di Alessio Palumbo
Capitolo III
Per tre giorni e tre notti il vento non smise di sferzare uomini e cose. Violenti rovesci d’acqua si riversarono sul paese ingombrando le strade con torrenti di fango. Alcune case abbandonate da decenni caddero o si lesionarono sotto la furia degli elementi. Le incannicciate furono divelte e nelle campagne persino ulivi che avevano trascorso interi secoli ben conficcati nella terra furono sradicati. Stessa sorte per le vigne che, già cariche di grappoli neri, si ritrovarono prive di qualsiasi frutto e stese al suolo come ceppi da ardere. Finalmente, la mattina del due di agosto, un sole limpido e possente, conficcato in un cielo privo di nubi per miglia e miglia, segnò la fine della buriana. Il paese si svegliò frastornato e scosso.
Don Celestino, ritemprato nel corpo e nello spirito dalla fine del maltempo, si presentò alla parrocchiale prima del consueto. In quei tre giorni, seppur a fatica, aveva svolto con la diligenza solita i doveri di uomo di chiesa, celebrando la messa del mattino e quella della sera, seppur solo per il suo servitore. Da quella mattina fino alla metà del mese, avrebbe dovuto raddoppiare i propri sforzi. L’arciprete, infatti, come ogni anno aveva abbandonato il paese per passare le prime due settimane d’agosto in campagna; l’arcidiacono Francesco de Blasi, che nella gerarchia del capitolo della parrocchiale veniva subito dopo don Matteo Rocca, era da tempo allettato e prossimo a presentare la propria anima a Cristo. Spettava a lui quindi sovrintendere alle attività degli altri sacerdoti, impartire ordinariamente i sacramenti, celebrare le funzioni principali e via elencando. Per questo, in quella mattina di ritrovata estate, si era recato in chiesa con la giumenta. Subito dopo la funzione sarebbe dovuto andare a dare disposizioni al resto del clero, poi avrebbe portato conforto ad alcuni infermi e infine avrebbe fatto una trottata dalle parti della masseria Resta, di proprietà del Capitolo parrocchiale, per scambiare due parole con i coloni e per capire l’entità dei danni causati dalla furia celeste.
Celebrò messa alla presenza di una decina di donne, alcune accompagnate dai figli che trascorsero il tempo della funzione salendo e scendendo dalla scala dell’organo. Lasciati i paramenti in sagrestia, abbandonò il tempio e nel percorrere la navata notò i numerosi fasci di fiori deposti sull’altare di San Giovanni: ringraziamento concreto delle donne del paese per la fine del maltempo. Si avvicinò alla mensa in pietra, prese un mazzo di zagare dall’odore pungente e lo portò vicino al volto inebriandosi. Ripose i fiori ed uscì. Fuori dalla chiesa di San Nicola la luce del sole lo avvolse e riscaldò.
“Vado a sbrigare le faccende della mattina” disse al servo che lo attendeva crogiolandosi sul muro di fronte al tempio dove aveva addossato il piccolo calesse.
Il vecchio afferrò le assi del biroccio e le fissò nei finimenti della cavalla. Non appena don Celestino montò, gli passò le redini e diede un leggero colpo sulle natiche della giumenta per farla partire.
“Arrivederci papa” lo salutò
Il prete sollevò il braccio e prontamente riafferrò le redini. Lentamente la giumenta si incamminò. Giunti in piazza, il calesse svoltò sulla sinistra imboccando la via che conduceva alla chiesa dell’Annunziata. Don Celestino diede mano alle briglie per accelerare la corsa dell’animale ma, nei pressi della colonna di san Giovanni, elegante simbolo dei baroni del paese, le voci di un alterco lo attrassero. Prontamente tirò a sé le redini. Alla propria destra, dalla cappella dedicata alla Madonna delle Grazie, provenivano urla e strepiti, bestemmie ed imprecazioni. Un concio di tufo volò fuori dalla porta ed allora gli animi si surriscaldarono ancor di più: le voci divennero sempre più violente, le ingiurie si inasprirono.
Restò ad ascoltare, ma la furia della lite rendeva incomprensibili le parole che rimbombavano nella chiesetta. Scendere o non scendere? Con la vecchiaia era divenuto curioso, troppo forse. Decise di andare a vedere. Smontò dal calesse, legò la giumenta ad uno stallo nei pressi del palazzo baronale ed entrò nella cappella.
