di Armando Polito
Il suo nome pastorale era Alnote Driodio e, se nella scelta di Alnote non ho idea a chi o a cosa si sia ispirato, per Driodio posso solo ipotizzare che si tratti di un nome composto dal greco δρύς (leggi driùs) che significa quercia e ὅδιος (leggi òdios) che significa relativo alle strade, per cui l’allusione sarebbe alla predilezione per i percorsi boschivi, abitudine più che legittima per un pastore arcade che, come vedremo, nei suoi componimenti nomina spesso la quercia. In Arcadia era entrato il 9 giugno 17051.
Di lui mi sono già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/04/donato-maria-capece-zurlo-di-copertino-poeta-e-agente-del-fisco/, dove il lettore potrà trovare più dettagliate notizie biografiche. Qui si intende integrare quanto lì già detto con la riproduzione del testo, con il mio commento, di tutti i suoi componimenti sparsi in raccolte e che sono stato in grado di reperire.
Un primo, cospicuo gruppo, è in Componimenti in lode del nome di Filippo V monarca delle Spagne, recitati dagli Arcadi della colonia Sebezia il dì 2 di maggio 1706 nel Regal Palagio e pubblicati per ordine di Sua Eccellenza dal Dottor Biagio Majola De Avitabile, Vice-Custode della stessa colonia, Parrino, Napoli, 1706, pp. 40-46 e 59-62 (la numerazione romana è mia e continuerà anche per i componimenti di altre raccolte).
I
Che merta1, e avrà di tutto il Mondo impero
dividendo il dominio egli2 con Giove,
giust’è, Lileia3; e a me forz’è, ch’approve
de la tua saggia mente il bel pensiero.
Vanti pur chi che sia superbo, e altero,
o le passate glorie, o pur le nove;
fiso è nel Ciel, che il gran Nome rinove
del primo Augusto i giorni; altro io non chero4.
E presso ‘l fonte, ove tu bella meni
l’armento ,teco assiso a l’aura fresca,
o qual nobil corona intesser voglio;
se delle antiche idee i’ non mi spoglio,
tra quercie, olivo, mirto, e lauri ameni
farò, che ‘l Giglio d’oro5 il pregio accresca.
1 meriti
2 Filippo V
3 Alle pp. 397-405 di Rime scelte di poeti illustri de’ nostri tempi, Frediani, Lucca, 1709, vi sono alcuni sonetti di Biagio Maioli d’ (nome pastorale Agero Nonacride) , fra i qualia p. 403 quello in risposta ad uno di Teresa Francesca Lepoz (errore per Lopez; nome pastorale: Sebetina Lileia) per la tragedia Felindo.
4 chiedo; dal latino quaero.
5 Nello stemma di Filippo V compaiono gigli inquartati d’azzurro.
II
Farò, che ‘l Giglio d’oro6 il pregio accresca7
d’ambe l’Esperie8 a le famose genti;
e l’alloro real serto diventi
di gloria, e di valore, e seme, ed esca9;
e tanto del gran Nome il vanto cresca,
sin che foran10 del Sole i raggi spenti;
o che l’Arcade11 in fin del Ciel rallenti
l’asse12, che di rotar non già gl’incresca13.
E solcando lassuso ormai Boote14
le celesti campagne, anco rivolga
le bellicose, e le benigne stelle.
Da polo a polo separando quelle,
dal nostro ogni maligno influsso tolga,
e mandi pace chi n’è donno15, e pote.
6 Vedi la nota 5 di II.
7 In questo, come nei sonetti successivi fino al n. VII, viene ripreso il verso del precedente.
8 Ἐσπερία (leggi Esperìa), da ἐσπέρα (leggi espèra) che significa sera, occidente, in latino Espèria, era il nome con cui i Greci definivano l’Italia posta ad occidente della Grecia. Qui (siamo in piena guerra di successione tra Spagna e Francia) la voce ha il significato estensivo di Europa.
9 alimento
10 saranno
11 il pastore d’Arcadia
12 Insieme con il precedente sin che foran del Sole i raggi spenti è la figura retorica (consiste nel subordinare l’avverarsi di un fatto a un altro ritenuto impossibile) detta adynaton, che è dal greco ἀδύνατον (leggi adiùnaton), che significa cosa impossibile.
13 rincresca
14 Una delle costellazioni.
15 signore, padrone (in questo caso è Dio); dal latino dominu(m)>*domnu(m) per sincope>donno per assimilazione.
III
E mandi pace chi n’è donno, e pote
a l’Europa, che giace oppressa, e geme
sotto ‘l gravoso d’armi incarco, e freme
più fiero Marte, e regni abbatte, e scote;
e la porti volando a genti ignote
ne le lungi dal Mondo isole estreme,
o dove il Sol non giunge, o dove preme
le fiere il ghiaccio, e le contrade vote.
Che dove di Filippo il Nome impera,
e va col dì girando a paro a paro,
deve il Mondo goder tranquilla pace;
qual’è16 lungo il Sebeto17, ove si giace
l’armento a l’ombra, e ‘l Pastorello caro
presso a l’amata Safirena18 altera19.
16 Sic, ma a quel tempo era forma regolarmente in uso.
17 Antico fiume di Napoli. La sezione napoletana dell’Arcadia Romana (Sebezia) prese il nome da esso.
18 Safirena è il nome dell’autrice del componimento che chiude la raccolta; non credo, però, che sia il nome pastorale parziale di una poetessa dell’Arcadia e perché non è presente in nessun catalogo di questa accademia e perché in Rime scelte di poeti illustri de’ nostri tempi Rime scelte di poeti illustri de’ nostri tempi, op. cit., a p. 400 in un componimento di Biagio Maioli d’Avitabile si legge: Appressarsi vid’io dal lato monco/due Ninfe altere, Safirena, ed anco/Silvia, delle più belle, e più vezzose. Vedi anche la nota 20 di IV.
19 superba
IV
Presso a l’amata Safirena altera
cerca anco Agero20 pace, e intesse il serto
al gran Monarca Ibero21, ond’è, che ‘merto
maggior suo mostri, e la sua gloria intera.
Adorni il forte crin nuova maniera
di quercia, e alloro, che salito a l’erto
colle, ove per cammin dubbioso, e incerto
seco congiunse la gran donna fiera22.
Ond’è che ‘sacro olivo al capo augusto,
di perpetuo riposo i segni apporti,
e di feconda, e gloriosa prole23;
e così di trionfi e carco, e onusto,
dopo secoli molti a le sue sorti
cedendo no, ma vivo al ciel ne vole.
