di Gianfranco Mele
La Ruta è pianta tipica e originaria dell’ Europa meridionale, presente sulle rupi, sui muri, nelle garighe, nelle macchie.
Il botanico ottocentesco Martino Marinosci riporta, nella sua ricerca sulla flora salentina, la presenza di due specie di Ruta nel Salento, la bracteosa (sin.: chalepensis) e la graveolens. Le proprietà sono simili; la prima fiorisce in maggio, la seconda in giugno. Lo studioso salentino accenna nella sua opera alle proprietà emmenagoghe, antiisteriche, sudorifere, abortive, vermicide della pianta. Descrive poi gli impieghi dell’aceto di Ruta bracteosa e Canfora, come farmaco utile a contrastare i deliqui (perdita dei sensi), il tifo, i mal di denti; parla inoltre delle fumigazioni a base di Ruta, come rimedio alle malattie della vista.[1]
Era ritenuta, in Salento come altrove, pianta dalle molteplici virtù medicinali e magiche, e si impiegava per svariati scopi (“La ruta ogni male stuta”: la ruta ogni male spegne).[2] Una variante di questo detto, comunissimo in Puglia, è: “la ruta sette mali stuta”.
L’ infuso di foglie era utilizzato per ottenere azione antispasmodica, antiisterica, antinervosa: la ricetta utilizzata prevedeva l’impiego di “gr. 2 di foglie macerate per 1 ora in gr. 100 d’ acqua bollente” [3]
Si utilizzava per calmare i vermi intestinali, con cataplasmi posti sull’addome; inoltre si curava l’otite con un infuso mescolato nel latte.[4] Dalla macerazione delle foglie in olio di oliva si otteneva un unguento atto ad alleviare i dolori reumatici; con lo stesso unguento, e l’aggiunta di un pizzico di zolfo e bucce di limone, veniva curata la scabbia.[5]. Dalla pianta essiccata si otteneva una polvere utilizzata per disinfestare i giacigli degli animali. [6] Il decotto, assunto in piccole dosi era utilizzato per facilitare la digestione e il flusso mestruale; ad alte dosi era utilizzato a scopi abortivi (in quanto ha l’effetto di provocare contrazioni uterine) o anche veleniferi (infiammazione dell’apparato gastroenterico e genitale). [7]
Anche a causa della forma a croce del fiore aperto, si credeva che avesse la capacità di tenere lontani i demoni e il malocchio.[8] Questa credenza ha, in ogni caso, radici antichissime, difatti già Aristotele ne raccomanda l’uso contro gli spiriti e contro gli incantesimi. Nel Medioevo era pratica usuale depositare corone di ruta sulle tombe per allontanare gli spiriti maligni. Nel Rinascimento, questa pianta veniva chiamata Herba de fuga demonis.[9] Una usanza tipicamente abruzzese della ruta come erba “anti-streghe” era quella di cucire le foglie di ruta in un borsellino da portare nascosto nel seno: erano ritenute ancor più efficaci, le foglie su cui una farfalla avesse depositato le uova.[10]
Sempre in riferimento alla capacità della ruta di tenere lontani gli spiriti maligni, nell’ Iconologia del Ripa la Bontà è raffigurata come una
“donna vestita d’oro, con ghirlanda di ruta in capo, e con gli occhi rivolti al Cielo, in braccio tenga un Pelicano con li figliuolini, e a canto vi sia un verde Arboscello alla riva d’un fiume”.[11]
Il Ripa spiega il significato della ruta in questa raffigurazione:
“stà con gl’occhi rivolti al Cielo per esser intenta alla contemplatione Divina, e per scacciare i pensieri cattivi, che di continuo fanno guerra. Per questo ancora si pone la ghirlanda di ruta, havendo detta herba proprietà di esser fuggita da gli spiriti maligni, e ne habbiamo autentici testimonij. Ha ancora proprietà di sminuir l’amor venereo, il che ci manifesta che la vera bontà lascia da banda tutti gli interessi e l’amor proprio il quale solo sconcerta e guasta tutta l’armonia di quest’organo che suona con l’armonia di tutte le virtù”.[12]
