di Cristina Manzo
Tre Re Magi, da lontano,
son venuti piano, piano
per vedere Gesù Bambino.
Una stella
tra il turchino
li ha guidati nel viaggio,
dolcemente, col suo raggio;
li ha guidati col suo lume.
Gesù dorme e non ha piume,
non ha fuoco, non ha fiamma:
ha soltanto la sua mamma.
L.Nason
“L’iniziativa nel Salento, ed in particolare a Melendugno, di una mostra storica del presepio colma una lacuna e, nello stesso tempo, pone tutta una somma di premesse. In effetti, mai c’era stata nel Salento che ha dato un contributo imprescindibile alla statuaria sacra, una mostra storica del presepio, almeno di manufatti presenti nella zona. Si tratta, in fondo, di un’attività di non comune spessore economico e culturale. Di un’attività, allora, che va dignitosamente valorizzata”[…] Questa mostra intende essere, con gli elementi esposti ed i contributi offerti con genuinità d’intenzioni, un approccio di non comune consistenza a quel lavoro. […] È, questo, anche un augurio ed un incoraggiamento a quanti in questo settore della cultura operano.
Questo quanto si legge in una dichiarazione firmata dall’Assessore alla cultura e P.I. del comune di Melendugno, Francesco Trecca e C. S. P.C. R. di Calimera, Salvatore Polo e Tonino Fiorentino, a Calimera il 13 dicembre del 1985, per l’esposizione dei presepi allestita nella sala consiliare del comune di Melendugno dal 13 al 22 dicembre 19851.
Al 1946, invece, risale “La prima mostra artigiano del presepio” organizzata a Lecce, dalla Camera di Commercio, con premio al miglior presepe, quello di Michele Massari, presepe gotico in mostra permanente al castello Carlo V. […] È sorprendente, ascoltare diversi anziani leccesi raccontare (e gli studiosi della materia ne danno giustificazione storica), che a Lecce e nella sua provincia da secoli esiste la tradizione presepiale. In Salento ci sono chiese i cui presepi risalgono al Cinquecento, com’è il caso di quello costruito in pietra locale da Stefano da Putignano nell’antica chiesa di San Francesco d’Assisi nel centro storico di Gallipoli2.
A questo grande artista, da principio la critica non aveva prestato la giusta attenzione dovuta, eppure è proprio ad egli che è da attribuire l’espressione più peculiare del presepio pugliese, nonostante la sua educazione artistica non possa essere individuata prettamente nel suo paese d’origine, poiché nasce e si forma in un ambiente artistico e culturale ricco di fermenti e fecondo di sollecitazioni, come quelle della tecnica artistica dei lombardi Pietro e Giovanni Alamanno ai quali, invece, sembra debba essere attribuita la nascita del presepio napoletano. Un documento, estremamente interessante, del 1478 ci fa sapere che in quest’anno messer Jaconello Pipe o Pepe, aromatario del Duca di Calabria, dette incarico ai due Alamanno di apprestargli, in occasione del Natale di quell’anno, le figure in legno di un presepio che doveva essere così composto: la Madonna Incoronata, il Santo Bambino, San Giuseppe, tre pastori, undici pecore con tre cani, quattro alberi, undici angeli, il bue e l’asino, due profeti e due sibille. Fu anche pattuito il prezzo, in dodici once di carlini d’argento. Quel che resta di un tal cospicuo numero di elementi è attualmente conservato a Napoli, nella chiesa di san Giovanni a Carbonara.