20 Dietro Agero si nasconde Biagio Maioli d’Avitabile , che pubblicò la raccolta, il cui nome pastorale, come s’è detto, era Agero (perché nativo di Agerola) Nonacride, fondatore della colonia Sebezia. Pubblicò Lettere apologetiche-teologico-morali scritte da un dottor napoletano a un letterato veneziano, Offray, Avignone, 1709. Un suo sonetto è in Rime e versi per le nozze degli Eccellentissimi Signori Giacomo Francesco Milano Franco d’Aragona, Principe di Ardore, ed Arrighetta Caracciolo de’ Principi di Santobuono, Ricciardo, Napoli, 1725, p. XXXIX.; un altro in Francesco Martello (a cura di) Laudi Mariane, Tipografia all’insegna dell’ancora, Napoli, p. 84. In rapporto a quanto detto nella precedente nota 18 si ha la conferma che Safirena sarebbe un nome di fantasia, non arcadico e, dunque non corrispondente ad una persona reale.
21 Filippo V di Spagna.
22 Maria Luisa di Savoia con cui Filippo V si era sposato nel 1701 in prime nozze.
23 Dalla coppia nacquero quattro figli (il primo, Luigi, il 25 agosto 1707 (la recita cui fa riferimento il titolo della raccolta era avvenuta il 2 maggio dell’anno precedente).
V
Cedendo no, ma vivo al ciel ne vole
dopo secoli molti il gran BORBONE,
e vincitor in fiera aspra tenzone,
scorra per quanto scopre, e gira il Sole.
Onde fia breve spazio l’ampia mole
per le sue glorie: e poche al paragone
del gran Nome saran l’alte corone
tutte, e quante pur darne il Mondo suole:
che maggior’è del gran FILIPPO il merto
emulator de l’Avo Re24, che Grande
poggiò sul colle faticoso, ed erto;
e giunse per sentier mai non impresso
col suo saper, con l’opre memorande,
ad altri, u’25 di salir non fu concesso.
24 Luigi XIV, di cui Filippo V era nipote.
25 dove
VI
Ad altri, u’ di salir non fu concesso,
fu Duce al gran NIPOTE26 il gran LUIGI27,
e segnando di lui gli alti vestigi28,
poggia su de la gloria un tempo istesso:
e con un marchio eternamente impresso,
a scorno del Danubio, e del Tamigi,
faranno i cuori tutti a’ lor piè ligi
per quanto mira il Sol lungi, e da presso.
Tornerà da per tutto il secol d’oro:
stillerà mele il bosco, e nutriranno
l’erbe fresche, a l’armento ora nocive.
Ed o qual de’ Pastor sarà il ristoro?
Qual sarà la mia bella? *29 e quai saranno
le Pastorelle ora ritrose, e schive? **
26 Filippo V
27 Luigi XIV
28 orme
29 Non riesco a comprendere la funzione di quest’asterisco e dei due successivi (che, fra l’altro, non compaiono nel verso iniziale del componimento successivo)
VII
Le Pastorelle ora ritrose, e schive
diverran tutte miti a’ lor Pastori,
e adorneranno co’ novelli fiori
le fronti sotto l’ombre a l’aure estive.
E pronta ogn’una al suon di dolci pive30
dirà l’istoria de’ passati amori;
spargendo a l’aria i suoi più cari ardori,
de’ fiumi innamorar farà le rive.
Benché tra duri affanni il forte Alnote31,
colpa d’empio destin, molto ha sofferto,
offre in tanto col cuor fido, e sincero,
bello vie più che mai quanto esser pote
d’olivo, quercia, lauro, e mirto il serto
tra gli aurei Gigli32 al gran Monarca Ibero33.
30 zampogne
31 Alnote Driodio era il nome pastorale dell’autore.
32 Vedi la nota 5 del componimento I.
33 Filippo V di Spagna.
VIII
Spirto gentil, che da celeste soglia
per sentiero di luce a noi scendesti,
cui sol di fregio, onde t’adorni, e vesti
non già d’incarco34 è la corporea spoglia.
Non t’incresca or, che lungo stame avvoglia35
per Te la Parca36, e l’abitar fra questi
confini, a l’ampio ingegno tuo molesti,
soffri anco a nostro pro37 con lieta voglia.
Ch’accio ti sia men grave, e no ‘l disdegne
diè il suo maschio fulgor Giove al tuo volto,
Marte alla man de la sua spada il pondo38:
così fornito di divine insegne
non Tu terrestre abitator, ma volto
fia39 per Te in nuovo Cielo il nostro Mondo.
34 peso
35 avvolga
36 In origine da sola, tutelava la nascita. Poi, sulla scorta delle Moire greche (Cloto, Lachesi ed Atropo, che, rispettivamente, filavano, misuravano e recidevano il filo della vita) divennero tre.
37 vantaggio
38 peso (latinismo, da pondus).
39 sarà
IX
Sebethe blandule, atque vos Sebethides
nymphae, et venusta collium cacumina,
quos alluit Thetis alma, Sirenum parens,
quis iste vos insuetus afflavit decor?
Ut nunc nitetis? Ut recens auctà acriùs
nunc dignitate, ac lumine ardetis novo?
Nempè ille vos invisit, à Gallia prius
Iberiam usque, et inde ab ipsa Iberià
ad nos reductus. Ipse vos, teneo probè,
collustrat, ipse nunc PHILIPPUS vos beat.
Utinam tuae illae, Urbs alma, Sirenes, quibus
alios morandi creditur canora vis
inesse, habenda si senum est dictis fides,
tam suave cantent, ille ut intellectum suae
iam postmodum incipiat pigere Hispaniae.
Neu forte probro id ille sibi verti putet,
ille, inquam, honori natus, atque gloriae
quem non voluptas frangat, illecebraque.
Hic namque virtus, atque deliciae simul
constant. Italiae proprium hoc nostrae est decus,
cui larga utrumque contulere sidera
mite solum, et acre ad inclyta ingenium. Haec domus
veraeque virtutis, voluptatumque; ut his
perfusa mens, non obruta, illi etiam vacet.