In ambito magico-medicinale, era raccomandata contro l’epilessia e contro la vertigine: si usava appenderla al collo pronunciando una formula con la quale si rinunciava al diavolo e si invocava Gesù (secondo il Cattabiani questa usanza ha radici pagane e il rito qui descritto è un esempio di cristianizzazione del rituale più antico).[13]
La Ruta era utilizzata anche come deterrente per tener lontani i topi, in quanto si riteneva che non ne sopportassero l’odore.[14]
Era molto utilizzata come antidoto per il veleno dei serpenti e di altri animali. Anche questo tipo di impiego risale a tradizione molto antica, e Plinio la cita come rimedio sia al veleno dei serpenti che a punture di scorpione, di ragno, di ape, di calabrone e di vespa; inoltre, contro la cantaride e la salamandra, e contro il morso dei cani rabbiosi. A questo scopo, fornisce indicazioni di utilizzo del succo di ruta bevuto con vino “in dose di un acetabolo” (recipiente per l’aceto, e unità di misura pari a lt. 0,068); applicazioni di foglie tritate, oppure masticate, in impacco di miele e sale, oppure bollite con aceto e pepe. Plinio suggerisce l’impiego della ruta anche a livello preventivo rispetto alle aggressioni di animali velenosi:
“si dice che coloro che si siano cosparsi di succo e anche coloro che portano su di sé la ruta non vengano aggrediti da questi animali dannosi, e che i serpenti, se si brucia la ruta, ne fuggono le esalazioni”. [15]
Pare in effetti, da osservazioni condotte anche recentemente, che le vipere fuggano davvero questa pianta, forse per l’odore a loro particolarmente sgradevole.[16]
Nel capitolo dedicato alla “Difesa contra nimici malefici et venefici”, Cesare Ripa, nella sua Iconologia, riporta la figura di una
“Donna che porti in testa un ornamento di pietre preziose […] in mano una pianta che abbia la cipolla bianca detta Scilla […] e al piede vi sia una donnola che tenga in bocca un ramo di ruta”.[17]
Più avanti, nella descrizione della figura, il Ripa specifica, in riferimento alla donnola con ramoscello di ruta in bocca (in basso a destra nel disegno), che:
“della donnola che porta la ruta in bocca scrivono tutti li naturali, che se ne provvede per sua difesa contro il Basilisco, e ogni velenoso serpente”.[18]
Si comprende anche da qui, l’impiego della ruta contro il malocchio: il Basilisco era considerato l’animale per eccellenza portatore di fascinazione con il suo sguardo.
Forse proprio a causa di questa sua “capacità” di tener lontani gli animali considerati velenosi e di fungere da antidoto ai veleni, era utilizzata anche nei rituali del tarantismo. La Caggiano nel 1931 descrive un rituale nel tarantino, in cui è presente questa pianta:
tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [19]
Teriaca e Mitridazio[20], antichi farmaci contenenti entrambi la Ruta, sono indicati dal Baglivi e dal Boccone come cure per il morso delle tarantole[21], e si ritrovano anche indicate in un manoscritto anonimo (risalente alla fine del XVII sec. O inizi XVIIII) che parla delle cure per i veleni di ragni e tarantole.[22]
Il Mattioli annovera la Ruta con l’ Aceto e la Ruta presa col vino tra i rimedi semplici indicati anche da Dioscoride per la cura dei morsi dei falangi in genere. Ruta Salvatica pesta, o bevuta nel vino, è indicata per i morsi delle scolopendre, degli scorpioni, delle vipere.[23]
La Ruta veniva utilizzata anche dagli esorcisti (decotta in acqua o tramite fumigazione) per liberare gli indemoniati; tuttavia, al pari di altre erbe magiche, risulta ambivalente negli impieghi, come vedremo nelle descrizioni a seguire.