Mentre, notevole è nel museo pinacoteca di Bitonto, un presepio in pietra di uno scultore galatinese, Nuzzo Barba. Il Foscarini lo dice “artefice molto apprezzato ai suoi tempi, se non di grande finitezza”. Certo è che durante i secoli XV e XVI nel Salento, i motivi rinascimentali sono interpretati, ad opera di artisti come Nuzzo, o Nunzio, Barba da Galatina, Francesco Bellotto, Francesco Colaci, e lo stesso Stefano da Putignano, secondo un modo spiccatamente decorativo, fantastico e pittoresco, che senza ombra di dubbio, per certe cifre stilistiche già pronunciate, può già dirsi Barocco. Nulla resta del Barba in provincia ed a Lecce, nella cui Cattedrale, invece, è custodito, sia pure ridotto e mutilato, l’interessante presepio dei Riccardi, tanto caro e presente ai leccesi. Consiste in un tabernacolo poggiato su due colonne a spirale e due mezze colonne addossate al muro, elegantemente intagliate e sulla cui copertura sono situati i Re Magi e vari animali scolpiti in pietra leccese. L’effetto che le figure del Riccardi producono è grandioso, e c’è da pensare a quando l’opera era integra, suscettibile d’essere ammirata nella sua scenografica grandiosità. Ma con le figure del Riccardi per il presepio, il cui spirito si discosta di molto da quello, piuttosto rude ma schietto e forte che era tipico delle figure di Stefano da Putignano, e con le figure della chiesa di San Giovanni Battista, comunemente detta del Rosario, disposte con intenzione realistica intorno ad un dipinto della Natività, Lecce si introduce con piena dignità culturale nel pittoresco movimento napoletano dell’invenzione e dell’esecuzione dei presepi fermi e “movevoli”3.
Si legge, nel periodico natalizio del 2002: ‘Lu Puparu’, dopo 22 anni, continua, con la sua presenza, a nobilitare il Natale leccese. Unico periodico che documenti le tradizioni e le usanze tipiche del nostro territorio, offrendo un impareggiabile excursus sul dialetto e sulle ricerche legate alla manifattura del presepe e dei ‘pupi’, arte ancora molto condivisa e frequentata dai leccesi, nonostante il progredire dei tempi e l’uso di materiali sempre più lontani dalle tradizionali creta e cartapesta […] Del resto, i ‘pupari’, riuniti in una combattiva e importante Associazione, sono i testimoni, forse unici, di un fenomeno che, col passare degli anni, acquista sempre maggiore importanza, finendo per diventare l’unico referente di quel ‘come eravamo’ che unisce le vecchie generazioni ai giovanissimi, certificando che solo attorno al Presepe si possono riscoprire i sentimenti più antichi e genuini legati alla memoria ed alla fragranza delle cose semplici4.
L’associazione di cui nel periodico si parla è quella appunto che si denominò come Associazione salentina degli “Amici del Presepe” (che una volta erano conosciuti semplicemente come i “Pupari”) di cui ha fatto parte anche Antonio Edoardo Foscarini, che ha scritto, tra le molte opere, “Presepi e pastori del Salento”. Da tempo immemorabile, quindi, queste mostre sono diventate sempre più popolari, varie e importanti su tutto il territorio salentino spronando l’artigianato locale a esporre tutti i pregiati manufatti legati alla storia del presepe. Sono motivo di attrazione per tutti gli appassionati di tradizioni, vi sono turisti che vengono anche da molto lontano per visitare e comprare questi capolavori e, nel corso degli anni si sono avute a disposizione varie sedi di notevole storia e visibilità dove esporre tutte le manifatture artistiche create dagli artigiani pupari. Questa tradizione antica aveva un giorno specifico di inizio che era quello della ricorrenza di Santa Lucia.
Il 13 dicembre, a Lecce si teneva un’antichissima fiera istituita sin dalla I metà del secolo XVI, ad istanza dell’abate Donato Maria Muccinico. Essa era unica nel suo genere, ed era conosciuta come la “fiera dei pupi” e preannunciava l’arrivo del Natale e della natività raggruppando una bellissima ed emozionante esposizione di tutte le figure più importanti del presepe, tutti i soggetti e i luoghi che sono legati alle radici contadine del nostro territorio. La tradizionale fiera si teneva nelle adiacenze della chiesetta dedicata a questa Santa, da molti anni ormai chiusa al culto e quasi dimenticata da tutti per essere stato demolito e non più ricostruito il palazzo sotto cui si trovava. Di questa chiesetta rimane una viva descrizione in un articolo riportato nel “Corriere Meridionale” del 17 dicembre 1891 scritto dal conte di Ugento e Pisignano Benedetto Alfarano Capece sotto lo pseudonimo di “Hahhh!!!!”.