(Amato Sebeto e voi ninfe del Sebeto e vette leggiadre dei colli, che bagna la benigna Teti, genitrice delle Sirene, che cos’è questo inconsueto decoro che si è sparso su di voi? Come ora vi fate affidamento? Come da poco tempo ardete di una dignità ora alquanto fieramente accresciuta e di una nuova luce? Evidentemente vi ha visti lui riportato prima dalla Francia fino alla Spagna e poi a noi dalla stessa Spagna. Egli, ne sono giustamente convinto, vi onora, ora lo stesso Filippo vi rende felici. Alma città, voglia il cielo che quelle tue Sirene, nelle quali si crede, se bisogna dare fiducia alle parole degli antichi, che ci sia la forza canora di ammaliare gli altri, cantino tanto soavemente che egli subito dopo cominci a provare fastidio per il concetto di Spagna. E non per caso egli potrebbe pensare che ciò gli si rivolga a vergogna, egli, dico, nato per l’onore e la gloria, che non il piacere e le lusinghe potrebbero frantumare . Qui infatti ci sono nello stesso tempo la virtù e le gioie. Questo è l’onore proprio della nostra Italia, cui le stelle donarono l’una e l’altra cosa, il suolo mite e l’ingegno pronto a cose rinomate. Questa è la casa della vera virtù e dei piaceri, sicché la mente pervasa, non distrutta, da questi, ha tempo anche per quella)
X
Monarchia Hispana Galliam alloquitur
Misella Gallia, heus, quid hoc tibi accidit?
Quem tu edidisti, quemque virtutum omnium
lacte imbuisti, iamque suspiciens, tuà
maturiùs spe videras adolescere,
nobis repentè vindicavimus, tuum
in nos decus transtulimus. Ἅλλοι μὲν κάμον,
ὥναντο δ’ἅλλοι, dicimus proverbio.
En ille nunc adultus in sino tuo,
magnique confirmatus exemplis AVI,
germen PHILIPPUS inclytum à stirpe inclytà,
nostras decoraturus advenit plagas.
Sed si qua nostri te invidia pulsat, malam hanc
iam mitte curam. Quidquid est, aequi, ac boni
consulere praestat. An absque praemio hoc putas
abire tibi? Foedus meherclè inibimus,
quo nemo arctius, iam animos iuvat,
sociasque vires iungere. Ecquidnam additis
posthàc, amabò, impervium nobis erit?
Iam iam trucesque Mauri, et omnis Africae
nefanda pestis, Odrysiique, et quisquis est
quem nulla iuris sanctitas, nulla, aut fides,
Deùmve tangit religio, poenas luent,
timidaque nostro colla subiicient iugo.
Utinam quod auspicatus est olim Deus,
cum et mi PHILIPPUM, tibique LODOICUM dedit,
perficiat ipse, et iusta si vota haec probat,
concipere quae nos iussit, his ille annuat.
(La monarchia spagnola parla alla Francia
Misera Francia, che ti è successo? Colui a cui tu desti i natali40, che educasti col latte di tutte le virtù e già contemplante avevi visto troppo presto crescere con la tua speranza, lo abbiamo all’improvviso rivendicato a noi, abbiamo trasferito il tuo onore nel nostro. Alcuni si affaticano, altri ereditano41, diciamo con un proverbio. Ecco quegli ora adulto nel seno tuo e rafforzato dagli esempi dell’avo42, Filippo, germe famoso di stirpe famosa, è giunto alle nostre terre per portare onore. Ma, se qualche nostra invidia ti turba, manda via questa cattiva preoccupazione. Checché ci sia di equo e di buono conviene decidere. O ritieni opportuno per te star lontano da questo premio? Per Ercole, daremo inizio ad un patto con il quale nessuno ancora è capace di unire più strettamente gli animi e le forze alleate. Cosa mai, per favore, sarà impervio poi per noi dopo che ci saremo aggiunti? Ormai ormai i selvaggi Mauri ed ogni nefanda peste d’Africa e i Traci e chiunque c’è che non è toccato da alcuna santità del diritto o da nessuna fede o religione degli Dei, pagano le pene e sottomettono al nostro giogo i timidi colli. Voglia il cielo che ciò che un tempo Dio auspicò quando diede a me Filippo e a te Ludovico, lo mandi a compimento e se approva questi giusti desideri arrida a quelle cose che ci ordinò di pensare)
40 Filippo V era nato a Versailles.
41 Proverbio greco tramandatoci da Zenobio (grammatico del II secolo d. C.) tratto da raccolte più antiche perdute.
42 Luigi XIV
Un gruppo ancora più cospicuo è in Rime scelte di poeti illustri de’ nostri tempi, op. cit., pp. 238-251
XI
Altri di Mida43 l’or, di Creso44 i regni
abbia, e serva45 Fortuna alle sue voglie,
altri in campo guerriero auguste spoglie
tolga, d’immortal gloria eccelsi pegni.
Ad altro Mondo alcun drizzi i suoi legni47,
e per fregiar l’antico, il nuovo spoglie48,
di Socratiche carte altri s’invoglie49,
e ‘l vanto involi50 a’ più sublimi ingegni,
altri canti di Marte i pregi, e l’armi,
e del fiato migliore empia le trombe,
e strider faccia il luttuoso Sistro51.
Degni il mio plettro52 di più molli carmi
Amore, e lieta al gentil suon rimbombe53
di Focide54 la sponda, e del Caistro55.
43 Mitico re della Frigia, cui Dioniso aveva dato la capacità di trasformare in oro tutto quello che toccasse, compreso il cibo. Per non morire, chiese ed ottenne da Dioniso di perdere quel nefasto potere.
44 Re di Lidia famoso per la ricchezza.
44 sottoposta
47 Per metonimia: navi.
48 spogli
49 Può stare tanto per s’avvolga (parallelo all’avvoglia della nota 35; in tal caso vale per si lasci circondare dagli studi filosofici) oppure per s’invogli (si appassioni).
50 elevi
51 Strumento musicale dell’antico Egitto.
52 Per metonimia poesia.
53 rimbombi
54 Antica regione della Grecia; la sponda è quella del fiume Cefiso.
55 Fiume della Lidia.
XII
Le corna al Toro, ed al Lion i denti,
al Cavallo le zampe, il corso56 a’ Cervi,
a’ Pesci il nuoto diè Natura, e servi
fe57 del mobile Augello58 e l’aria, e venti,
che ale diegli a cangiar i luoghi algenti59,
e dove, o Sol, co’ dritti rai60 più fervi,
all’Uom non l’unghie dure, o forti nervi,
ma fe57 sproni d’onor caldi, e pungenti.
Alla Donna per lancia, e per iscudo
diè61 ‘l vago62 viso, che sì il Mondo apprezza.
Così son le sue sorti a ciascun fisse.
E ‘n saldo marmo sì rea legge scrisse:
il ferro, e ‘l foco, non che un petto ignudo,
vinca, chi armata sia d’alta bellezza.