Negli Atti del Tribunale del Santo Officio di Oria si legge di una unzione che causa la morte di una donna. In questa unzione sono presenti la Ruta ed altre erbe non specificate. Petronilla Carbone racconta agli inquisitori di una fattura di morte procurata dalla masciàra Antonella Teppi, di Torre S. Susanna, nei confronti di sua sorella Rosata Carbone (fattura confermata dall’ arciprete di Torre S. Susanna, il quale tenta invano di guarire la donna affatturata con la lettura degli Evangeli). La masciàra viene pregata di far guarire la Carbone da una fattura subita in precedenza (e forse operata, anche quella, dalla stessa Teppi), ma il risultato è un aggravamento della donna, sino alla morte:
“Un giorno io con mia sorella Rosata ce la chiamammo dicendoli per amor di Dio che vedesse di farla guarire ed essa rispose che non poteva fare niente, e pregatala molte volte, disse che vedrà di aggiustarla, e così se ne andò, la sera notte poi verso hore due venne in casa mia e disse che io dovesse abbuscare un pignatino di oglio da nove persone, sotto pretesto che doveva allumare la lampa alla Madonna ed io per desiderio della salute della suddetta mia sorella buon anima, l’andai a trovare con patto che non dovesse parlare a niuno né all’altra mia sorella né anche a mia madre e buscato che ebbi l’oglio, essa Antonella se lo portò in sua casa e tenutolo ventiquattro hore me lo portò un terzo di quello che era con molte erbe, che vi aveva poste dentro, le quali non conosco altro che la Ruta e mi disse che ne ungesse detta mia sorella à tutte le giunture, e le spalle, e alli nudi delle mani e questo lo doveva fare per nove giorni, tre volte al giorno. […] Cominciò ad andar dal corpo quattro capelli biondi, e ristinco, e nell’altra unzione ne andò sei, à mezzogiorno poi andò un ciciro, e siccome io la ungeva così essa ancora faceva piaghe in quella parte dove toccava l’oglio”. [24]
Dopo pochi giorni, Rosata muore in preda a dolori e piaghe procurate dall’unguento. Secondo alcune testimonianze siciliane, la Ruta era utilizzata anche per un unguento che permetteva di volare: la mistura era preparata utilizzando olio d’oliva, Ruta, e il sangue di un uomo. [25]
L’ambivalenza della Ruta è tipica di altre erbe utilizzate a scopi magici: al tempo stesso veleno e farmaco, erba funesta ed erba benefica, era inoltre considerata afrodisiaca per le donne e anafrodisiaca per gli uomini.
Negli atti del processo di una strega bresciana, Benvegnuda Pincinella, ricompare la Ruta utilizzata per una liturgia di guarigione, che si apre proprio con una invocazione a “Madonna Ruta” e con una serie di preghiere rivolte all’ erba.[26]
Nella sua opera “Ricettario delle streghe”, il tossicologo Enrico Malizia raccoglie una selezione di antiche ricette da formulari, manoscritti e testi che vanno dal 1400 agli inizi del 1800. In tale ricettario, essenza di ruta insieme a: cinnamomo, radice di eringio, radice di pastinaca agreste, mirra, essenza di prezzemolo, polvere di zafferano mescolati con sciroppo di artemisia, fanno parte di un elettuario per favorire le mestruazioni.[27] Una variante di questo elettuario comprende, oltre a essenza di ruta, cinnamomo e mirra: succo di eringio, seme di nigella, essenza di calendula, succo di salicornia, succo di puleggio, essenza di sabina.[28]
In un ricettario marchigiano del ‘500, di autore anonimo, sono descritte le varie virtù dell’ olio di ruta insieme alla sua preparazione: “recipe frondi di ruta e ponile in acqua in tamburlano, e duecento libre di frondi farà un’oncia d’olio”.[29] Successivamente sono indicati gli impieghi dell’olio così preparato: una goccia, è indicata per sanare infallibilmente “qualsivoglia puntura o morsicatura d’animali”. L’olio è poi indicato anche come rimedio contro la pleurite e contro dolori reumatici vari. “Una goccia” vale anche a sanare congiuntiviti e a tonificare la vista. Due gocce messe nell’orecchio, a sanare il ronzio e ridare vigore all’udito. Inoltre, l’olio di ruta è consigliato come rimedio alla cattiva circolazione del sangue. Ancora, nel suddetto ricettario, ritrovato dal Pezzella, l’olio di ruta va unto sul grembo della gestante per ridare al feto la giusta posizione nel grembo.[30]
