di Paolo Vincenti
“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.
La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.
La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.
E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.
Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.
Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.
Ragazzi di FondazioneTerra d’Otranto siete formidabili con Paolo Vincenti in questo portale ci ricordate le Poesie Salentine emozionanti dei grandi Nicola de Donno
e Franco Melissano come: ( A ccore piertu) /Stuezzu te pane) (Carisciula)
Ecco una poesia sulle origini della Fòcara tratta dai miei ricordi, oggi l’evento come sappiamo e super Mediatico. Fòcara in dialetto Salentino della zona: “Valle della Cupa” con traduzione di Ersilio Teifreto volontario Paesologo e Ricercatore di Traccia.
Novulum – Fòcara te Sant’Antoniu Abate nuesciu te lu fuecu
Tuttu incigna
cu na sarmenta te igne
ca ddentane sarcine,
li cristiani se le passane
a spaddhra, una subbra llaura
Eccuu…la Fòcara
cu na favilla se
dduma lu fuecu
ca face criscere
la vampa intra l’uecchi
Mpiccia lu fuecu…. ca sintimu
lu rusciu te la Fòcara
e lu ndore te la purvere te sparu
ca mannane la ntronatura te li fuechi
Uardamu all’aria le fascidddre ca olane
an cielu ammienzu le stiddre e la luna
Te mmaggini trueni e lampi,
eppuru li cristiani pe magia
ritene e ballanu
pe li Dei e li timoni
Li contadini preane S.Antoniu Abate
cu face scire meiu lannata prussima
Le vampe ne lassane
nu segnu intra ll’uecchi
e scarfane lu core
Mpizzicamu lu fuecu bbuenu te la
Fòcara
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Novulum- Fòcara di Sant’Antonio Abate del fuoco
Tutto inizia
con una stele di vite
che diventano fascine,
le persone se le passano
sulle spalle, una sopra l’altra
Eccuu…la Fòcara
con una scintilla si
accende il fuoco
che fa crescere
la fiamma dentro gli occhi
Accendi il fuoco… che sentiamo
il rumore della Fòcara
e l’odore della polvere da sparo
che emanano i fuochi pirotecnici
Guardiamo in alto le scintille che
volano
in cielo verso le stelle e la luna
Immagini tuoni e lampi,
eppure le persone per magia
ridono e ballano
per gli Dei e i demoni
I contadini pregano S.Antonio Abate
per fare andare meglio l’annata
prossima
Le fiamme ci lasciano
un segno negli occhi
e scaldano il cuore
Accendiamo il fuoco buono della
Fòcara.
Autore Ersilio Teifreto
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Gli abbracci che vi lasciano i Novolesi non sono dimenticabili.
Poesia sulla Fòcara di Novoli dedicata a mia moglie Pina Sorrenti scomparsa improvvisamente nel 2009 l’ho scritta cu tuttu lu core, spero piaccia ai Salentini,
un saluto
Ersilio Teifreto https://www.torinovoli.it