“Nel sobborgo di questo nome, in fondo alla più spaziosa via di Lecce, troppo larga come via, troppo stretta come piazza, (ricordiamo che siamo nel 1891), sorge un fabbricato basso, tozzo, disadorno, e liscio come il seno di una signorina inglese. Fra i due usci che vi si aprono c’è un affresco raffigurante S. Lucia, l’Argo della religione cattolica, che, beata lei, ha un par d’occhi di ricambio, come un mortale, sia pure un mortale di un membro dell’Accademia di Francia, può avere due dentiere. Dai due usci, mercé due scalinate separate da un muro, si scende in un sotterraneo, battezzato col nome di chiesa, ma che invece è qualcosa di indefinibile, non è una cripta, perché non è sottoposta a nessuna chiesa, non è una confessione, perché manca di reliquie; della catacomba non ha la maestà ed il fascino del mistero che la morte consacra; e finalmente non è una cantina, perché di vino non c’è che quello delle ampolline per la messa. Quell’odore misto di muffa, di incenso e di moccolaia, ch’è la caratteristica delle chiese fuorimano, vi sale al naso appena scendete, per completarsi più basso con quello dell’olio di lentisco, ch’è il “rossetter” dei nostri contadini, e con quello dell’indaco con cui sono tinti i loro abiti. Grandi festoni di veli multicolori con disegni ti talco dorato in applicazione, ornano le pareti della spelonca che ha due altari, mentre attorno alla statua della santa, ornamento d’altra natura, trofei di vittorie da essa riportate, sono appesi dei mascherini; sono i doni votivi: occhi d’argento, di cera, di cartapesta, occhi lividi e stillanti marciume, a seconda del verismo del gabinetto dell’artista…” 5.
Ad ogni vigilia di questa festa, in tutte le famiglie leccesi si tiravano fuori gli scatoloni e gli imballaggi con cui l’anno prima, alla fine delle festività natalizie, invero molto dopo l’Epifania, esattamente in occasione della Candelora, si erano messi via tutti gli addobbi che erano stati usati per costruire il proprio presepe, e cominciava l’inventario dei pezzi per vedere cosa poteva essere andato perduto ed era mancante. Se si trovavano pupi rotti si cercava di accomodarli con la colla da falegname sciolta al fuoco. In ogni casa era una gara a chi faceva il presepe più bello e caratteristico. C’era un angolo della casa scelto apposta per questo. Veniva costruita una bella base di legno, con uno spazioso pianale, foderata poi con la carta da imballaggio marrone chiaro o con una carta dello stesso spessore ma dai colori mimetici (solo più tardi si è introdotto l’utilizzo anche della carta crespa colorata) e quella azzurro cielo con stelle dorate veniva posta come sfondo del paesaggio. Con la stessa carta mimetica e fogli di giornale abilmente celati si costruivano anche dune e caverne dove posizionare pupi e animali. Il presepe doveva essere ricco di scene, il mulino che tirava l’acqua, il granaio, i mucchi di fieno, le pecore che brucavano l’erba, le oche dentro lo stagno che, molte volte si costruiva con dei pezzi di specchio coperto ai lati dal muschio, raccolto nelle campagne dove c’erano sempre in abbondanza grandi pietre che ne erano ricoperte o, a volte, persino sulle liame delle case, (cioè i terrazzi) dove con l’umidità d’inverno se ne ricoprivano le chianche, (lastroni di pietra che si usavano per pavimentare). Poi si usavano pietre, conchiglie, pezzi di sughero, corteccia degli alberi, piccoli ramoscelli. I pastori e gli artigiani del piccolo borgo dovevano rappresentare ogni mestiere: c’era la lavandaia, il panettiere, il ciabattino, il sarto, il lattaio, il fabbro, il fruttivendolo, il macellaio, il pescatore e il falegname. I presepi si potevano costruire con le forme di gesso e poi dipingerli, oppure in cartapesta o in pietra leccese, o in sughero, potevano essere anche a più piani con delle scalette in pietra o di legno o di sughero e una volta finiti, prima di posizionare tutti gli abitanti e la natività nella piccola stalla con la mangiatoia dove sarebbe stato deposto il “bambinello”, davanti al bue e all’asinello che l’avrebbero scaldato con il loro fiato, si dovevano inserire tutte le piccole lucine