di Armando Polito
Sinonimo di umore, sciana è in uso in locuzioni del tipo osce sto ti sciana (oggi sto di umore giusto, ho voglia di fare) ma anche in unione all’aggettivo che ne definisce esplicitamente il valore positivo (sto ti bona sciana) o negativo (sto ti malesciana). Il derivato scianaru (prevalentemente e, come dirò, non a caso, usato al femminile scianara) come sinonimo di volubile. Ecco come i due lemmi sono trattati dagli autori di riferimento che spesso cito nei miei contributi di questo tipo. Comincio dal Rohlfs.
Continuo con il Garrisi.
Chiudo col Presicce.
Per quanto riguarda il Garrisi osservo che non mi è stato possibile reperire jena/jana in nessun vocabolario dello spagnolo, nemmeno in quello della Real Academia Española (https://dle.rae.es/?w=diccionario).
Noto, invece, un filo sottile che collega il Rohlfs ed il Presicce, costituito dal lunatico che si legge nel primo e da Luna nel secondo. In particolare, però, la proposta del Presicce σελάνα>sciana suppone una trafila che credo immaginata attraverso la sincope di –ε- (σλάνα) ma che comporta un esito finale σλ->sci- del quale non conosco esempio.
Passando al Rohlfs, direi, invece, che il Diana messo in campo non fa una piega dal punto di vista fonetico, tanto meno da quello semantico. Comincio dal primo: l’esito di- (seguito da vocale)>sci– è da manuale, come dimostrano due tra i tanti esempi possibili. Per il primo ricordo i derivati italiani e salentini da dies=giorno: diurno, giorno, giornata in italiano e giurnu e sciurnata in salentino; per il secondo i derivati italiano e salentino da iugum, rispettivamente gioco e sciùu. Qualcuno mi chiederà dov’è la d- in iugum. Mi vien da dire che è rimasta cancellata dal logorio del tempo se penso che il verbo derivato da iugum, cioè iùngere (da cui l’italiano giungere e suoi composti), ha il suo gemello nel greco ζεύγνυμι (leggi zèugniumi); la consonante ζ è frutto di incontro tra δ (delta) e j (jod), per cui ζεύγνυμι in origine era *δjέϝγνυμι, giunto alla forma finale non solo col passaggio δj>ζ ma anche con la vocalizzazione in –υ– del digamma (ϝ). Lo stesso è avvenuto per Ζεύς (leggi Zèus) che originariamente era *Δjέϝς. Il fenomeno è presente pure nel vocativo Ζεῦ (leggi Zeu) da *Δjέϝ. Il δj – sopravvive, invece, con vocalizzazione di j, negli altri casi: genitivo Διός (leggi Diòs) da *Διϝός (leggi Divòs), dativo Διί (leggi Diì) da Διϝί (leggi Divì), accusativo Δία (leggi Dia) Noto è che allo Zeus greco corrisponde il latino Iùppiter, caso nominativo da un precedente *Iovspater composto da *Iovs (Giove) e dall’apposizione pater (padre); tale apposizione è presente pure nel vocativo (che è uguale al nominativo), mentre è assente negli altri casi: Iovis (genitivo), Iavi (dativo), Iovem (accusativo) e Iove (ablativo). La sopravvivenza del greco δj- è chiaramente percepibile nel latino deus (dio), mentre l’aggettivo divus (divino) si collega alla forma originaria dei casi obliqui di di Ζεύς prima riportati.
E proprio su questo dettaglio fonetico non posso omettere di ricordare una nota di Publio Nigidio Figulo (I secolo a. C.) giunta a noi per tradizione indiretta grazie a Teodosio Ambrogio Macrobio (V secolo), Saturnalia, I, 9.
Dianae vero ut Triviae viarum omnium iidem tribuunt potestatem, sed apud nos Ianum omnibus praeesse ianuis nomen ostendit, quod simile θυραίῳ. Nam et cum clavi ac virga figuratur, quasi onium et portarum custos et vector viarum. Pronuntiavit Nigidius Apollinem Ianum esse Ianamque Dianam, apposita d, litera quae saepe literae i causa decoris apponitur, ut reditur, redhibetur, redintegratur.
