di Cristina Manzo
Uno dei canti più tipici del Salento è quello legato alla pizzica, conosciuto anche come il ballo dei tarantati. Secondo la leggenda la tarantola con il suo morso, o con la sua “pizzicata” provocherebbe nella donna, delle crisi isteriche che la indurrebbero all’esagitazione. Secondo la tradizione popolare, pare poi, che alcuni musicanti fossero in grado, con il solo suono di strumenti, in particolare di un tamburello, di placare lo stato d’animo della donna “pizzicata”.
Questo, a volte, poteva durare anche per interi giorni, sino a che non si riusciva a trovare quella combinazione di vibrazioni musicali adatte per lo scopo, o addirittura a seconda della gravità della “tarantolata”. La parte corposa del canto poteva anche essere breve ma, avere un versetto assai significativo che ne diventava il ritornello, ripetuto, con enfasi sempre maggiore, infinite volte, come ad evidenziare il fulcro del tema, parafrasato.
Ma il genere di canti in cui più viva e chiara è la comunanza con la poesia greca e che si affonda nelle tradizioni più antiche della Grecia, è il genere dei canti funebri, dette “rèpute” in dialetto salentino, da “reputàre”, che significa piangere a lungo lamentosamente. Nelle nenie tornano i motivi greci della concezione della morte: il motivo di Caronte che è considerato come uno sdoppiamento di Tanatos con tutti gli attributi classici di Novalestro rapitore di vite umane, Dio della morte contro il quale gli uomini ingaggiano invano l’estrema lotta, sia pure per procrastinare di un poco il momento fatale. Il motivo dell’Ade come del luogo nel quale si continua la vita dei mortali:
“Me manda dicendu fìjama I Cu ni mandu” na mutata, Ca quidda ci ni misera I L’ave strutta pe’ la strata. Me manda dicendu fìjarna Cu li mandu na camisa, I Ca quidda ci ni misera L’ha squajàta cornu ‘ na cira8. (Trad. nelle note).
Motivi tutti che ritroviamo nelle nenie funebri greche9. E accanto alla poesia c’è tutto un insieme di usi e di costumanze funebri che richiamano all’antica Grecia: lu “Cùnsulu”, banchetto funebre offerto da parenti ed amici alla famiglia dell’estinto, (la consolazione di abbondante cibo e bevande, per i parenti del defunto, anticamente si protraeva sino ad una settimana, questo per evitare di far cucinare la famiglia, che era troppo afflitta dal dolore), l’abbigliamento da lutto con cappe, e l’usanza per cui gli uomini, nel periodo del lutto, fanno crescere la barba, sono tutte costumanze radicatissime nel Salento e che non tendono a scomparire.
E poi, ancora, l’uso che persisteva presso le popolazioni salentine, abolito nell’anno 1620 da un decreto emanato nel Sinodo Ariano tenuto da Don Diego Lopez, arcivescovo di Otranto, di mettere una moneta in bocca ai morti, nolo da pagare a Caronte, e nelle mani del morto un frutto, generalmente una mela cotogna10.
E del pari antica e legata al mare l’usanza di cui ci dà notizia E. Vernole in “Il Castello di Gallipoli”11, per cui le zitelle convenivano su di uno scoglio detto “Sàbbata” , pare da “Sabbatàre”, cioè il convenire delle streghe, per partecipare ai riti occulti in seguito ai quali esse sarebbero state neutralizzate contro qualsiasi male. Il Vernole ha raccolto il canto scongiuro che le zitelle di Gallipoli recitano ancor oggi a San Giorgio per essere salvaguardate dalla mala gente, residuo dell’antica tradizione. Così per “La sposa rapita”, come per “Le due sorelle”, designata spesso col titolo “Sabella”, canti diffusissimi nel Salento e che si trovano in forma piuttosto compiuta e completa e per i quali, anche se non si può con sicurezza affermare che sono sorti nel Salento, pure si può pensare che abbiano trovato in questa regione l’ambiente favorevolissimo per diffondersi e continuarsi nella tradizione, poiché i lunghi contatti con i Babareschi rendevano attuali e vissute le vicende narrate dai canti.