56 la corsa
57 fece
58 uccello
59 freddi, latinismo da algentes.
60 raggi
61 diede
62 grazioso
XIII
Narri omai63 chi per prova intende Amore64,
qual’è65, come ci assale, e punge, e coce
quel suo dardo, che sì ratto, e veloce
entra per gli occhi, e si nasconde al core.
De’ sospir, dell’angoscie, e del dolore
dica, e del pianto, e d’amarezza atroce,
com’è ‘desio66, che qual 67 veneno68 nuoce,
se nell’Inferno sia pena maggiore.
Or’io bramo la vita, or di morire
son vago, or muto resto, ed ora sgrido
contro me stesso, e non incolpo altrui.
Scorrono tarde l’ore del martire,
e di godere un dì lieto diffido69,
perché, Donna, pietà non veggio70 in vui71.
63 ormai
64 chi per esperienza sa cos’è l’amore
65 Vedi la nota 16 di III.
66 desiderio; desio è forse dal latino *desedium, da desidia, (da desidere, che significa stare seduto, composto da de+sedere) che significa ozio, inoperosità, accostato per il significato a desiderium, che è da desiderare composto da de+siderare; questo secondo componente (che significa essere colpito da un malore o da una paralisi, cioè da un influsso maligno degli astri) è in comune con considerare ed è da sidus=astro. Nel latino medioevale, poi, anche assiderare (da ad+siderare), da cui la voce italiana. Riassumendo il rapporto semantico con sidus: in desiderare e considerare è prevalso il concetto di osservare gli astri per trarne auspici, in assiderare quello dell’influsso malefico.
67 come
68 veleno, dal latino venenum.
69 non spero
70 vedo
71 voi
XIV
Amor vidi volar nelle tue gote,
Madonna72, e nido far negli occhi tuoi;
né degna ti credei di star fra noi,
ma del più alto Ciel sull’auree rote73.
Un’immago di sé forse far pote74
l’alma75 natura, e l’ha ritratta poi,
bella in te, qual cristal de’ raggi suoi
imprime il Sol, qualora in lui percote.
Se a rimirar di te mi volgo il vago76
lume77, che con sua luce ogn’altro oscura,
non ha, credo Beltà forme più belle.
E se poi quel rigor, che avare stelle
posero ne’ tuoi sguardi, anche m’appago,
non ha, dico, Onestà legge più dura.
72 Composto da ma (riduzione di mia) e donna, che è dal latino domina(m), che significa signora, padrona, è l’appellativo generico della donna amata particolarmente caro al Petrarca.
73 Viene ripreso il concetto stilnovistico della donna angelo (in particolare e par che sia una cosa venuta
8da cielo in terra a miracol mostrare del famoso sonetto dantesco), con inversione del percorso cielo>terra).
74 può
75 che dà vita; dal latino àlere, che significa nutrire.
76 grazioso
77 sguardo
XV
Poiché in dura prigion di ferro grave
ebbe quel Grande 78 il suo nemico avvinto,
gittonne in mar la chiave, e certo il vinto,
già del suo mal nulla più teme, o pave79.
Tal mentr’io di catena aspra, e soave
sento legato il core, e di duol cinto,
perché non esca mai dal laberinto,
ad Amor, chi l’avea, ne diè la chiave;
ed ei gl’impose legge assai più dura,
di quante a’ suoi prigion’ 80 unqua81 prefisse,
sicché ogni amante per pietà ne pianse
e ‘l mezzo, e ‘l fin della mia vita oscura
nel saldo marmo d’una fronte scrisse
col suo dorato strale82, e poi lo franse.
78 Difficile l’identificazione con qualche personaggio famoso, per cui quel Grande potrebbe essere nenericamente riferito ad un detentore del potere.
79 prova spavento; latinismo (da pavere, che significa aver paura).
80 prigionieri
81 mai; latinismo da unquam.
82 freccia
XVI
Al Sig. Niccolò Amenta83
Quando lo spirto uman per gran tragitto
dall’alto suo principio84 in noi discese,
sue rare doti in numeri comprese
di celeste armonia, siccome è scritto.
Ma poiché alla ragione il suo diritto
sentiero il van desio85 rivolse, offese
tosto, e sconvolse il bell’ordine, e rese
delle potenze discordi il conflitto.
Ma sia fortuna, o sia pur’arte, o incanto,
o portata dal Ciel la nobil Cetra,
Amenta, solo è tuo, non d’altri il vanto,
il di cui suon quella pietate impetra86,
qual non sper’io da un duro cor, e intanto
coll’ordin primo ci solleva all’Etra87.
83 Niccolò Amenta (1659-1719), avvocato, autore di numerose commedie (La Gostanza, Il Forca, La Carlotta, Le gemelle, La Fiammetta, La Giustina, La fante, La Carlotta, La somiglianza), fu arcade col nome pastorale di Pisandro Antiniano. Due sonetti e un epigramma in distici elegiaci sono in Pompe funerali celebrate in Napoli per l’Eccellentissima Signora D. Caterina d’Aragona, Roselli, Napoli, 1697, pp. 197-199. Fu autore anche di Capitoli, s. n., Firenze, 1721; ricordo qui, a riprova degli stretti rapporti di alcuni personaggi tra loro, che alle pp. 126-129 c’è un componimento (in pratica una lettera in versi) da lui dedicato a Francesco Capece Zurlo (a quest’ultimo Donato Maria dedica il componimento n. XXXVII).
84 da Dio
85 Vedi la nota 16 di III.
86 implora
87 cielo; dal latino aethra(m), a sua volta dal greco αἴϑρα (leggi àithra), affine ad αἰϑήρ (leggi aithèr), da cui l’italiano etere, che significa aria.
Seguono cinque sonetti di tema amoroso:
XVII
Chiaro ruscello, ove la bianca mano
bagnò la bella fronte, ond’arso ho ‘l core,88
oh se temprar89 potessi in te l’ardore90,
per cui da morte vo91 poco lontano.
Ma rinfresco trovar io spero invano,
mentre al tuo dolce, e cristallino umore
arder sento nel cor foco maggiore,
che prima, e provo altro tormento strano.
Se dentro l’acque ancor foco ritrovo,
e ‘l foco l’aura accresce, onde respiro,
l’alma e qual mai più refrigerio attende?
Ma questo non è già miracol nuovo,
perché dovunque posa, e ovunque gira,
tutto Madonna92 del suo foco accende.
88 Riecheggia il celebre Chiare, fresche e dolci acque/ove le belle membra/pose colei che sola a me par donna/… (Petrarca, Canzoniere, 126).
