di Vincenza Musardo Talò
A partire dall’anno Mille e in ogni luogo dell’Europa cattolica, il culto dell’Addolorata – elaborando un lento e lungo processo di umanizzazione di quanto in lei vi è di divino – si è radicato nella pietà popolare. Infatti, in virtù delle sue umanissime valenze simboliche, divenute paradigmatiche sia della cultura quanto della psicologia femminile, la sua immagine di Mater Dolorosa è andata accostandosi ai tanti vissuti dolorosi delle madri di ogni tempo e – nell’immaginario collettivo – si è fatta emblema assoluto non solo del dramma della Passione del Figlio-Cristo, ma anche della sofferenza senza tempo di ogni madre che ha vissuto la tragedia del suo medesimo lutto. Ovunque, Ella è la Vergine Desolata, Madre di Pietà sette volte dolente, la Madre di tutte le madri sofferenti.
In tal senso, sono i riti della Settimana Santa a richiamare ovunque e riverberare tali assunti.
A Taranto, come in ogni angolo del suo distretto, i giorni della Settimana Santa erano- e sono – giornate vissute fuori dal tempo. Si pensi, giusto un esempio, alle composte e silenziose celebrazioni della Taranto odierna, alle processioni della notte del Giovedì e del Venerdì santo, due momenti intrisi di un suggestivo misticismo e un segno e una testimonianza di fede, in cui è palpabile la tensione spirituale di tutta una città, che per oltre quaranta ore, dalla mezzanotte del Giovedì santo all’alba incerta del Sabato, di colpo perde quelle assurde connotazioni di città postmoderna. Non più rumorosa e trafficata, si trasfigura in un luogo irreale, con quella folla di figure incappucciate, dall’andatura inusitata e quasi impossibile a comprendersi, dove il tempo e lo spazio mutano di concetto e la gente assume un comportamento inconsciamente proiettato ai tempi, quando là, sulla strada del Calvario, quell’uomo straordinario che era il Cristo, portava a termine, col sacrificio estremo, la sua missione terrena. Impossibile poi non assistere, la notte del Giovedì Santo, nella Città Vecchia, alla processione della Desolata, quando, giunta la mezzanotte, al suono rauco della troccola, quasi una madre disperata, Ella esce dall’artistico duomo medievale di S. Domenico, scende la barocca scalinata e va alla ricerca del proprio Figlio. Le strade sembrano trasformarsi in un unico grande tempio e i segni della devozione popolare toccano vertici altissimi. Vestita di nero, questa Madre del pianto cammina lenta, con le vesti che ondeggiano al vento freddo della notte. L’accompagnano, sino all’alba, le meste marce funebri, la cui musica si insinua profonda, toccando l’animo di migliaia di spettatori. Poi, il Venerdì, nella processione dei Misteri, dal primo imbrunire sino all’alba cerulea del Sabato, la Desolata torna ancora ad accompagnare, seguendola, la bara del Cristo, in una sorta di rituale che l’accosta alla tragedia di tante madri dell’oggi e del passato. Non a caso, fra tutte le statue dei Misteri, è ancora quella che più commuove e si identifica con le più ancestrali movenze del dolore femminile. Ora, Ella assurge a simbolo toccante del dolore universale. La sua statua dalla straordinaria potenza espressiva si fa concetto figurale del dolore di tutte quelle donne, lacerate della perdita di un figlio, divenendone l’archetipo e la proiezione, al di fuori di ogni contesto sociale e spazio-temporale.
Per leggere e comprendere la visione del sacro nei diversi riti della Passione e nei costumi culturali delle trascorse civiltà, bisogna riferirsi proprio al suo umanissimo amore e dolore di madre che permeano quel complesso e polimorfo tessuto della pietà popolare, sostanziandolo di sedimentati e inamovibili pratiche devozionali.