La variante gallipolina di “Sabella” o “Le due sorelle”, ha abbondanti accenni al mare, termini marinari: Quandu stava alli mari brafùndi e poi E sai quantu nde rape sòruta? Quantu l’unda te lu mare, “Guarda, guarda su ddu scòju I A du mena l’onda e l’onda Guarda, guarda su ddu scòju I A du mena russu e jàncu (trad. nelle note) e, ancora, “Spiripìndulu, spiripìndulu” che, secondo il raccoglitore (E. Vernole), vuol significare un agile pesciolino.
Ricordiamo un canto d’amore in cui, di due belle sorelle, è detto: “Stanno come galere sopra il molo e fanno guerra con il Veneziano, in cui l’ accenno alle galere indica sicuramente che il cantore, abitante di luogo marino, ha potuto vedere le galere veneziane dondolarsi maestose sul molo e ricordarsi di esse nel paragone delle due belle fanciulle. Il mare dunque è protagonista importante nei canti popolari del Sa-lento come elemento di ispirazione, come patrimonio di esperienze cui attinge la fantasia popolare per esprimere i propri sentimenti. Ma anche, come abbiamo detto, elemento di coesione tra civiltà separate da esso, e non di divisione12.
L’acqua è un elemento con una grande capacità di assorbenza che è in grado di mantenere la “vibrazione”, come “informazione”, anche per un tempo molto lungo. Attraverso l’ascolto profondo del suono, il nostro corpo ha la facoltà di ri-intonarsi alla giusta frequenza della natura, la “Frequenza Armonica.” L’acqua e la musica sono molto simili, sono entrambe componenti creative del mondo che si fondono in un movimento unico, le onde sono sonore e sono la parte fluida della materia, simbolo e manifestazione del ciclico procedere del tempo.
Osserviamo l’incedere continuo di segni grafici che si trasformano in onde: la calma del respiro che è il respiro del mare, gli abbellimenti simili alla cresta spumosa dei torrenti, il rumore delle rapide in prossimità delle cascate, quello assordante del loro precipitare in basso, o della piena all’apertura di una diga, o il suono che si produce quando essa spinge le ruote di un mulino, il ticchettio prodotto dal cadere sistemico delle gocce di pioggia e infine il silenzioso scorrere dell’acqua nel letto di un fiume, essi sono note improvvisate di un concerto eseguito dalla natura, che non segue mai uno spartito; e sono, solo alcuni, dei segni della notazione che desumono il nome dall’acqua, si chiamano “liquescenze” e si eseguono proprio a ricordare la liquidità, l’impalpabilità della materia fluida.
La musica del rinascimento e del barocco è piena di rimandi onomatopeici al suono dell’acqua. La via dell’acqua attraversa tutti i successivi secoli, Vivaldi la incontra nelle “quattro stagioni” e la traduce mirabilmente con il secondo e terzo movimento dell’estate nel quale dopo la canicola imperversa una tempesta. I lampi, i tuoni sono evidenziati da figure ritmiche dell’orchestra con semicrome ribattute e serrate, il violino solista esegue volate virtuose e strappi d’arco ad evidenziare la forza della saetta e il turbinio dei venti. Il mare è fonte di suggestioni e nume ispiratore di una quantità di opere artistiche, siano esse pittoriche, poetiche, narrative o musicali13.
Nelle note di un componimento che un musicista fa di sé si nascondono alcune domande: perché e come è possibile una stesura musicologica della propria anima? Delle proprie emozioni, che si comunicano all’esterno da noi, senza dover usare parole o segni? Che cosa ci permette di procedere all’identificazione? Che senso e che legame ha la creazione artistica, nei confronti di quelle che la precedono (e la seguiranno?); attraverso la deviazione musicale, c’è la possibilità della riflessione del soggetto su di sé. La musica ha molte dimensioni, perché molti sono i modi d’essere e i modi di pensare degli uomini. E sono certamente i modi d’essere e i modi di pensare degli uomini che determinano l’orizzonte di motivi, che consente all’immaginazione musicale di avviare il suo corso, mettendo in moto quella dialettica da cui sorgono le sue opere. Nessun pensiero musicale potrebbe sorgere se non ci fossero altri pensieri14.