Il succo ottenuto dalla spremitura di una libbra di ruta insieme a una libbra di scordio, una di capraria e una di cedro insieme a un’oncia di teriaca erano utilizzati, dopo distillazione, contro febbri, tifo e peste.[31]
L’ “erba ruta ben polverizzata” deve essere data da bere inoltre come rimedio “a chi perde l’intelletto”.[32]
Ungere i piedi “con l’ erba ruta intrisa d’olio” serve “a non stancarti camminando a piedi”.[33]
Ruta ben tritata con miele, serviva come applicazione su ginocchi infiammati.[34]
La ruta è impiegata anche in un procedimento “per conoscere se una persona è affatturata”: si dovevano impiegare aceto, salvia, ruta, savina perforata (valeriana rossa) e una palma benedetta: “falle friggere in olio comune e fallo benedire et onge il capo del patiente e vedrai l’effetto”.[35]
Contro le fatture, si riteneva che la ruta, insieme a succo d’assenzio, funzionasse anche a livello preventivo, difatti “per non essere stregato, farai benedire il sugo d’assenso e ruta e lo darai a bevere ad alcuno che non potrà mai essere ammaliato”.[36]
La Ruta è anche ingrediente dell’ Aceto dei quattro ladroni, ricetta contro-veleno della peste, che la tradizione vuole originaria della Francia (in un periodo tra il XIV e il XVIII secolo) e che si estese in tutta Europa. Era composta (in una delle sue numerose varianti) di aceto, menta, ruta, lavanda, aglio, rosmarino.[37]
Il medico e ricercatore ottocentesco Paolo Mantegazza descrive così la Ruta:
“Pianta del mezzodì dell’Europa coltivata negli orti, condimento ricercatissimo degli antichi, che le attribuivano infinite virtù e fra le altre quella di domare le passioni erotiche. Ora è piuttosto rimedio popolare contro i vermi, l’epilessia e le convulsioni che un vero alimento nervoso. Va però messo fra questi, perchè in Germania si mangia col pane come stomachico e fra noi serve ad aromatizzare l’acquavite”.[38]
Nel medioevo, la scuola medica salernitana affermava che “Giova la ruta agli occhi, fa la vista assai acuta, e scaccia la caligine. Nell’uom Venere affredda, e nella Donna assai l’accende, e fa l’ingegno astuto. E affinchè non vi dian le pulci tedio, ella, o donne, è ottimo rimedio”.
Il Cattabiani riferisce di un antico detto “Ruta libidinem in viris extinguit, auget in foeminis” (la ruta estingue la libido negli uomini, e l’aumenta nelle donne).[39]
Nell’iconologia del Ripa la ruta è presente anche in riferimento alla castità matrimoniale:
“Una donna, vestita di bianco, in capo avrà una ghirlanda di Ruta, nella destra mano tenga un ramo di Alloro, e nella sinistra una Tortora. La ruta ha proprietà di raffrenare la libidine, per l’acutezza del suo odore, il quale essendo composto di parti sottili per la sua calidità risolve la ventosità, e spenge le fiamme di Venere, come dice il Mattiolo nel 3. lib. de’ suoi Commenti sopra Dioscoride.”[40]
Nella antica Roma, i semi della Ruta erano impiegati per la preparazione di una bevanda soporifera a base di oppio.
La Ruta graveolens, secondo gli studiosi che si occupano di droghe, ha sospette proprietà psicoattive, allo stato della ricerca non compiutamente dimostrate.[41]
Nel mito, la Ruta è legata ad Afrodite e a Medea attraverso una storia singolare e dai risvolti cruenti: poiché le donne dell’ isola di Lemno avevano trascurato di omaggiare Afrodite, la Dea si vendicò condannandole ad emanare un odore ripugnante (simile a quello della Ruta): così, gli uomini dovettero abbandonare le loro spose, ma supplirono a tale mancanza procurandosi delle concubine straniere. Le donne tradite uccisero così tutti gli uomini. Un’altra versione del mito racconta della maga Medea protagonista del singolare incantesimo: navigando difatti al largo dell’ isola di Lemno insieme agli Argonauti, fu spinta da un desiderio di vendetta nei confronti di Issipile, una principessa di Lemno, che aveva amato il suo Giasone. Così, Medea inquinò le acque del mare di Lemno con la Ruta, che infestò di maleodore le donne che vi si bagnavano.
