva utilizzata per il trasporto del mosto e durante tutto l’anno per quello dell’acqua.
Suo figlio può essere considerato, date le dimensioni decisamente più ridotte, il carritieddhu, ove si conservava il vino.
L’uno e l’altro, poi, hanno come antenato il carru (carro). In particolare carratizza è forma aggettivale di origine deverbale: dal latino medioevale carrare (caricare su un carro). Al participio passato (carrata) si è aggiunto il suffisso –izza (dal latino –itia come in fittizia da ficta, participio passato di fingere). Carratizza, dunque, alla lettera significa (botte) destinata ad essere caricata, posta su un carro. Ricordo inoltre che, mentre dal latino carrare in italiano nulla è derivato, il salentino, aggiungendo in testa la preposizione in (la cui i- poi ha subito l’aferesi, ha sviluppato ‘ncarrare che vuol dire premere. È intuitivo il nuovo concetto dal momento che, per lo sfruttamento ottimale dello lo spazio a disposizione, gli oggetti su un carro, come in una valigia, vanno posti a stretto contatto, pur non premendoli l’uno contro l’altro. Questo avveniva, invece, quando si conservavano i fichi secchi nella capasa o nei più piccoli capasone e capasieddhu1 e credo che tale operazione assolvesse anche alla funzione di garantire una migliore conservazione essendo minore la quantità di aria in circolazione nel recipiente. Nna pòscia ti fiche ‘ncarrate (alla lettera: una tasca di fichi secchi pressati era per i ragazzini dei tempi che furono quello che oggi il più costoso e alla moda panino firmato McDonald’s. Tornando a carratizza, sempre a quei tempi la voce veniva usata anche metaforicamente nel significato di grande quantità in espressioni come quiddhu tene nna carratizza ti sordi o, ancora più ad abundantiam, quiddhu tene sordi a carratizze. Credo che il riferimento principale fosse alle dimensioni della botte, ma non ne escluderei uno alla sua importanza in un’economia in cui la coltivazione della vite era tra le più rilevanti attività. Ad ogni modo si intuisce che, quando si usa una metafora del genere con appartenenti a generazioni recenti, è d’obbligo, per farsi capire, spiegare come stanno le cose …
Carritieddhu, invece, ha il suo esatto corrispondente nell’italiano caratello, con la differenza che ha conservato la doppia r di carrata ma ha cambiato la seconda a a in i, forse per influsso di carisciare, corrispondente formalmente e semanticamente all’italiano carreggiare) e di carisciola (rotaia lasciata dal passaggio di un carro o, per metafora, traccia di un liquido o di un solido come la farina che si versa da una fessura o, in qualche modo cola, come, per esempio, le gocce di acqua che cadono dall’impermeabile o dall’ombrello dopo essere entrati in un ambiente chiuso). In questo mondo strampalato, in cui la cementificazione selvaggia ha divorato il paesaggio e lo spazio, ci consoliamo con le miniature di alberi, cioé con i bonsai e, per quanto riguarda il tema di oggi, con un minuscolo esemplare di carritieddhu, magari relegato, vuoto, in un angolo della cucina …
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PROFESSOR POLITO. Finalmente uno che conosce la lingua Italiana ed il dialetto neritino e sa che le parole italiane che terminano con LL+VOCALE (cavaLLO, gaLLO, ucceLLO, queLLO, marteLLO, ) le traduce in modo corretto nel dialetto neritino.
Purtroppo, molti neritini ( anche coloro che si definiscono dotti, saggi e colti) dimenticano che nel nostro dialetto difficilmente pronunciamo la lettera R e quei termini li scrivono nel nostro dialetto con i suffissi DDR+vocale ( cavaDDRU, iaDDRU, ceDDRU, quiDDRU, martieDDRU). Mentre, a mio avviso ed anche secondo il qualificato Prof. Polito, a Nardò dialettalmente dovrebbe usarsi il suffisso DDH-VOCALE e quei termini si dovrebbero scrivere cavaDDHU, iaDDHU, ceDDHU, quiDDHU, martieDDHU, carritieDDHU, ETC.
Prof. Polito, Lei che di grammatica greca, latina, italiana ed anche neritina se ne intende, anche ad alto livello, su FONDAZIONE TERRA D’OTRANTO, dovrebbe scrivere un’apposito articolo per far capire ai NARDIATI come si scrivono e si pronunciano certe parole dialettali.
Ringrazio in anticipo. Salvatore Calabrese
Già fatto, e da tempo: https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/01/il-solito-dubbio-di-trascrizione-per-un-fonema-salentino/