Quindi, ne consegue che è sotto l’influenza dei nostri gesti quotidiani che nasce l’arte, la musica o la poesia improvvisata che scaturisce, in qualche modo, direttamente dall’anima e dal cuore, senza bisogno di essere ragionata, ma lasciata alla sua spontaneità culturale. Il concetto di improvvisazione è, a mio avviso, inscindibilmente legato al concetto di morte, di vita, e a quello di amore: l’esperienza del singolo non può essere condivisa e vissuta come un’esperienza collettiva ma, è altresì vero che, mentre non si impara a morire, si può imparare come vivere, amare e improvvisare, e anche come far morire un’improvvisazione nel migliore dei modi, perché la nostra vita è un suono, è una vibrazione impercettibile, inafferrabile come la sabbia o l’acqua che scorrono, veloci e musicali, tra le dita del tempo.
L’importanza delle tradizioni culturali sta proprio nella memoria “circolante” fedele e, libera di essere tale.
Note
8 Mauro Cassoni, Caronte e Tànato nella letteratura greco-otrantina; in “Rinascenza salentina”, A. III, n. V – VI. 1935. Traduzione del canto funebre: Mi manda a dire mia figlia di mandarle un cambio di abiti, perché quelli che le misero li ha distrutti durante il viaggio (nell’al di là), mi manda a dire mia figlia di mandarle una camicia, perché quella che le misero, si è sciolta come cera.
9 Niccolò Tommaseo, Canti popolari greci, Sandron, Milano, Libreria Editrice Milanese, 1913.
10 Irene Maria Malecore, Magie di Japigia, etnografia e folklore Del Salento, a cura di F. Lucrezi, Alfredo Guida Editore, Napoli, 1997.
11 Ettore Vernole, Il castello di Gallipoli, Illustrazione storica architettonica, Roma, 1933.
12 Traduzione del versetto in vernacolo nella nota 11: Quando stavo nei mari profondi, e sai quanto ne sa tua sorella? Quanto l’onda del mare, guarda, guarda su quello scoglio dove batte l’onda e guarda, guarda dove butta rosso e bianco, in Il mare nel folklore del Salento, di I. M. Malecore, Provincia di Lecce – Mediateca – Progetto EDIESSE (Emeroteca Digitale Salentina) a cura di IMAGO – Lecce. http://www.culturaservizi.it/vrd/files/ZG1959_mare_folklore_Salento.pdf
13 Remo Guerrini, L’acqua in musica, www.museoenergia.it
14 Giovanni Piana, Filosofia della musica, p.295, Angelo Guerini e Associati, Milano, 1991.
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Negli anni ’60 c’era una trasmissione radiofonica dal titolo: Aria di casa nostra, canti e danze del popolo italiano. Mi ricordo di aver sentito diversi canti salentini, tra i quali uno degli spaccapietre di Martano (prima del l’avvento delle moderne macchine per la frantumazione delle grosse pietre che dovevano servire per le fondazioni stradali, queste pietre venivano frantumate manualmente). Chissà se la RAI conserva altre cose legate al tarantismo.
Probabilmente si possono ancora trovare dei dvd-documentario che illustrano il fenomeno, io stessa anni fa ne avevo uno, acquistato in edicola. Di solito, tutti questi filmati venivano prodotti dall’Istituto nazionale archivio Luce. Bisogna essere grati a uno storico che se ne è occupato ampiamente, Ernesto de Martino, ci sono tantissimi scritti su questi argomenti ma, sarebbe altrettanto interessante visionare il materaile della RAI, se esistesse ancora. Chissà…