Nell’alimentare la devozione alla Desolata, preminente è stato anche il contributo offerto dall’arte, che ha saputo consegnare alla storia del sacro un soggetto iconografico reiterato, ma sempre di ispirazione tipicamente popolare e fondamentalmente espresso da tre proiezioni tematiche: la Desolata con gli attributi simbolici, propri della sua condizione (l’abito e il manto di colore scuro, il cuore sanguinante, una o sette spade, il fazzoletto del pianto o la corona del Figlio); la Crocifissione, in cui Ella appare sola col Figlio o accompagnata da S. Giovanni apostolo e la Maddalena; la Deposizione o Pietà, in cui si fa palpabile il pathos del dolore materno.
Fra i tanti dipinti a tema L’Addolorata, che ornano le chiese e gli oratori confraternali di Taranto e provincia, mi piace ricordare le due pregevoli tele a firma di Paolo De Matteis (1662-1728) e di Leonardo Antonio Olivieri (1689-1752), in verità esposte nel sale del Museo Archeologico di Taranto.
La prima, che pure ricalca altre simili riproduzioni, fresca di restauro, oggi è esposta nei locali del MarTa, all’interno della Collezione Ricciardi. L’artista napoletano è oltremodo noto a Taranto, non solo per aver affrescato il Coppellone di S. Cataldo nella Cattedrale dell’Assunta. La tela in oggetto, forse destinata al culto privato, effigia l’Addolorata nel tipo della Desolata, della Mater dolorosa. Il tessuto figurativo a impianto piramidale, è tipico di gran parte della produzione artistica del De Matteis. Il tema iconografico si compone della figura della Vergine in posizione ruotata a sinistra, colta a sola col suo dolore, quasi in atteggiamento sacrificale e di accettazione, un nuovo Fiat, col quelle mani che sembrano accogliere il dolore universale. Le sembianze del volto afflitto – dalla linea purissima, con lo sguardo rivolto verso l’alto e gli occhi di pianto – esprime una elegiaca sofferenza tutta interiore e non fisica, come porterebbe a credere quella spada sottile, saettante, dagli straordinari effetti tridimensionali, che le trafigge il cuore di madre. Adagiata su uno sfondo dagli effetti luministici sommamente calibrati, ai lati superiori le fanno corona due figure angeliche risolte in tenere testine alate. La legittimata perizia coloristica impreziosisce l’esito formale della tela gioca con un insieme di effetti timbrici e tonali, propri della tavolozza di questo autore. Gli ampi e ricchi panneggi, in specie quello del manto azzurro, conferiscono all’intero tessuto figurativo un senso di movimento, che anima il tutto.
Più articolata appare la tela del maestro di Martina Franca, Leonardo Antonio Olivieri, allievo del Solimena. Il dipinto proviene dalla collezione di mons. Giuseppe Ricciardi (Taranto 1839-Nardò 1908), vescovo di Nardò, che volle donarla alla sua città natale e oggi è in bella mostra presso il MarTa.
Anche qui – come nella tela del De Matteis – prevale un impianto figurativo piramidale, ma dall’impaginazione riccamente aggettivata da diverse figure, quali il S. Nicola vescovo di Myra e S. Barbara (o forse S. Irene) con gli strumenti del martirio. La Vergine, sorretta da due angeli, sembra quasi venir meno alla vista del Volto offeso del Figlio. Infatti, sulla sinistra, in apice, un cherubino in volo regge il Velo della Veronica, a cui è affidato un drammatico volto del Cristo flagellato come colto dalla pia donna lungo la via del Calvario. L’impostazione figurativa, dall’ampio respiro tematico, sembrerebbe tipico di una pala d’altare. La figura centrale della Vergine, sorretta da due figure alate, appare allora come il modello drammatico di madre dolorosa; il suo non è solo un dolore dell’anima, ma ne esprime anche quello fisico. E’ inutile evidenziare la elegante perizia della composita sintassi cromatica adottata dall’artista, leggibile nelle armoniose movenze luministiche e nell’equilibrato gioco timbrico-tonale del tutto.