Secondo alcuni botanici la Ruta graveolens è la mitica erba moly descritta da Omero nell’ Odissea[42] (altri l’hanno identificata nella Mandragora, altri ancora nell’ Allium victorialis).
Note
[1]Martino Marinosci, Flora Salentina compilata dal Dott. Martino Marinosci da Martina, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, Vol. 1, pag. 208
[2] Giuseppe Cassano, Ràdeche vecchie Proverbi moti frasi indovinelli dialettali credenze e giochi popolari tarantini, Stab. Tipografico Ruggieri, Taranto, 1935 , pag. 21
[3]Antonio Costantini, Marosa Marcucci , Le erbe le pietre gli animali nei rimedi popolari del Salento , Congedo Editore, pag. 117
[4]Domenico Nardone, Nunzia Maria Ditonno, Santina Lamusta, Fave e favelle, le piante della Puglia peninsulare nelle voci dialettali in uso e di tradizione, centro di Studi salentini, Lecce, 2012, pag. 400
[5]Ibidem
[6]Ibidem
[7]Ibidem
[8]Ibidem
[9]Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, 1996, ried. 2016, pag. 230
[10]Alfredo cattabiani pag. 230
[11]Cesare Ripa, Iconologia di Cesare Ripa Perugino, Libro Primo, Venezia, Tomasini, 1645, pag. 72
[12]Ibidem
[13]Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 232
[14]Domenico Nardone et al. op. cit., pag. 400
[15]Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, XX, 132-133
[16]Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 231
[17]Cesare Ripa, op. cit., pag. 147
[18]Cesare Ripa op. cit., pag. 148
[19]Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72
[20]Antico rimedio a base di 20 foglie di ruta, sale, 2 noci e 2 fichi
[21]Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in: Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 105
[22]A.A.V.V., Sulle tracce della taranta, CRSEC – Regione Puglia, 2000, pag. 57
[23]Pietro Andrea Mattioli, Discorsi nei sei libri di Dioscoride Pedacio Anazarbeo Della materia medicinale, Venezia, Pezzana, 1744, pp. 833-837
[24]Atti Curia di Oria, Sortilegi e stregonerie ai tempi di Monsignor Labanchi, denuncia contro Antonella Teppi di Torre S. Susanna, in data 19 maggio 1723, accusata di essere masciàra, ff. 6-7
[25] Macrina Marilena Maffei, La danza delle streghe: cunti e credenze dell’arcipelago eoliano, Armando Editore, 2008, pag. 143
[26] Erika Maderna, La ruta, erba di maghe e streghe. Usi magici da Medea a Benvegnuda Pincinella, marzo 2018, Wall Street International, Website
[27]Enrico Malizia, Ricettario delle streghe, Edizioni Mediterranee, 2003, pag. 203
[28]Enrico Malizia, op. cit., pag. 204
[29] Il tamburlano è un arnese in metallo che serve alla distillazione; “duecento libre di fronde” sta per sette chili di ramoscelli di ruta; un’oncia sta per circa 30 grammi
[30] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1°, Edizioni Mediterranee, Roma, 1989 , pp. 30-31
[31] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1 (cit.), pag. 71
[32] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1 (cit.), pag. 65
[33]Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1 (cit.), pp. 90-91
[34] Salvatore Pezzella, Magia delle Erbe, vol. 1 (cit.), pag. 95
[35] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 2°, Edizioni Mediterranee, Roma, 1989, pp. 62-63
[36]Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 2 (cit.), pp. 66-67
[37]Enrico Malizia, op. cit., pag. 184
[38] Paolo Mantegazza, “Quadri della natura umana – Feste ed ebbrezze”, 1871, Milano, Bernardoni Edit. ,Vol. II, pag. 660
[39]Alfredo Cattabiani, op. cit, pp. 232-233
[40]Cesare Ripa, op. cit., , pag. 87
[41]Gianluca Toro, Flora psicoattiva italiana, Nautilus, 2010 pag. 117
[42]Alfredo Cattabiani, op. cit., pp. 228-229