Santi, madonne, ostie e lo stesso padreterno affollavano il luogo sacro, ma non sotto forma di immagini o sculture. Tre muratori, bianchi di tufo, urlavano contro un colosso alto una canna, con spalle larghe a stento contenute da una camicia bianca insudiciata su di una manica da sangue; sicuramente quello del più vecchio dei tre manovali il cui volto era abbondantemente imbrattato.
“Cosa succede?” urlò il prete, ma dovette ripetere la domanda più volte prima che i quattro si accorgessero di lui e si placassero.
“Cosa succede? Come osate bestemmiare in un luogo consacrato? Bestie che altro non siete. Segnatevi”
I quattro fecero di mala voglia il segno della croce.
Don Celestino si avvicinò al colosso, che sapeva essere uno dei servi della famiglia D’Acugna, l’atrio della cui casa stava proprio di fronte all’ingresso della piccola chiesa.
“Niente papa Celestino, niente” smorzò questo
“Voglio sapere” si oppose il vecchio che sentiva inappagata la curiosità
“Questi tre pretendono soldi che non spettano loro. Affari nostri”
“Ah, carogna” scattò il muratore che, nonostante la faccia insanguinata e le dimensioni dell’avversario, non sembrava averne timore. Gli altri due, all’apparenza neppure ventenni, lo tennero fermo.
“Calma” impose il cantore “Voi che dite? Vi spettano questi soldi?”
“Certo che ci spettano. Donna Giovanna ci ha mandato a chiamare per fare dei lavori in questa chiesa”
“Ma questa chiesa non è di donna Giovanna D’Acugna” interruppe don Celestino
“Io non ne so nulla. Così ci ha detto. Dovevamo imbiancarla a calce, sistemare l’altare e farci sopra una cornice in leccese. Guardate là” disse indicando il pavimento “Abbiamo portato da Cursi tutti i blocchi per intagliarli e sistemarli”
“Siete di Cursi?” chiese desideroso di conoscere i minimi dettagli della vicenda
“Si. E ora questo” e indicò a mano aperta il colosso “dice che non se ne fa più niente e non ci paga”
“Ma se voi non avete lavorato” intervenne il servo della nobildonna
“E le giornate, il materiale, l’affitto del carro chi me li paga” riprese ad urlare il muratore
“Hanno ragione” sentenziò don Celestino
“Non vi intromettete papa” fece l’uomo dei D’Acugna con aria benevola, senza riuscire però a celare il tono minaccioso.
Don Celestino non si scompose. Conosceva chi gli stava d’avanti e, soprattutto, conosceva donna Giovanna, ricca e vanitosa: non avrebbe certo corso il rischio di vedersi rovinata la fama per quattro conci e un po’ di calce.
“Salgo a parlarne con la tua padrona” disse il prete con finta aria ingenua
“Non vi intromettete” ripeté il servo piazzandosi tra il cantore e l’ingresso della cappella dedicata alla vergine, la quale, silenziosa, osservava la scena da un tela oramai sbiadita posta sul vecchio altare “Donna Giovanna non vuole fare più i lavori”
“E vi ha detto di non risarcire i manovali? Voglio sentirmelo dire da lei”
“Ma a voi cosa interessa?”
Fece conto di non sentirlo. Continuò a fissarlo sul volto, senza aria di sfida però, ma con compassione, con una faccia, per l’appunto, da prete.
“Quanto avevate pattuito?” disse poi don Celestino rivolto al capomastro
“Trenta ducati per dieci giornate di lavoro, dieci per il materiale e due ducati per il noleggio del carro”
“Le pietre potete riportarvele?”
I tre si consultarono
“Si”
“Giornate ve ne bastano tre come risarcimento”
“Ma papa” intervenne uno dei giovani “noi abbiamo rinunciato ad altri lavori”
“Voi..” provò ad intervenire il servo dei D’Acugna
“Tacete” lo zittì il cantore e tornando a rivolgersi ai manovali “Tre giornate ve le paga donna Giovanna, le altre sette io e venite ad intonacare la mia casa di campagna e a fare piccoli aggiusti”
“Va bene” fece il capo dei tre che capì subito la vantaggiosità dell’offerta.
“Dategli undici ducati” ordinò allora il prelato rivolgendosi nuovamente al bestione che con la sua stazza continuava ad ingombrare l’ingresso del tempio “Dagli undici ducati e non dico niente alla tua padrona sul fatto che volevi intascarti la mercede di questi uomini”
Il servo trasse dalla tasca un sacchetto di velluto nero, slegò i lacci, ne cavò fuori undici grosse monete d’argento e le passò al manovale
“Sia lodato Gesù Cristo” si congedò il cantore
“Oggi e sempre sia lodato” risposero i tre e immediatamente dopo: “Papa, ma dove dobbiamo venire a fare i lavori?”