(A Diana in verità, come a Trivia, gli stessi (i Greci) attribuiscono il potere di tutte le vie . Ma presso di noi il nome Giano mostra di presiedere a tutte le porte poiché simile ad uno che sta alla porta. Infatti è raffigurato con una chiave ed un bastone, quasi custode di tutte le porte e guida delle vie. Nigidio ci ha fatto sapere che Giano è Apollo e Giana Diana con l’aggiunta della lettera d che spesso viene anteposta alla lettera per decoro, come avviene, si crede, in reditur, redhibetur, redintegratur).
Diana, com’è noto era gemella di Apollo, entrambi figli di Zeus e Latona, Nel passo di Macrobio Iana/Diana conserva la sua parentela grazie all’identificazione di Giano con Apollo.
Comunque, per tornare al dettaglio fonetico, Iana con prostesi di d- per motivi eufonici avrebbe dato Diana.
Ciò non mi convince perché gli esempi fatti (reditur e compagni) sono tutte parole composte, verbi in cui il primo componente è la particella ripetitiva re-. Non conosco parola, che non sia verbo, in cui compaia tale fenomeno. E poi: se Iana ha dato Diana, perché lo stesso non è avvenuto per Ianus, la cui forma eufonica sarebbe stata Dianus?
Tuttalpiù si può pensare che Iana sia alla base delle forme ricordate dal Rohlfs (jana, sciana, gene) e che da un un suo derivato aggettivale (col significato di sacerdotessa, devota o seguace di Diana) abbia dato vita alla scianara salentina come alla napoletana janara (strega).
E qui ci attendono il terreno viscido e l’aria nebulosa dell’occultismo, che continua ad avere i suoi proseliti in piena era digitale; quando. poi, queste incrostazioni irrazionali sedimentano nei millenni, districarsi è ancora più difficile. E la stessa etimologia arranca più del solito. Proprio a proposito di Giano (e, dunque, il discorso varrebbe pure per Iana/Diana) sulla base della testimonianza di Cicerone (I secolo a. C.).) riportata dal suo contemporaneo Cornificio citato ancora da Macrobio (più tradizione indiretta di così …) poco dopo il brano di lui prima riportato: … alii mundum, id est, caelum esse voluerunt Ianumque ab eundo dictum, quod mundum semper eat, dum in orbem volvitur et ex se initium faciens in se refertur, unde et Cornificius Etymorum libro tertio Cicero, inquit, non Ianum sed Eanum nominat ab eundo.
(… altri vollero che Giano fosse il mondo, cioè il cielo, e che Giano fosse detto dall’andare, poiché il mondo sempre va mentre ruota in cerchio e in sé facendo inizio in sé ritorna, per cui anche Cornificio nel terzo libro degli Etimi dice: “Cicerone lo chiama non Ianum ma Eanum da eundo“).
Faccio notare che eundo è il gerundio di ire (che significa andare) rimasto tal quale in italiano come forma poetica e nel salentino scire (come l’italiano poetico gire da *jire).
Alla stessa radice, sulla scorta del primo pezzo di Macrobio, vien collegato il latino ianua, che significa porta, quale elemento attraverso il quale si va, entrando ed uscendo. A tal proposito mi pare opportuno riportare quanto in propositi dice il Galateo (1444-1517) nel De situ Iapygiae, uscito postumo nel 1558 Sunt qui credunt mulieres quasdam maleficas, seu potius veneficas, medicamentis delibutas, noctu in varias animalium formas verti, et vagari, seu potius volare per longinquas regiones, ac nuntiare quae ibi aguntur, choreas per paludes ducere, et demonibus congredi, ingredi et egredi per clausa ostia et foramina, pueros necare.
(Vi sono coloro che credono che certe donne malefiche, o piuttosto venefiche cosparse di unguenti assumono varie forme di animali e vagano o piuttosto volano per lontane regioni, annunziano ciò che ivi si fa, danzano per le paludi, si accoppiano con i demoni, entrano attraverso le porte chiuse e le fessure, uccidono i fanciulli)
Riaffiora il legame tra Iana/Diana e le porte, anche se il ruolo della vigilanza benefica appare ribaltato in quello della violazione malefica. E per scianaru sinonimo di volubile, lunatico?