89 mitigare
90 il fuoco d’amore
91 vado
92 Vedi la nota 72 di XIV.
XVIII
Con piacevole, vago, e bello aspetto,
dolci parole d’accortezza piene
son l’armi, con cui Amor contro me viene
spesso leggiadro, e fere93 in mezzo al petto.
Ond’ardo, e agghiaccio insieme, e giungo a stretto
varco di morte, e vivo pur mi tiene
la doglia94 no, ma, che va per le vene,
non so che di soave, e di diletto.95
Or timore m’assale, e spero, ed amo,
e ‘l corso all’alma del desio sospende96
Così della mia vita i giorni vanno.
Or piango, or taccio, e gridar’alto bramo97:
Donna, quei dardi, Amor, che da te prende,
questi, e mille altri effetti al cor mi fanno.
93 ferisce
94 dolore
95 da mettere in costruzione così: la doglia no, ma non so che di soave e di diletto che va per le vene.
96 e sospende per l’anima il corso del desiderio
97 Riecheggia l’or muto resto, ed ora sgrido di XIII.
XIX
Sappia, chi del mio stato ha maraviglia,
non son questi miracoli d’Amore,
che vivo io sembri (avendo entro arso il core)
nella fronte, nel volto, e nelle ciglia.
E chi perciò di amor si riconsiglia98,
sperando non perir tra tanto ardore,
vo99, che conosca, come suol di fuore
lo stato mio al vivo si assomiglia.
Che come suol dal Ciel fulmine ardente
cenere far cadendo ovunque tocchi,
qual pria ,lassando la sembianza esterna,
così riman la scorza, e quel lucente
raggio d’Amor, ch’esce di duo100 begli occhi,
e sol si strugge l’alma, ove s’interna.
98 riconvince
99 voglio
100 due; dal latino duo.
XX
Per vincer l’Onestà, che io tanto esalto,
ed aprir di sua rocca Amor l’entrata,
tre volte indarno101 della porta armata
percosse col suo strale102 il duro smalto.
Venne Pietà poi nel secondo assalto,
tutta del pianto mio molle, e bagnata;
ma perché le apra l’anima indurata,
non le val pianger forte, o gridar’alto.
Sicché lor vinti, io sol rimango assiso103
presso l’amato ostello104, e parto, e torno,
qual105 chi per via dubbiosa e tema, ed erri.
E invan nel mio pensier m’interno, e fiso106,
che, per entrare in sì dolce soggiorno,
è ancor chi batta, e non è chi disserri107.
101 invano
102 freccia
103 seduto, fermo
104 rifugio; è l’amata.
105 come
106 fisso, concludo
107 apra
XXI
O Rosignuol108, che tra quei verdi rami
spieghi i sospiri sì soavemente,
che l’acque fermi, e l’aure fai gir109 lente,
e a pianger teco il nostro mal ne chiami,
se110 l’aspra fiamma, ond’ardi, e quei legami,
onde forse sei preso, Amor rallente111,
né turbi il verno112con sua bruma113 algente114
quel lieto nido, ov’albergar più brami,
or che Madonna115 qui sospira, e geme
deh frena alquanto le amorose note,
e dal suo pianto altre dolcezze apprendi.
Sì vedrem poi per maraviglia insieme,
come meglio pietà destar si puote,
anche in rigido cor, de’ nostri incendi.
108 usignolo
109 andare, procedere
110 nel caso in cui
111 rallenti
112 inverno
113 nebbia
114 fredda
115 Vedi la nota 72 di XIV.
Il tre sonetti che seguono sono dedicati Al Signor Bartolomeo Ceva Grimaldi Duca di Telese.
Bartolomeo Ceva Grimaldi (1670-1707) fu arcade col nome pastorale di Clarisco Egireo; morì nel golfo del Leone per il naufragio di una nave inglese durante l’inseguimento di un vascello francese. Un suo componimento in esametri è in Pompe funerali celebrate in Napoli per l’Eccellentissima Signora D. Caterina d’Aragona, Roselli, Napoli, 1697, p. 259-261.
XXII
In questa selva, ove fuggì sbandita
ogni noia, ove solo albergo v’hanno
dolci Amor, dolci paci, e dolce fanno,
e più tranquilla nostra fragil vita,
teco gioir potessi, ed in romita116
parte teco sgombrar l’alma117 d’affanno,
e ristorarla dell’antico danno,
onde visse, e vivrà sempre pentita.
Di un lauro all’ombra, e non di quercia o d’elce
udirei poi, come al bel suon s’accorda
il canto tuo dell’Apollinea118 cetra.
La mia pianse al rigor di dura pietra:
ma al flebil suon trovandola più sorda
rotta a piè la gittai d’un’aspra selce119.
116 solitaria
117 anima
118 di Apollo; la cetra, insieme con l’arco e le frecce, è un suo attributo.
119 roccia
XXIII
Dura è la morte, e dopo lei mi pare
di mal gradito amore il colpo rio120;
pur non son, se tu volgi al viver mio
l’estreme noie, come amore, amare.
E chi tien fisi121 gli occhi, e può mirare
quel volto, onde in me il dardo, e ‘l colpo uscio,
e la candida man, che mi ferio122,
e le bellezze assai più che ‘l Sol chiare,
certo direbbe, è ben ragion, che morte
chiami ei sovente, e di costei si doglia,
che troppo a darle aita123 indugia, e tarda,
che di lei stando sulle avare porte,
non trova chi lo scacci, ed entro accoglia124;
tanto in tal pugna125 ogni difesa è tarda126.
120 crudele
121 fissi
122 ferì
123 aiuto
124 accolga
125 battaglia
126 lenta, tardiva
XXIV
Spesso col suo pungente acuto strale
mi sprona a gir127 sopra l’alpestre calle
Amor, che al basso oprar volger le spalle128
sforza129 chi vince, e vince ogn’un, che assale.
Non era la Beltà cosa mortale,
u’ il dardo raffinò, che mai non falle.130
Io vinto seguo; ei quasi da ima131 valle
mi scorse in suso132, e al pensier mio diè133 l’ale.
Ed ora stanco del cammin sì lungo
non torno indietro, anzi il tardar mi dole,
così caldo è lo spron, che ‘l fianco punge.
E quanto più par, che mi affretti, e vole134,
tanto dall’alta meta errando lunge
mi trovo sempre, e non so, se vi giungo.