colorate, nascoste negli anfratti e sotto i piccoli mucchi di erba e di fascine che, una volta accese, avrebbero creato la magia e la suggestione attorno alla nascita di Gesù, una scena bucolica sotto un cielo stellato. Infine si ricoprivano tetti e superfici all’aperto con strati di cotone idrofilo che dava l’immagine della coltre di neve adagiata. (anche qui, solo più tardi sono state introdotte le bombolette spray, di neve artificiale). All’entrata della grotta spiccavano sempre due angeli con trombe d’oro, per annunciare la nascita del Divino Gesù, e la cometa sopra il tetto che indicava la strada ai tre Re Magi che dovevano essere posizionati su un sentiero in lontananza per poi arrivare la notte dell’Epifania. Infine, si delineava una specie di perimetro sulla base costruita che circondava il paesaggio della natività con una fila di arance e pigne con sopra delle candeline fissate con la cera calda, che sprigionavano un profumo di resina e di agrumi indelebilmente legato ai ricordi del Natale. Le candeline si accendevano la notte della vigilia, quando tutti insieme davanti alla grotta si cantava “Tu scendi dalle stelle” e si pregava in attesa che nascesse Gesù Bambino. Il pupazzetto che lo rappresentava, quindi, restava nascosto in un cassetto dal giorno dell’allestimento sino all’orario della nascita, e prima di essere deposto nella mangiatoia, dove lo portava sempre il membro più piccino della famiglia, doveva essere baciato da tutti i componenti, che in fila indiana lo accompagnavano da Maria e Giuseppe che lo attendevano. Questo era il momento più emozionante del Natale. Per i bambini era un vero divertimento, ogni anno, aiutare i grandi in questo allestimento e osservavano sempre tutto con molta attenzione perché sapevano che un giorno, questo compito, sarebbe toccato a loro e che lo avrebbero costruito a loro volta tramandando la tradizione. Quando, il giorno dopo, si andava tutti insieme alla fiera di Santa Lucia ognuno, dopo l’inventario, sapeva esattamente cosa occorreva comprare per completare il proprio presepe, quante pecore, quanti pupi o pezzi di paesaggio o, semplicemente, si decideva di comprare qualche pezzo in più che, aggiunto agli altri, avrebbe contribuito ogni anno a rendere più maestosa e ricca la costruzione. I pupi all’inizio erano realizzati in terracotta o cartapesta accuratamente rivestiti con stoffe preziose e dipinti a mano, oppure lasciati grezzi o appena fuocheggiati e rappresentavano manufatti di grande maestria e rarità. Solo successivamente si è passati alle costruzioni, su ampia scala, realizzate in plastica e molto più economiche da distribuire sul mercato. Inoltre a questa fiera venivano esposti anche presepi già interamente allestiti e completi di ogni personaggio, per i ricchi signori che non avevano né tempo né voglia di cimentarsi in questo passatempo.
Quella dei pastori per il presepe era una produzione caratteristica salentina nata all’ombra delle botteghe in cui si lavorava la cartapesta. I giovani lavoranti, nelle ore libere (poche per la verità…allora), si dedicavano a fare i “pupi”, ed a quest’arte si dedicavano anche i barbieri che con passione si cimentavano in quest’occupazione che, tra l’altro, consentiva loro di realizzare un guadagno extra. […] In molte chiese si erigevano grandiosi, stupendi presepi come quelli delle chiese leccesi di San Giuseppe, di Sant’Angelo, di San Francesco, ed infine negli anni più recenti, quello che veniva realizzato, con l’aiuto dei convittori, dei padri gesuiti nella chiesetta annessa al “Collegio Argento”. Per questi grandi presepi, vere opere d’arte, non si utilizzano i “pupi” venduti alla fiera di S. Lucia, ma delle statuine alte sin oltre cinquanta centimetri, realizzate in cartapesta, in creta, in pietra leccese e rivestite di abiti in tessuti pregiati, opera di scultori che avendo iniziato la loro carriera come modellatori di “Madonne e Cristi” di cartapesta nelle botteghe artigiane, si dilettavano nel fare i “pupi” anche quando erano diventati famosi. Ricorderemo tra i tanti: A. Bortone di Ruffano, E. Maccagnani e L. Guacci di Lecce, G. Mangionello di Maglie6.