Mi pare basti pensare che Diana era la dea della Luna (come suo fratello Apollo lo era del Sole), astro al quale fin dai tempi più antichi è stato attribuito il potere di esercitare un’influenza sulla vita di animali (fra cui l’uomo e, in particolare il suo umore), vegetali e pure sulle cose (maree). Aggiungo il rapporto esistente tra il ciclo lunare e il mestruo e che Diana era protettrice delle donne. Questo quasi esclusivo appartenere di Diana all’universo femminile spiega forse il prevalere nell’uso di masciara rispetto a masciaru: insomma, a parer mio, uno dei tanti pregiudizi legati al sesso e per il quale mancherebbe solo intonare La donna è mobil qual piuma al vento …
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1 Opere a stampa:
Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976
Antonio Garrisi, Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990
In rete:
Giuseppe Presicce, Il dialetto salentino come si parla a Scorrano (http://www.dialettosalentino.it/a_1.html)
LA LUNA (“LA SCIANA”), IL DESIDERIO (“LU SPILU”), E IL FILO DI ARACNE. Quanti millenari pregiudizi …
CONSIDERATO CHE “SCIANA”, sinonimo di “umore”, «è in uso in locuzioni del tipo “osce sto ti sciana” (oggi “sto di umore giusto”, ho voglia di fare) ma anche in unione all’aggettivo che ne definisce esplicitamente il valore positivo (“sto ti bona sciana”) o negativo (“sto ti malesciana”). Il derivato “scianaru” (prevalentemente e, come dirò, non a caso, usato al femminile “scianara”) come sinonimo di “volubile” […]»; E CHE “SCIANA” è «deformazione dell’italiano “Diana”, dea della luna e della prima luce del mattino oltre che della caccia, dal latino “Diàna(m)”, da dius=divino, connesso con dies=giorno e con Iùppiter=Giove [da Iovis=Giove (a sua volta dal greco Zeus/Diòs)+pater=padre]» (cfr, “Lu spilu e la sciàna”: https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/12/16/lu-spilu-e-la-sciana/)
E’ BENE RICORDARE CHE «Diana, com’è noto era gemella di Apollo, entrambi figli di Zeus e Latona …» (cfr. “Dialetti salentini: sciàna”: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/03/10/dialetti-salentini-sciana/).
MILLENARI PREGIUDIZI. Per non scivolare nel “terreno viscido” e perdersi nell’aria nebulosa di ingegnosi labirinti e, al contempo, riuscire a districarsi tra millenarie “incrostazioni irrazionali” , forse, è opportuno tenere ben aperti gli occhi dinanzi ai bagliori emessi “dalla rete dell’oro” del SOLE dell’OLIMPO (“Dalla rete dell’oro pendono – così epigrammaticamente Salvatore Quasimodo – ragni ripugnanti”). e riguardare con attenzione gli ARAZZI tessuti da Atena, da Aracne, e da Filomela (cfr. Ovidio, “Metamorfosi”:: La tela di Aracne apre il libro sesto, la storia di Filomela lo chiude … Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5907),
FORSE solo così si potrà uscire dal labirinto, senza perdere il filo, senza abbandonare Arianna, e tornare ad Atene con le vele bianche – non nere!
Federico La Sala
P. S. ALLEGATO – LA TELA DI ATENA PALLADE, DI ARACNE, E DI FILOMELA:
A) L’ARAZZO DI ATENA…
Pallade effigia il colle di Marte nella cittadella di Cècrope
e l’antica contesa sul nome da dare alla contrada.
Dodici numi, e Giove in mezzo, siedono con aria grave
e maestosa su scanni eccelsi: ciascuno ha come impressa in volto
la propria identità; l’aspetto di Giove è quello di un re.
Poi disegna il dio del mare, mentre colpisce col lungo tridente
il macigno di roccia e da questo squarciato fa balzare
un cavallo indomito, perché la città gli venga aggiudicata.
A se stessa assegna uno scudo, un’asta dalla punta acuminata,
un elmo e l’egida per proteggere il capo e il petto;
e rappresenta la terra che percossa dalla sua lancia
genera l’argentea pianta dell’ulivo con le sue bacche;
e gli dei che guardano stupefatti; infine la propria vittoria.
Ma perché la rivale comprenda da qualche esempio
cosa dovrà aspettarsi per quella sua folle audacia,
aggiunge ai quattro angoli altrettante sfide,
vivaci nei colori, ma nitide nei tratti minuti.
