di Armando Polito
L’importanza di una città si misura attualmente più dalle iniziative di carattere economico che essa è in grado di prendere e, per lo più, visti i risultati, anche quelle culturali, pubbliche o private sono soggette alle prime, in ultima analisi non a favore della conoscenza, ma del profitto, per giunta di pochi; e per quelle pubbliche resta quanto meno il sospetto che il popolare, per non dire godereccio, serva solo da comodo alibi per coltivare il consenso, nella più bieca applicazione dell’antico panem et circenses. D’altra parte nell’immaginario collettivo qualsiasi circolo culturale continua ad apparire come un ambiente esclusivo più che inclusivo, come una nicchia elitaria. Le accademie, per entrare nello specifico, non nascono certo oggi e, comunque, costituiscono la spia principale della vivacità culturale di una comunità, anche quando il loro nome non sembra essere indizio di serietà (un esempio pugliese: L’Accademia del lampascione di San Severo). La soluzione è facilmente intuibile: favorire un punto d’incontro tra un'”intellettualità” sovente schizzinosa, gelosa e narcisistica (quando non supponente) e una “popolarità” forse anche superficiale, ma per il cui innalzamento culturale si fa sempre meno, e non solo per colpa dell'”intellettualità” di prima.
Sotto questo punto di vista non saprei dire come Nardò stia messa oggi, ma mi piace ricordare con una punta d’amarezza da laudator temporis acti la sua situazione nel XVIII secolo.
Già agli inizi del precedente il duca Belisario Acquaviva d’Aragona vi aveva fondato l’Accademia del Lauro e dopo la sua estinzione per iniziativa del vescovo Cesare Bovio nacque l’Accademia degli Infimi, che prosperò fino alla fine del secolo XVII.
Il post di oggi è ambientato nel secolo XVIII (più precisamente nel 1721), quando, per iniziativa della duchessa Maria Spinelli, nacque l’Accademia degli Agitati. Essa raggiunse l’apice della fioritura e della fama nel 1725, grazie al patrocinio di Cesare Michelangelo d’Avalos d’Aquino d’Aragona, marchese di Pescara e del Vasto. Egli ne fu principe perpetuo col nome di Infaticabile, Console fu Francesco Antonio Delfino, soci furono Giovanni Giuseppe Gironda marchese di Canneto col nome di Audace, l’abate Girolamo Bados col nome di Ravveduto, Giuseppe Salzano de Luna col nome di Luminoso, Scipione di Tarsia Incuria col nome di Ardito, Domenico Parisi col nome di Intrattabile e Mattia de Pandis col nome di Nadisco.
Una rapida scorsa ai nomi (quelli originali) nonché ai titoli fa capire come non ci fosse un legame diretto tra la maggior parte dei personaggi citati e Nardò, fatta eccezione, forse, per Francesco Antonio Delfino, Domenico Parisi e Mattia de Pandis, i cui cognomi erano diffusi a Nardò in quel tempo (quelli degli gli ultimi due ancora oggi). Paradossalmente, però, c’è da dire che il loro interesse per Nardò non era certo casuale e, da qualsiasi sentimento fosse dettato, esso era una prova della considerazione, anche politica, di cui la città godeva. Se il rapporto tra Maria Spinelli di Tarsia e Nardò (e, per via di una probabile parentela con lei anche quello di Scipione di Tarsia Incuria, casato diffuso a Conversano), era scontato e si intrecciava pure con la sua storia pregressa (la duchessa era moglie di Giulio Antonio IV Acquaviva, undicesimo duca di Nardò e ventitreesimo conte di Conversano), quello degli altri esige un discorso più lungo. Comincio da Cesare Michelangelo d’Avalos d’Aquino d’Aragona (1667-1729), feldmaresciallo, oltre che principe del Sacro Romano Impero, con una collezione impressionante di ulteriori titoli nobiliari. DI seguito il suo ritratto (tavola tratta da Domenico Antonio Parrino, Teatro eroico, e politico dei governi de’ vicere del regno di Napoli dal tempo del re Ferdinando il Cattolico fino al presente, Parrino e Mutii, Napoli, 1692), un tallero del 1706 (immagine tratta da Simonluca Perfetto, Demanialità, feudalità e sede di zecca. Le monete a nome di Don Cesare Michelangelo d’Avalos per i marchesati di Pescara e del Vasto, Vastophil, Vasto, 2012), in questo caso moneta di ostentazione, cioè di rappresentanza, poco più che una medaglia, che gli Asburgo gli avevano concesso di coniare dal 1704, quando si trovava in esilio a Vienna, e una medaglia del 1708 (immagine tratta da http://www.tuttonumismatica.com/topic/3960-medaglia-di-cesare-michelangelo-davalos/).
Al dritto: busto di Cesare Michelangelo con parrucca, corazza e tosone d’oro al collo; legenda: CAES(AR) DAVALOS DE AQUINO DE ARAG(ONIA) MAR(CHIO) PIS(CARAE) ET VASTI D(UX) G(ENERALIS) S(ACRI) R(OMANI) I(MPERII) PR (INCEPS) [Cesare d’Avalos d’Aquino d’Aragona marchese di Pescara e duca di Vasto principe generale del Sacro Romano Impero).