Una testimonianza che i nostri scultori, anche i maggiori, hanno cominciato la loro carriera artistica facendo “pupi”(e, in questo caso, proprio con riferimento al Mangionello di Maglie) ce la dà l’avvocato Martino Colucci in un articolo firmato “Sir” apparso, sul “Corriere Meridionale” del 23 dicembre 1897 e che riporta fedelmente:
“Si era giovanetti, e si andava insieme alle scuole elementari. Egli disegnava spesso dei paesaggi e delle figurine graziose, più spesso ancora rubacchiava le stecchette di gesso per il quadro nero e scolpiva madonnine e santini. Un anno, al primo giorno di lezione dopo le vacanze del Ceppo, volle condurre me e tutti gli altri compagni di classe nella sua modesta casetta, a vedere il “Presepe” quest’arcaico e tradizionale omaggio al rinascente bambino. Ci parve una cosa nuova e molto bella. Avvezzi a vedere sui monti di cartone i “pastori” dei nostri rivendugliosi ambulanti, vestiti al solito con giubetto e calzoncini corti, col solito cappello a cencio, con i soliti stivalini alla moda, si rimane meravigliati di vederli avvolti in larghi paludamenti, che egli chiamava “toghe” e “tuniche”, o a sentirsi dire dal piccolo artista audace che gli uomini di quel tempo non usavano coprirsi il capo in battaglia o raramente, e solevano calzare certe suole assicurate al collo del piede con i lacciuoli, che si dicevan “sandali”; come sapeva tutto ciò? – E dove hai comprato quei bei pastori ? – Saltò a dimandare uno di noi. – Li ho fatti io – rispose, e ci condusse in cucina a vedere il fornello che s’era costruito da sé per cuocerli. Così la devozione del giovanetto anche rivelava un artista. Quel giovanetto era Giuseppe Mangione, lo scultore magliese. Venuto su grandicello andò a Roma, dove per una ragione di omonimia si nascose nel cognome più modesto di Mangionello, quasi volesse rimpicciolirsi. É l’autore di “Fimonòe”, di “Petosiris”, di “Ovidio e Corina”, della “Fiella di Sibari”, dei busti dello “Stella” e dello “Scarambone”, ecc.7.
Le tradizioni sono la nostra cultura e la nostra storia e vanno preservate al di là di tutto, al di là delle ragioni politiche o discriminatorie, dei differenti modi di vedere la vita, delle differenti religioni e dei diversi credo. Ogni popolo è responsabile delle sue proprie radici che diventano “Arte” che attraversa il tempo e, a cosa potrebbe mai servire il tempo se non si conservassero le tracce che dimostrino che esso stesso esiste, in quanto “trascorso”? E, come dice il filosofo italiano Emanuele Samek Lodovici, nato nel 1942, “E quella maggioranza che vede nel Natale una sciocchezza e nel presepe una commedia infantile, non si rende conto di quale enorme difesa di fronte alla stanchezza della vita, alle abitudini, ai tedi, alle fatiche, essa privi il bambino, e col bambino l’uomo, quando reprima e lanci l’interdetto a quello spirito di stupore”.
Note
- 1 Presepi e pastori antichi nel Salento (a cura di A. E. Foscarini) Regione Puglia, Assessorato alla cultura CSPCR Calimera, Amministrazione comunale Melendugno, 1985.
- 2 Nella Lecce dei presepi, il presepe gotico di Michele Massari (di Maurizio Nocera) http://www.unigalatina.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1360
- 3 Appunti sul presepe pugliese di Enzo Panareo, in Presepi e pastori antichi nel Salento, 1985.
- 4 http://www.leccecronaca.it/index.php/2017/12/19/il-rtorno-de-lu-puparu/
- 5 Santa Lucia e il Natale nella tradizione salentina, di Antonio Edoardo Foscarini, in Presepi e pastori antichi nel Salento, 1985.
- 6 Ivi, pag.11
- 7 I pupi di un bambino scultore, firmato “Sir”, apparso sul “Corriere Meridionale” del 23 dicembre 1897, riportato in Presepi e pastori antichi nel Salento, (a. cura di A. E. Foscarini),1985.