In un angolo si vedono Ròdope di Tracia ed Emo,
ora gelidi monti, un tempo esseri mortali,
che avevano usurpato il nome degli dei maggiori.
Dall’altra parte la sorte pietosa della madre dei Pigmei:
avendola vinta in una gara, Giunone impose
che diventasse una gru e s’azzuffasse col suo popolo.
Poi effigia Antigone, che una volta osò competere
con la consorte del grande Giove e che dalla regale Giunone
fu mutata in uccello: né Ilio né il padre Laomedonte
poterono impedire che, spuntatele le penne,
come candida cicogna applaudisse sé stessa battendo il becco.
Nell’angolo che rimane Cìnira, perdute le figlie,
abbraccia i gradini di un tempio, già carne della sua carne,
e, accasciato sulla pietra, si staglia in lacrime.
Contorna tutti i margini con rami d’ulivo, emblema di pace,
e con la pianta che le è sacra conclude l’opera sua.
B) L’ARAZZO DI ARACNE…
Aracne invece disegna Europa ingannata dal fantasma
di un toro, e diresti che è vero il toro, vero il mare;
la si vede che alle spalle guarda la terra
e invoca le compagne, e come, per paura d’essere lambita
dai flutti che l’assalgono, ritragga timorosa le sue gambe.
E raffigura Asterie che ghermita da un’aquila si dibatte,
raffigura Leda che sotto le ali di un cigno giace supina;
e vi aggiunge Giove che sotto le spoglie di un satiro
ingravida di due gemelli l’avvenente figlia di Nicteo;
che per averti, Alcmena di Tirinto, si muta in Anfitrione;
che trasformato in oro inganna Dànae, in fuoco la figlia di Asopo,
in pastore Mnemòsine, in serpe screziato la figlia di Cerere.
Effigia anche te, Nettuno, mentre in aspetto di torvo giovenco
penetri la vergine figlia di Eolo, mentre come Enìpeo generi
gli Aloìdi, e inganni come ariete la figlia di Bisalte;
te, che la mitissima madre delle messi dalla bionda chioma
conobbe destriero, che la madre con serpi per capelli
del cavallo alato conobbe uccello e Melanto delfino.
Ognuno di questi personaggi è reso a perfezione e così
l’ambiente. E c’è pure Febo in veste di contadino,
e le volte che assunse penne di sparviero o pelle di leone,
e che in panni di pastore ingannò Isse, figlia di Macareo.
C’è come Libero sedusse Erìgone trasformandosi in uva,
come Saturno in cavallo generò il biforme Chirone.
Lungo l’estremità della tela corre un bordo sottile
con fiori intrecciati a viticci d’edera.
C) LA TELA DI FILOMELA…
[TEREO] Compiute le sue prodezze, ha il coraggio di ripresentarsi a Progne,
che vedendolo gli chiede della sorella. E quell’ipocrita
scoppia in lamenti, inventandosi la storia della sua morte
e il pianto gli dà credito. Dalle spalle si strappa Progne
i veli tutti scintillanti di lembi dorati,
si veste di nero, erige una pietra sepolcrale,
offre sacrifici funebri a un’ombra inesistente
e piange, non per ciò che si dovrebbe, la sorte della sorella.
Dodici costellazioni aveva percorso il sole, un anno intero.
E Filomela? Guardie armate le impediscono la fuga;
intorno alla prigione si erge un muro di macigni invalicabile;
muta com’è non può svelare il crimine. Ma del dolore immense
sono le risorse e nella sventura, lì, s’acuisce l’ingegno.
Con un accorgimento allaccia un ordito a un telaio primitivo
e sulla tela bianca ricama a caratteri di fuoco
l’accusa di stupro. Terminato il lavoro l’affida a una donna,
pregandola a gesti di portarlo alla regina, e la donna
lo consegna a Progne, senza sapere cosa cela ciò che porta.
La consorte del feroce tiranno srotola la tela,
legge le tragiche vicissitudini della sorella
e, come possa è un mistero, non fiata: il dolore l’ammutolisce,
la lingua cerca parole che esprimano tutto il suo sdegno,
ma non le trova; non piange neppure; pronta a violare ogni legge,
corre alla propria rovina col solo pensiero della vendetta.
* Publio OVIDIO Nasone, “Metamorfosi” – VI: http://www.homolaicus.com/storia/antica/grecia/aracne/testo.htm
Federico La Sala