di Armando Polito
Il tempo dedicato al sonno ha visto utilizzare prima la nuda terra, poi un semplice strato di foglie, più in là un rudimentale materasso costituito da un sacco riempito di paglia e detto perciò saccone, quindi la sua evoluzione con la lana al posto della paglia e, via via, il materasso a molle, quello ad acqua, quello di lattice e, infine, quello al memory, un materiale speciale inventato dalla Nasa per gli astronauti.
Il cacchiame era il materiale del secondo modello descritto, cioè un insieme di steli di paglia di orzo contenuto in un sacco dalle giuste dimensioni. La voce, collettiva come quelle in italiano terminante in –ame (cascame, cordame, cuoiame, fasciame, pellame, etc. etc.) è derivata da càcchiu, che, come l’italiano cappio, è dal latino capulu(m), che significa impugnatura, manico, a sua volta dal verbo càpere, che significa afferrare. Molto prima che il gaucho argentino o il cow-boy nordamericano usasse il lazo (nome spagnolo, ma dal latino laqueum, lo stesso che in italiano ha dato laccio), il ragazzino salentino1 esercitava il suo infantile, non so fino a che punto inconsapevole, sadismo catturando lucertole con uno stelo verde di grano o altro cereale, avente un’estremità piegata e annodata sul resto a formare un cappio. E questo non immediatamente individuabile rapporto concettuale tra càcchiu e cacchiame, sfuggito al Rohlfs che nel suo vocabolario non ne dà l’etimo, è destinato a diventare sempre più impalpabile, mentre cacchiame sopravvive ormai solo nei racconti dei vecchi o in qualche romanzo ambientato nel passato.
Com’è noto, càcchiu (e in italiano càcchio) è usato anche come sostituto eufemistico di cazzo. Siccome omnia munda mundis (tutto è puro per i puri; ma qui puro io sarei solo per l’intento divulgativo che in questa occasione mi anima) non posso non far rilevare come il decremento demografico sia stato direttamente proporzionale all’evoluzione del materasso: moltissimi figli quando c’era quello di cacchiame, pochissimi ora che c’è il memory. Direi, adattando un altro detto latino e chiedendo scusa per questa battuta finale forse più cretina che maliziosa, che col cacchiame similia similibus curabantur (le cose simili si curavano con cose simili). E lascio all’arguzia del lettore individuare i due elementi simili nella speranza che questa mia conclusione non sia sfruttata da qualche sociologo da strapazzo come base per qualche suo studio strapazzo …
______
1 Oggi pure qualcuno cresciutello che immortala in rete la sua impresa, una volta tanto incruenta, per fortuna della lucertola e ad onore della nostra umanità: https://www.youtube.com/watch?v=xkXp61VStfE
E quale sarebbe la relazione logica tra cacchiu, cappio e cacchiame? Non credi che andrebbe meglio palea, paglia, da cui paja → pajame col suf. me, quindi cacchiame?
Stelo di orzo con deviazione semantica verso cacchiu (particolare utilizzo, più o meno infantile, ricordato) e, con l’aggiunta del suffisso, ritorno al significato originario ma con valenza collettiva (insieme di steli). Per quanto riguarda pajame>cacchiame, mentre nessuna difficoltà porrebbe il passaggio p->c- (ma manca, comunque, “cajame”), bisognerebbe spiegare l’esito -ja->cchia-. E non vedo perché a Nardò (cui faccio riferimento per quanto riguarda l’uso), essendo “paglia” “pagghia”, ci sia “cacchiame” e non “pagghiame”.