127 andare
128 fuggire, arrendersi
129 costringe
130 ove il dardo, che mai non sbaglia, rese più fine; u’ è dal latino ubi; falle per falla.
131 profonda, nascosta
132 su; da susum, variante di sursum.
133 diede
134 voli
Ancora quattro sonetti sul tema dell’amore.
XXV
Ed ancor nuovo flutto al mar ti spigne135
o Nave senza vele, e senza sarte136?
Vacilla la ragione, e manca l’arte,
soffian per ogni lato aure maligne137.
Al Nocchiero il pallor ambe dipigne
le gote: rare stelle ha il Ciel consparte138,
onde il corso si guidi, e d’ogni parte
la procella139, e l’orror ne preme, e strigne140.
Tu sei sdruscita141, e ‘l mare entro ti bagna,
e l’ancora pur cede al cieco orgoglio,
che ti mena a perir fuor di speranza,
e più d’ogni soccorso ti scompagna142,
e ‘l porto, ove tu aspiri143, è un duro scoglio.
135 spinge
136 sartie
137 venti sfavorevoli
138 cosparse
139 tempesta
140 stringe
141 sdrucita, spaccata
142 separa, allontana
143 desideri giungere
XXVI
Or che più non mirate il vago144 viso,
occhi miei, il vago viso, il viso altero,
ove colui145, ch’ha del mio cor l’impero146,
piantò il suo trono, e vi si adora assiso,
frenate il pianto omai, poiché diviso
a parte a parte dentro il mio pensiero,
men bello il veggo no, ma più severo,
dolce nell’ira, or qual saria147 nel riso?
Ed or la rotta148 fe par, che rammenti149,
e150quel fatal per me funesto giorno,
quando già caddi in altri lacci151 avvinto.
Deh perché non finì152gli aspri lamenti,
che all’udir tai querele, a tanto scorno
poco mancò, che io non rimasi estinto.
144 grazioso
145 l’amore
146 dominio
147 sarebbe
148 rottura
149 ha fatto ugualmente che ricordi
150 anche
151 catene d’amore
152 pose fine a
XXVII153
Già mio dolce, ed amaro mio conforto,
occhi, che ‘l lungo e rio154 digiun pascete,
o fontane d’Amore, ove ascondete
quel rio152 veneno155, onde sarò alfin morto.
Che come suole Augello156 poco accorto
cader, cibo cercando, entro la rete,
mentre in voi bramo ore tranquille, e liete,
trovo lungo il penar, e ‘l piacer corto157.
Pur tal dolcezza in questo amaro io sento,
che da’ vostri bei rai158 nel cor mi piove,
che or godo del mio male, ed or mi pento.
Ma di quel, che altri scrisse, or mi rammento,
che, quando da principio il sommo Giove
creovvi, insieme unìo159 gioia, e tormento.
153 Vedi n. XXXIX
154 crudele
155 veleno; dal latino venenum
156 uccello
157 lungo il penar/il piacer corto: chiasmo
158 raggi; gli occhi.
159 unì
XXVIII
Spero dal tuo pennel nobil Pittore160
aver colei, che me fere161, e sovente
fugge, e seco ne porta audacemente
legata preda il tormentato core.
Via, mesci rose, e gigli, e dà colore
a fronte, a gote, a mento; ostro162 ridente
vivaci labbra esprima, e dolcemente
biancheggi il petto, ove risiede Amore.
Togli poi lo splendor di quella Stella
che gira163 il terzo Cielo, e poni a gli occhi
simile la pupilla, e questa, e quella.
D’oro il crin164, nero il ciglio, e in dubbio tocchi165
l’altro ferma ch’è dessa166. Ahi cruda, e bella
non fuggi, e più m’infiammi, e dardi scocchi.
160 Pittore immaginario al quale affida il compito di ritrarre la sua donna.
161 ferisce
162 porpora; ostro è dal latino ostrum, a sua volta dal greco greco ὄστρεον (leggi òstreon), che oltre al significato di ostrica, conchiglia aveva anche quello di porpora , perché essa veniva estratta da alcuni molluschi.
163 fa ruotare
164 biondi i capelli
165 in atteggiamento dubbioso tocchi
166 ferma com’è essa
Il sonetto che segue è dedicato Al Signor Giulio Cesare Cosma Nipote dell’Autore167
XXIX
Se quel desio168, con cui te stesso accendi
di far tuo nome eterno, e chiaro in rime,
e gir169 di Pindo170 sulle alpestri cime,
pel cui sentier già il passo affretti, e stendi,
durerà alquanto, finché etade171 ammendi172
alcun173 difetto con più sode lime174,
vedremti 175 col gran Tosco176 andar sublime
di par col volo, che pur’alto or prendi.
E allor le tigri in Pindo170 far177 pietose,
e romper potrai un sasso per dolore,
non che in Donna destar fiamme amorose.
Se impresso ivi vedrai ‘l mio dolce errore
su qualche tronco in rime aspre, e noiose,
bacia in mio nome l’esca178, ond’arso ho il core.
167 Difficile dire, oltretutto l’omonimia è sempre in agguato, se il dedicatario è colui che fu sindaco di Lecce negli anni 1681-1682.
168 Vedi la nota 66 di XIII.
169 andare
170 Monte della Grecia sacro ad Apollo ed alle Muse.
171 età; etade è latinismo da aetate(m).
Due sonetti del quale il primo sembra anticipare la concezione foscoliana di un’immortalità laica.
172 corregga
173 qualche
174 con un più solida revisione
175 ti vedremo
176 toscano; è il Petrarca.
177 fare, rendere.
178 la scintilla d’amore.
XXX
Quando dopo più secoli, se tanto
viver potrà del nome mio la gloria,
su nobil marmo leggerà l’istoria
alcuno del mio amor sì puro, e santo,
bagnerà forse di soave pianto
le gote, a sì dolente, e pia memoria.
E, o beato, dirà, per cui si gloria
Pindo179, e lieto risuona al tuo gran canto.
Forse e fia180 chi di dolce invidia tinto
dica, felice te, che in stil sì terso
vivi immortale di sì chiaro spirto181.
Della morte trionfi, e ‘l tempo hai vinto;
e intanto il sasso182 mio miri consperso183
di bianci184 fiori, e di soave mirto.
179 Vedi la nota 170 di XXIX
180 pure ci sarà
181 spirito; spirto è per sincope.
182 la tomba; metonimia.
183 cosparso
184 bianchi
XXXI185
Pietà, Signor, perdono al mio dolore,
onde tutt’ardo ,e al pregar mio dà loco186,
mira il mio pianto, odi i sospir, che infoco187
omai188 pentito del mio primo errore.