Al rovescio: stemma familiare con legenda: DOMINUS REGIT ME ANNO 1706 [Il signore mi guida anno 1706)
Al dritto: due fasci di spighe di grano legate da nastri svolazzanti, sui quali si legge: FINIUNT PARITER RENOVANTQUE LABORES [Le fatiche allo stesso modo finiscono e ricominciano] su quello di sinistra e SERVARI ET SERVARE MEUM EST [È cosa mia essere rispettato e rispettare] su quello di destra. Entrambi i motti fanno parte della storia del casato per la linea maschile e per quella femminile1.
Non è dato sapere quale motivo più o meno recondito rese Cesare Michelangelo mecenate a favore di Nardò, ma è certo che ben poco si sarebbe saputo dell’Accademia degli Agitati (come successo per tante altre della cui produzione poco o nulla fu pubblicato) senza la Compendiosa spiegazione dell’impresa, motto, e nome accademico del Serenissimo Cesare Michel’Angelo d’Avalos d’Aquino d’Aragona che Giovanni Giuseppe Gironda, come s’è detto, uno dei soci, pubblicò per i tipi di Felice Mosca a Napoli nel 1725 (integralmente leggibile in https://books.google.it/books?id=o3peAAAAcAAJ&pg=PA6&dq=compendiosa+spiegazione+michelangelo+D%27AVALOS&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwic9Z6L7_zkAhULjqQKHfTPDbgQ6AEIKDAA#v=onepage&q=compendiosa%20spiegazione%20michelangelo%20D’AVALOS&f=false).
Giovanni Giuseppe, figlio di Alfonso, fu il quarto marchese di Canneto dal 1708 (feudo ceduto nel 1720 alla famiglia Nicolai, mantenendone però il titolo), Patrizio di Bari, primo Principe di Canneto dal 1732.
Il volume ospita un nutrito numero di componimenti dei soci che ho citato all’inizio ed a breve leggeremo quelli in cui compare espressamente il nome di Nardò. Prima, però, intendo dire qualcosa sui soci fin qui trascurati. Girolamo Bados potrebbe essere colui che ebbe una controversia col lucchese Alessandro Pompeo Berti (1686-1752), che ne lascio memoria in Se fosse maggior dignità il Consolato,o la Dittatura nella Repubblica Romana. Controversia col Sig. Abate Girolamo Bados, opera manoscritta di cui è notizia in Giammaria Mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia, Bossini, Brescia, 1760, v. II, p. II, p. 1038. Per Giuseppe Salzano de Luna (nel volume del Gironda è detto Cavaliere) null’altro posso ipotizzare se non l’appartenenza a quel casato napoletano. Nello stesso volume Domenico Parisi appare col titolo di Segretario di S. A. e Francesco Antonio Delfino come abate.
Siamo giunti, finalmente, alle poesie dedicate a Nardò, tutte del Gironda: cinque in lingua latina [quattro in distici elegiaci (nn. 1, 2, 3 e 5), una in strofe alcaiche (n. 4)] ed una in italiano (un sonetto, n. 6), rispettivamente alle pp. 64-66, 66-67, 67-68, 71-73, 74 e 75. Una nota filologica preliminare: del toponimo la forma adottata è, come vedremo, Neritos, con il derivato aggettivo Neritius/a/um, il quale, nel latino classico significa di Nerito (monte di Itaca citato da Omero).
Appare evidente l’ipotesi, a quel tempo dominante2, di un legame tra Ulisse e Nardò, ipotesi durata a lungo ma poi abbandonata a favore della derivazione del toponimo da una radice indoeuropea nar che significa acqua. Nella trascrizione ho rispettato il testo originale, comprese le iniziali maiuscole e la punteggiatura, mentre nella traduzione, che mi sono sforzato di rendere quanto più letterale possibile (rispettando anche la corrispondenza del verso, tuttavia senza la velleità di fornire una traduzione poetica), ho fatto prevalere l’uso moderno. Per quanto riguarda le note di commento non mi illudo che esse (in particolare quelle con riferimenti alla mitologia) suscitino curiosità nel giovane lettore, ma non dispero che risveglino qualche ricordo, non necessariamente gradito se ha frequentato il liceo classico …, in chi, più o meno, ha la mia stessa età.