In aggiunta al prezioso patrimonio pittorico e scultoreo, a partire dal Seicento barocco, fiorì un’arte statuaria, che dotò chiese e soprattutto gli oratori confraternali, monasteri e conventi, cappelle rurali e dimore aristocratiche del simulacro dell’Addolorata. Le botteghe napoletane apparvero quanto mai perite nel creare volti straziati di Desolate e Cristi squarciati, mentre, nei due secoli successivi, i maestri della cartapesta leccese lavoravano la duttile pasta cartacea con fisionomie dal crudo realismo, potenziato da una declinazione cromatica, espressa in ineguagliabili squilli timbrici e tonali, facendo così, delle loro addolorate, il simbolo e la sintesi di tutto il dolore del mondo.
Queste statue mariane, unitamente agli altri gruppi scultorei dei Misteri, si esibivano nelle processioni della Settimana Santa, attestate già nel Seicento in tutte le Provincie del regno di Napoli, dove i misteri mobili valevano quali rappresentazioni figurate della memoria di un evento lontano, sempre capace di toccare le emozioni più profonde del cuore dei fedeli.
In virtù di tanto, la Chiesa ha comunque risposto col solennizzare la liturgia e la devozione verso la Desolata, tanto che già nel 1423 istituiva la festa della Commemorazione dell’angoscia e dei dolori della Beata Vergine Maria. A volere fortemente questo culto mariano furono soprattutto i Servi di Maria, un ordine religioso originatosi a Firenze nel 1233, la cui fertilità spirituale verso i Sette dolori di Maria spinse i pontefici (Innocenzo II, Pio VII e Pio X) a inserire nel Calendario liturgico la festa dell’Addolorata, oggi, definitivamente datata al quindici di Settembre[1].
[1] Sui temi cultuali dell’Addolorata, cfr.: Morini A., Origini del culto dell’Addolorata, Roma 1893; E.M. Casalini, La Madonna dei Sette Santi, Roma 1990; L. Bertoldi Lenoci-V. Musardo Talò, La pia memoria, Manduria 1994: V. Musardo Talò, La Vergine “Desolata” nell’iconografia sacra popolare, I, 4 Manduria 1996, 19-22¸V. Musardo Talò, I santini della Passio Christi, “Santini et Similia”, III, (11), Manduria 1998, 9-16; S. De Fiores, Santa Maria Addolorata, in AA.VV., I santi nella storia, Milano 2006, 66 -70; Wilmart A., Auteurs spirituels et teste dévots du moyen age latin, Parigi 1932, 505–536; A. Rossi A., Il culto dei Sette Dolori, ”Addolorata” (1936), 68-72; C .Berti., De cultu septem dolorum S. Mariae, “Marianum”, 2 (1940), 81-86.
- Dedico questo studio alla memoria di un tarantino straordinario, Nicola Caputo (+2012), giornalista storico e divulgatore. Egli è stato il padre benemerito del recupero e la valorizzazione delle fascinose tradizioni della Città bimare, in specie quelle legate ai riti della Settimana Santa, una delle più pregnanti connotazioni essenziali della identità e dell’anima cataldiana. Il suo ricordo mi è caro, perché legato anche alla mia presentazione del suo ultimo libro, Il priore scomodo (2011). E’ inutile richiamare il suo ruolo di studioso. Fra le sue pubblicazioni a tema dell’argomento, mi piace ricordare: L’anima incappucciata. La Settimana Santa e le processioni dell’Addolorata e dei Misteri dalle origini ad oggi a Taranto, Taranto 1983; Destinazione Dio. Storia delle tradizioni popolari e delle feste religiose a Taranto, Taranto 1984; I giorni del perdono–Forgiveness days, Taranto 1995; Il cammino del silenzio. L’anima incappucciata, Taranto 2002; Settimana Santa nascosta, Taranto 2007
Enza Musardo, come sempre, riesce ad entrare nei punti più intimi dell’interpretazione iconografica religiosa…
Non conosco la studiosa, certamente ricercatrice, che evidenzia il pregnante esplicativo con cura e sentimento. Con ammirevole cordialità – peppino martina