Di Musa giovanil mentito amore
(tu ben lo sai) fu sol trastullo, e gioco;
ma in vera fiamma presso un lento foco
poco mancò, che non ardesse il core.
Sulla tua Croce ecco il mio plettro189 appendo,
e intanto l’alma190 del suo pianto aspersa
si terge, e al vero Ben tutta si volta,
acciocché poi da quest’esilio uscendo,
dall’atro limo191, ove fu pria sommersa,
sen voli al suo Fattor192 libera, e sciolta.
185 Questo sonetto è presente anche in Tesoro cattolico. Scelta di opere antiche e moderne atte a sanar le piaghe religiose e politiche che affliggono l’odierna società, A spese della Società Editrice, Napoli, 1854, v. X, p. 91.
186 luogo
187 do alle fiamme
188 ormai
189 Per metonimia poesia.
190 anima
191 fango
192 creatore; Dio.
Il sonetto che segue è dedicato al Sig. Biagio Maioli de Avitabile in morte di Scipione Avitabile suo cugino. Biagio Maioli de Avitabile, come abbiamo visto, pubblicò a sue spese la raccolta in onore di Filippo V ed era arcade col nome pastorale di Agero Nonacride.
XXXII
Quando su lance193 d’oro i fati appese
di nostre vite la Giustizia eterna,
onde parte i momenti, e giù governa
quanto ad occhio mortal non è palese194,
Signor195 quei di Scipione a librar prese
sulla più alta region superna.
Con fisi occhi la Parca ivi s’interna196,
cui sol tanto mirar non si comprese197.
Di sua tenera età troppo era lieve198
il puro stame, onde accingeasi il fuso
di fil più lungo per far, che s’aggrave,
quando de’ suoi gran merti il pondo grave
si aggiunse, e piena di stupore in brieve
tremar vide la lance, e cader giuso.199
193 Piatti della bilancia; dal latino lance(m); non a caso bilancia è da un latino *bilancia(m), che è dal latino tardo bilance(m), composto da bis=due volte e lanx=piatto.
194 manifesto
195 Dio
196 Con occhi fissi qui la Parca s’introduce. Per Parca vedi la nota 36 di VIII.
197 per lei era incomprensibile guardare un sole così grande
198 leggero
199 il puro filo, per cui il fuso si accingeva a fare un filo più lungo per fare in modo che fosse più pesante, quando si aggiunse il notevole peso dei suoi (di Scipione) meriti e (la Parca) piena di stupore vide in breve oscillare un piatto e poi cadere giù
Questo sonetto è scritto in morte del proprio Padre.
XXXIII
O selve, o fonti, o fosco aer, che accendo
co’ miei sospiri, o Ninfe, a cui sol noto
fu ‘l cantar mio, troppo or me indarno200 scoto201
dal grave affanno, e me stesso riprendo202.
Oimè , Spirto gentil, che te seguendo203
manca al desio ‘l vigor, la lena al moto,
onde io già torno204, e più lasso205 il mio voto206
a te consacro, e la mia cetra appendo207.
Tu alla vita mortal me generasti,
e tu all’altra immortal208 miei dubbi passi
scorgevi, u’ men periglio il corso spezzi.208
Or tu sei gito innanti, e me lasciasti
timido, incerto infra dirupi, e sassi.
O vita infausta, e pur v’è chi t’apprezzi!
200 invano
201 scuoto
202 rimprovero
203 torno indietro
204 nel seguire te
205 stanco
206 la mia preghiera
207 e smetto di dedicarmi alla poesia
208 Tu mi generasti alla vita mortale e tu per l’altra immortale (quella del poeta)tenevi d’occhio i miei passi dubbiosi dove minor pericolo potesse spezzarne il corso
209 andato
Segue un Epitaffio per S. Giovanni di S. Facondo morto di veleno appostogli nel Sacro Calice.
XXXIV
Se chiedi, o Passeggier, di chi sia l’alma
spoglia, che miri in quest’urna compresa210,
è di Giovan, non che far morte offesa
ardì all’albergo di sì ben nata alma.211
Ma Dio chiamolla212, e disse: io questa palma
vo darti, andrem’insieme a questa impresa,
e partirem213 la preda infra noi presa;
mio sia lo spirto214,tua la mortal salma.
Stupì natura, e in breve coppa accolta
vide la vita in un giunta, e la morte,
e rise il Ciel del venturoso inganno.
La morte andò, ma la noia, l’affanno,
l’orror, l’angoscia, e ‘l resto di sua corte
dietro rimase in gran spavento involta215.
210 sepolta
211 è di Giovanni, perché morte osò fare offesa al corpo di un’anima così ben nata
212 la chiamò
213 divideremo
214 spirito; sincope.
215 avviluppata
Questo è per l’elezione del Sommo Pontefice Innocenzo XI216.
XXXV
Piangea la Chiesa, e in lutto vedovile
i dì traea con ansia, e con affanno,
e ‘l Lupo empio217, che veglia al comun danno,
cingea tutto d’insidie il Sacro Ovile.
Della maligna Luna anco218 il sottile
corno ingrossar tentava il fier Tiranno.
Dio scorgea il tutto, e dal superno scanno219
reggeva Ei sommo il nostro stato umile.
Sorga pur dunque l’Innocenza220, e Duce221
in mia vece ella al ver scorga222 le menti,
e ‘l Greco Imperio sia ligio al Latino223.
Sì disse e voci elle non fur224, ma accenti
di luce, e sì con note anco225 di luce
riverente a’ suoi piè scrisse il Destino.
216 Innocenzo XI fu papa dal 1676 al 1689.
217 il demonio
218 anche
219 dal regno dei cieli
220 Gioco di parola tra innocenzo e l’innocenza divinizzata (anche per questo con l’iniziale maiuscola).
221 guida
222 illumini, metta in condizione di scorgere
223 E la Chiesa orientale sia obbediente a quella occidentale
224 e quelle non furono parole
225 anche
Questo è dedicato a S. Orenzio primo. Protettore di Lecce.
XXXVI
O di grazia celeste ornata, e chiara
alma226, il cui forte, e impenetrabil zelo
spunta, e rintuzza alla vendetta il telo227
che l’offesa Giustizia a noi prepara,
già non invidio il Ciel, che a questa amara
prigion228 ti tolse: era tua patria il Cielo.
Ma quel, che a noi lasciasti, il tuo bel velo,
perché ne asconde229 ancor la terra avara?