1) (pp. 64-66)
2) ( pp. 66-67)
3) (pp. 67-68)
4) (pp. 71-73)
5) (p. 74)
6) (p.75)
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1 Finiunt pariter renovantque labores era stato già il motto dell’Accademia dei Pellegrini fondata a Venezia nel 1550 (Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, Tipografia Emiliana, Venezia, 1858, v. XCI, p. 348 alla voce Venezia), ma esso nello stesso periodo risulta confezionato da Paolo Giovio (1483 circa-1552) secondo quanto si legge nel Dialogo dell’Imprese militari di Monsignor Paolo Giovio Vescovo di Nucera uscito postumo per i tipi di Antonio Barre a Roma nel 1555. Dall’edizione uscita per i tipi di Guglielmo Roviglio a Lione nel 1559 alle p. 103-104 si legge: Hora queste spighe del signor Theodoro mi riducono à memoria l’impresa, ch’io feci al Signor Marchese del Vasto, quando dopò la morte del Signore Antonio da Leva fù creato Capitan Generale di Carlo Quinto Imperatore; dicendo egli , che à pena eran finite le fatiche , ch’egli aveva durate per esser Capitano della fanteria, ch’egli era nata materia di maggior travaglio; essendo vero, che ‘Generale tiene soverchio peso sopra le spalle: gli feci dunque in conformità del suo pensiero, due covoni di spighe di grano maturo con un motto, che girava le barde e le fimbrie della sopravvesta, e circondava l’impresa nello stendardo; il qual motto diceva FINIUNT PARITER RENOVANTQUE LABORES ; vol end’io isprimere, che à pena era raccolto il grano, che nasceva occasion necessaria di seminarlo per un’altra messe, e veniva à rinovar le fatiche de gli aratori. E tanto più conviene al soggetto del Signor Marchese, quanto che i manipoli delle spighe del grano furono già gloriosa impresa guadagnata in battaglia da Don Roderigo Davalos bisavolo suo, gran contestabile di Castiglia. E a p. 102 compare l’immagine seguente.
Lo stesso Bovio risulta essere il creatore pure di Servari et servare meum est. AlLe pp. 100-101 della stessa opera si legge: E poi che siamo entrati nelle donne, ve ne dirò un’altra [impresa], ch’io feci all’elegantissima Signora Marchesa del Vasto Donna Maria d’Aragona, dicendo essa, che sì come teneva singolar conto dell’honor della pudicitia, non solamente la voleva confermare con la persona sua, ma anchora haver cura,che le sue donne, donzelle e maritare per istracuraggine non la perdessero. E perciò teneva una disciplina nella casa molto proportionata à levare ogni occasione d’huomini e di donne, che potessero pensare di macchiarsi l’honor dell’honestà. E così le feci l’impresa che voi avete vista nell’atrio del Museo, la quale è due mazzi di miglio maturo legato l’uno all’altro, con un motto, che diceva:SERVARI ET SERVARE MEUM EST, perche il miglio di natura sua, non solamente conserva se stesso da corruttione, ma anchora mantiene l’altre cose,che gli stanno appresso, che non si corrompano, sì com’è il reubarbaRo e la Canfora, le quali cose pretiose si tengono nelle scatole piene di miglio, alle botteghe de gli speciali, accio ch’elle non si guatino.
E a corredo a p. 100 la relativa immagine.
2 Giovanni Bernardino Tafuri in Dell’origine, sito, ed antichità della città di Nardò, in Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, Zane, Venezia, tomo XI, 1735, p. 33 scrive di un anonimo scrittore del quale cita un piccolo frammento trascritto da Bartolomeo Tafuri nel suo lavoro manoscritto dal titolo Mescolanze: Neritini, qui Chones etiam vocabantur ab Ithacae monte ob magnam aquae penuriam expulsi Salentinam Provinciam petierunt, et inter alias Civitates, et loca Neritonem urbem aedificavere, et tale nomen illi imposuere ob eorum relictam Patriam in monte Ithacae, de qua meminit Homerus, et Vergilius (I Neritini , che erano chiamati anche Coni, banditi dal monte di Itaca per la grande penuria d’acqua raggiunsero la provincia salentina e tra le altre città e luoghi edificarono la città di Nardò e le diedero tale nome per la loro patria lasciata sul monte di Itaca, della quale hanno lasciato un ricordo Omero e Virgilio). Per completezza riporto di questi due autori i passi relativi:
Omero, Iliade, II, 632-633: Αὐτὰρ Ὀδυσσεὺς ἦγε Κεφαλλῆνας μεγαθύμους,/οἵ ῥ᾽ Ἰθάκην εἶχον καὶ Νήριτον εἰνοσίφυλλον (Poi Odisseo comandava i coraggiosi Cefaleni, che abitavano Itaca e Neritoche agita le foglie)
Omero, Odissea IX, 21-22: Ναιετάω δ᾽ Ἰθάκην ἐυδείελον· ἐν δ᾽ ὄρος αὐτῇ/Νήριτον εἰνοσίφυλλον, ἀριπρεπές, ἀμφὶ δὲ νῆσοι (Abito la tranquilla Itaca; in essa lo splendido Nerito che agita le foglie, isole intorno)
Virgilio, Eneide, III, 270-271: Iam medio apparet fluctu nemorosa Zacynthos/Dulichiumque Sameque et Neritos ardua saxis (Già in mezzo al mare appare la boscosa Zacinto e Dulichio e Same e Nerito scoscesa di rocce).