“Andate in chiesa e chiedete al sacrestano di accompagnarvi dal servitore di don Celestino Giuri. Lui vi saprà dire” ed uscì.
Per un paio di giorni non successe nulla di particolare. Furono riparati alla meglio i danni del maltempo e la vita tornò a scorrere regolare. Il caldo riprese a farsi sentire e quei pochi aradeini rimasti in paese si rintanarono nelle proprie case, grandi o piccole che fossero, venendone fuori solo alle prime ore del giorno e verso sera, quando strade e cortili si popolavano di piccoli capannelli. Per il resto della giornata i vicoli del paese restavano deserti, arroventati com’erano dalla fiamma agostana che si abbatteva senza requie sugli uomini, le bestie e tutto ciò che stava loro attorno.
Le stanze personali del cantore, poste nel piano alto della casa, erano diventate invivibili. Il sole batteva sul terrazzo e il calore già di notte poco sopportabile, durante le ore del giorno rendeva pericoloso soggiornare in quegli ambienti. Ritirarsi in campagna sarebbe servito a poco, né avrebbe potuto farlo finché l’arciprete non fosse tornato dalla villeggiatura, a meno di non volersi organizzare con un costante via vai dal paese in occasione delle messe principali e delle varie cerimonie religiose.
“Nonostante il caldo” spiegò una sera al servitore che, mosso quasi dalla disperazione per il caldo, aveva provato a riproporre l’idea di ritirarsi a Lo Rizzo “da qui all’Assunta in paese si continuerà a nascere, e quindi a battezzarsi, a sposarsi, ad ammalarsi e a morire. Dovremmo andare avanti e indietro ogni giorno. Non è cosa. Ci ho pensato e ripensato, ma non si può fare. Pensa a dover venire da Lo Rizzo al paese nelle ore più calde della giornata: non sai che è rischioso percorrere lunghi tratti sotto il sole in questa stagione?
Il servo non si era mostrato convinto ma non aveva più osato riproporre la questione. In campagna ci sarebbe andato, ma da solo, da qualche amico o parente nelle lunghe ore in cui il cantore se ne stava in chiesa.
Don Celestino, infatti, aveva preso a passare gran parte delle ore di luce nella parrocchiale, seduto in uno degli altari laterali dell’aula liturgica. Partiva da quello di San Nicola che la mattina, finita la funzione, era quello più in ombra e poi, seguendo il moto del sole, si spostava di cappella in cappella, in una mano il breviario, nell’altra una banderuola con sopra l’effige di san Giuseppe che usava per sventolarsi. Non di rado, vinto dal caldo e sopraffatto dalla lettura, si addormentava pesantemente, finché il servitore, di ritorno dalle sue gite nei campi, non lo svegliava per ricordargli che era il momento di desinare o di andare a sbrigare qualche incombenza.
In una di quelle mattine, nel silenzio assoluto in cui era immersa la chiesa, udì passi leggeri e veloci. Si affacciò dall’altare del Carmelo, dove si era da poco spostato, e vide una piccola donna procedere sicura verso di lui. Giunta che fu a pochi passi, riconobbe la vedova Maria Resta. Il marito, che si chiamava Pietro Chiariace, pur da bracciante, era riuscito a accumulare una decina di orte di terre di proprietà, in parte sue e in parte portate in dote dalla stessa Maria. Una discreta fortuna, insomma.