O marmo230 ancora ignoto, ancor negletto231,
ma prezioso del ricco tesoro,
che sì il nostro desio sforza, ed accende,
deh se il riveli a noi, fregiar prometto
il nome tuo di quel verace alloro232,
cui 233 nembo234 unquanco235, né saetta offende.
226 anima
227 dardo; dal latino telu(m).
228 il corpo, la vita terrena
229 ci nasconde
230 sepoltura; metonimia
231 trascurato
232 vera gloria; alloro è metonimia.
233 che
234 nube minacciosa
235 mai
Quest’altro è dedicato al Sig. D. Francesco Capece Zurlo236
XXXVII
Ne’ suoi volumi eterni il gran Motore237
quando alle umane vite i fati scrisse,
agli Avi nostri alto valor prefisse,
o Francesco di lor Germe238 migliore.
Senno, e vole magnanimo d’onore
fur le sorti a ciascun segnate, e fisse;
e volle di tal’un nel cor si unisse
a quel di gloria caldo spron d’Amore.
Onde se per più secoli la bella
Partenope239 diè leggi240, e trionfante
rise, e di lauro241 ornò la sua corona,
lor fu sol vanto, e in te discese quella
Virtù242, che ora risplende in guise tante243.
E Amor per le sue vie me solo sprona.
236 Non mi è stato possibile definire il rapporto di parentela con Donato Maria, ma di Francesco Capece Zurlo un sonetto è in Pompe funerali celebrate in Napoli per l’Eccellentissima Signora D. Caterina d’Aragona, Roselli, Napoli, 1697, p. 153 e un altro in Componimenti recitati nell’Accademia a’ dì IV di Novembre, anno MDCXCVI ragunata nel Real Palagio in Napoli per la ricuperata salute di Carlo II, Parrino. Napoli, 1697, p. 101. Questo, poi, si legge in Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, tomo II, p. 74: L’altra [accademia fondata a Napoli nel 1679] fu detta de’ ROZZI … fu per qualche tempo governata da D. Francesco Capece Zurlo Cavaliere stimatissimo per l’erudizione, e per la pratica delle cose del Mondo.
237 Dio
238 discendente
239 Napoli; era inevitabile che i “meridionali” lì facessero carriera.
240 fu la culla degli studi giuridici
241 gloria poetica, letteraria
242 Allusione alla sapienza giuridica di Francesco cui nel verso successivo Donato Maria contrappone la sua, che è poetica.
243 in tanti modi
Chiude la serie un sonetto Al Signor Cardinale Orsini Arcivescovo di Benevento244.
XXXVIII
Spiega, e spira, Signor, soavemente
oh qual vaghezza, oh qual gradito odore
santissima Virtù, quasi bel fiore
della tua ben purgata, e nobil mente.
Onde in rubella a Dio perfida gente245
maraviglia non sol, ma desta amore,
a cui l’alma ravviva246, e il grave errore
quella scote aveduta247, e omai 248 si pente.
Oh pur si avanzi sì, che lasci addietro
quella de’ tuoi grand’Avi, e pace apporte249
al Mondo, che dall’armi oppresso geme,
da cui Regnante sopra il Tron di Pietro
di riportarne avessi anch’io la sorte
al mio torto giustizia, e grazia insieme.
244 Vincenzo Maria Orsini (1649-1730), fu creato cardinale nel 1672, papa nel 1724 col nome di Benedetto XIII.
245 per cui in perfida gente ribelle a Dio
246 l’anima torna in vita
247 ravveduta
248 ormai
249 apporti
Per ultimo, a riprova della considerazione in cui era tenuto il nostro, un suo sonetto è in una pubblicazione francese: Raccolta di rime italiane, tomo II, Prault, Parigi, 1744, p. 77.
XXXIX
Esca mia dolce, ed amaro conforto,
occhi, che ‘l lungo e rio digiun pascete,
o fontane d’Amore, ove ascondete
quel rio veneno, onde sarò alfin morto.
Che come suole Augello poco accorto
cader, cibo cercando, entro la rete,
mentre in voi bramo ore tranquille, e liete,
trovo lungo il penar, e ‘l piacer corto,
Pur tal dolcezza in questo amaro io sento,
che da’ vostri bei rai nel cor mi piove,
che or godo del mio male, ed or mi pento.
Ma di quel, che altri scrisse, or mi rammento,
che, quando da principio il sommo Giove
creovvi, insieme unì gioia, e tormento.
È il n. XXVII con queste differenze; al primo verso Già mio dolce, ed amaro mio conforto e nell’ultimo unìo. Il testo del XXXIX, è quello già presente in Comentari del Canonico Giovanni Mario Crescimbeni custode d’Arcadia intorno alla sua istoria della volgar poesia, volume II, parte II, Basegio, Venezia, 1730, p. 263; esso dovrebbe essere quello definitivo soprattutto per l’immagine iniziale dell’esca mediata, come altre, dal Petrarca (Canzoniere, 37, 55, 90, 122, 165, 175. 181, 270 e 271).
(CONTINUA)
______
1 Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p. 365.
Per la prima parte (premessa)
https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/
Per la seconda parte (Francesco Maria dell’Antoglietta di Taranto):
Per la terza parte (Tommaso Niccolò d’Aquino di Taranto)
Per la quarta parte (Gaetano Romano Maffei di Grottaglie)
Per la quinta parte (Tommaso Maria Ferrari (1647-1716) di Casalnuovo): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/16/gli-arcadi-di-terra-dotranto-5-x-tommaso-maria-ferrari-1647-1716-di-casalnuovo/
Per la sesta parte (Oronzo Guglielmo Arnò di Manduria, Giovanni Battista Gagliardo, Antonio Galeota e Francesco Carducci di Taranto) : https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-6-x-oronzo-guglielmo-arno-di-manduria-giovanni-battista-gagliardo-antonio-galeota-e-francesco-carducci-di-taranto/
Per la settima parte (Antonio Caraccio di Nardò): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/
Per la nona parte (Giulio Mattei di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/28/gli-arcadi-di-terra-dotranto-9-x-giulio-mattei-di-lecce/
Per la decima parte (Tommaso Perrone di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/
Per l’undicesima parte (Ignazio Viva di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/
Per la dodicesima parte (Giovanni Battista Carro di Lecce):
Per la tredicesima parte (Domenico De Angelis di Lecce):
Per la quattordicesima parte (Giorgio e Giacomo Baglivi di Lecce):
Per la quindicesima parte (Andrea Peschiulli di Corigliano d’Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-15-x-andrea-peschiulli-di-corigliano-dotranto/