“Papa, qua siete?” chiese con voce stridula
“Sia lodato Gesù Cristo” la salutò il cantore
“Oggi e sempre” fece la donna e poi, senza alcuna pausa, “Mi voglio confessare” aggiunse
“Va bene. Facciamolo qui che nel confessionale c’è da morire per il caldo”
“Eh” obiettò la vedova “Ma così mi vedete in viso”
“Ma se so già chi siete” protestò il cantore
“O vi mettete nel confessionale o non se ne parla. Ma ricordatevi che se esco di qui e muoio la colpa della dannazione dell’anima mia ricadrà su voi e voi solo”
Non c’era da discutere. Appoggiandosi al bastone, che finalmente aveva preso a portare abitudinariamente, don Celestino trascinò i propri passi fino al confessionale e vi entrò. La vecchia, impaziente, gli andò dietro ed entrato che fu il prete si inginocchiò
“In nomine patri et fili et spiritui sancti” esordì
“Amme”
“Avanti, confessate i vostri peccati”
“Non ne tengo peccati” esordì Maria Resta
“Questa è superbia ed è un peccato”
“E va bene, mettetelo nel conto” rispose poco preoccupata “Oltre a questo, però, peccati miei non ne ho. È l’anima di mia figlia che non riposa in pace”
“Non vi capisco Maria, parlate chiaro”
“La mia Giuseppa è morta il venticinque del mese scorso. Aveva trentacinque anni. Che fiore che era. Che fiore”
La donna si mise a singhiozzare. Don Celestino aspettò che si calmasse
“Papa Rocca le diede i conforti religiosi e tutto il resto. Dopo pochi giorni però dalla morte iniziai a sentire durante la notte voci, colpi secchi, rumori di mobili trascinati, di catene”
“Maria” provò ad intervenire il cantore “Magari il dolore…”
“Non sono pazza papa e il dolore non c’entra. All’inizio ho pensato che fosse qualcuno nelle case vicine a muovere mobili a fare rumore, ma le case vicino alla mia sono disabitate, non c’è anima viva. E poi le cose sono peggiorate dopo la tempesta”
“In che senso”
“Nel senso che rumori si sentono di meno. Niente mobili, colpi, catene ma solo lamenti. A volte si sente piangere”
La vecchia smise di parlare.
“Maria” chiamò don Celestino “Maria, proseguite”
La donna non parlava.
Il cantore uscì dal confessionale e la vide ferma, immobile, una statua di cera a fissare il vuoto.
“Maria” le urlò scuotendola con entrambe le mani.
La donna esplose in un pianto disperato, gli occhi si arrossarono e una voce lacerante, catarrosa e inquietante venne fuori dalla sua bocca.
“L’altra notte, papa, non ce l’ho fatta più. La voce piangeva, piangeva, si lamentava. Allora mi sono affacciata alla finestra. Luna non ce n’era quasi e fuori era tutto buio. Allora ho gridato “Giuseppa, Giuseppa che tieni? Perché piangi”
“Bhè” chiese il vecchio prete impressionato
“Niente. La voce è sparita e non l’ho sentita più fino a stanotte. Era l’ora sesta quando il lamento ha ripreso”
La vecchia sembrava ora essersi calmata. Lo sfogo le aveva disteso i nervi. Don Celestino allentò le mani che aveva stretto sulle scapole della donna.
“Tornate nel confessionale” disse lei cogliendo di sorpresa il sacerdote “Tornate che così non vi posso parlare” insistette.
Rassegnato, don Celestino rientrò nel suo forno di legno
“Maria” esordì “Tu dici che tu non sei sconvolta per la morta di Giuseppa, ma non ci credo”
“Papa” interruppe
“No aspetta, fammi finire. Giuseppa è morta in grazia di Dio, peccati sono sicuro non ne avesse, perché era una brava donna e anche se li avesse avuti in punto di morte ha ricevuto tutti i sacramenti”
“E allora quale anima piange e si lamenta? Mio marito? Buonanima”
“Chi ti dice che sia un’anima. Tu hai la testa e il cuore scossi. I rumori che senti possono venire da altre case, possono essere gatti in amore come ce ne sono tanti in questa stagione, può essere il vento che si infiltra dalle finestre, qualche civetta o barbagianni che ha fatto il nido dalle parti di casa tua”
La vecchia taceva
“Maria, parlate” ordinò il cantore “Non mi fate inquietare”
“Non mi convincete, papa. I rumori che sento, le voci e tutto il resto sono di un’anima”
“Facciamo così” mediò il vecchio prete “Se le prossime notti senti ancora delle voci o qualcos’altro che ti impressiona, vieni di nuovo da me, ti benedico la casa e diciamo una messa per Giuseppa e per tuo marito”
“La messa me la dice lo stesso”
“Va bene, va bene. Ora andate e cercate di riposare”
“E l’assoluzione”
“Peccati non ne avete” rise don Celestino “Lo avete detto voi stessa”
“E la superbia? Se non mi assolvete non me ne vado”
“E va bene. Ego te absolvo….” snocciolò accondiscendente
La vedova fece il segno della croce, si sollevò dall’inginocchiato e, atteso il confessore per baciargli la mano, si congedò.
“Arrivederci papa”
“Arrivederci”.
(continua)
Qui i primi due capitoli: