di Maurizio Nocera
Perché ricordare oggi Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872), a 146 anni dalla morte? Semplicemente, almeno questo vale per me, perché sembra che in questo nostro Paese di gambe all’aria e di false notizie propalate a piene mani da ogni parte, ci si sia dimenticati della storia e delle buone maniere anche nelle minime faccende quotidiane. E allora, e questo vale sempre in primo luogo per me, ricordare Mazzini significa ricordare un esempio di buona patria, di buona politica repubblicana, di democrazia concreta, ed anche, perché no?, di buona letteratura, se pensiamo che, sin da giovinetto, egli amò la musica (suonava la chitarra) e lesse Goethe, Alfieri, Leopardi, Foscolo, Shakespeare, Manzoni, altri ancora.
Oggi i suoi scritti hanno ancora un loro valore politico-letterario. Li cito a partire dal primo, che fu Dell’amor patrio di Dante (1926). Mazzini fu giornalista, e il suo primo impiego in quanto tale fu presso «l’Indicatore Genovese» (Genova, 1827-1828, chiuso dalla censura), sul quale, ancora giovanissimo, iniziò a pubblicare recensioni di libri patriottici, fino, successivamente, da uomo maturo, ad arrivare alla fondazione e direzione di importanti periodici come «l’Apostolato Popolare», «Il Nuovo Conciliatore», «L’Educatore», «Le Proscrit. Juornal de la République Universelle», «Il tribuno», «Pensiero e azione», «Roma del popolo». Scrisse importanti opere come Atto di fratellanza della Giovane Europa (1834), Scritti politici inediti (Lugano 1844), Del dovere d’agire (1855); Ai giovani d’Italia (1859); e l’importanti libro Dei doveri dell’uomo. Fede ed avvenire (Lugano, 1860), non a torto ritenuto il primo manifesto di libertà e democrazia dei popoli della nuova epoca, nel quale inserì un appello Agli operai italiani:
«A voi, figli e figlie del popolo, io dedico questo libretto nel quale ho accennato i principii in nome e per virtù dei quali voi compirete, volendo, la vostra missione in Italia: missione di progresso repubblicano per tutti e d’emancipazione per voi. Quei che per favore speciale di circostanze o d’ingegno, possono più facilmente addentrarsi nell’intelletto di quei principii, li spieghino, li commentino agli altri, coll’amore, col quale io pensava, scrivendo, a voi, ai vostri dolori, alle vostre vergini aspirazioni alla nuova vita che – superata l’ingiusta ineguaglianza funesta alle facoltà vostre – infonderete nella Patria Italiana […] Le divisioni naturali, le innate spontanee tendenze dei popoli, si sostituiranno alle divisioni arbitrarie sancite dai tristi governi. La Carta d’Europa sarà rifatta. La Patria del Popolo sorgerà, definita dal voto dei liberi, sulle rovine della Patria dei re, delle caste privilegiate. Tra quelle patrie sarà armonia, affratellamento. E allora, il lavoro dell’Umanità verso il miglioramento comune, verso la scoperta e l’applicazione della propria legge di vita, ripartito a seconda delle capacità locali e associato, potrà compiersi per via di sviluppo progressivo, pacifico: allora, ciascuno di voi, forte degli affetti e dei mezzi di molti milioni d’uomini parlanti la stessa lingua, dotati di tendenze uniformi, educati dalla stessa tradizione storica, potrà sperare di giovare coll’opera propria a tutta quanta l’Umanità» […] La Patria è una, indivisibile. Come i membri d’una famiglia non hanno gioia della mensa comune se un d’essi è lontano, rapito all’affetto fraterno, così voi non abbiate gioia e riposo finché una frazione del territorio sul quale si parla la vostra lingua è divelta dalla nazione» (vd. G. Mazzini, I doveri dell’uomo, Sansoni – La Meridiana, Firenze, 1943, pp. 5, 57 e 61).
Va subito detto che se non ci fosse stato Giuseppe Mazzini, e con lui Giuseppe Garibaldi, Liborio Romano e, per alcuni eventi specifici, Cavour (che non amò mai il patriota, anzi fece di tutto per incarcerarlo e persino farlo condannare a morte), mai si sarebbe raggiunta l’Unità d’Italia; unità che significò in primo luogo liberare l’Italia dalla presenza sul suo suolo degli eserciti di altre potenze europee. Per questo suo alto obiettivo politico (Unità nazionale retta da una Repubblica con un governo centrale) fondò e diresse movimenti politici e diversi periodici.
Si pensi alla “Giovine Italia” (1831), alla “Associazione Nazionale Italiana” (1848) e al “Comitato Nazionale Italiano” (1850) e, nello spirito di un sincero internazionalismo patriottico, si spinse a fondare la “Giovine Germania” (1834) e la “Giovine Polonia” (1835) per l’unificazione nazionale di quei paesi, ai quali si deve aggiungere la fondazione della “Giovine Europa” (1866) per l’unificazione dello stesso vecchio continente attraverso un Fronte unito che chiamò “Alleanza Repubblicana Universale”, da cui nacque il “Comitato Centrale Democratico Europeo” (1850). Uno dei capolavori politici di Mazzini, purtroppo sconfitto poi dalla reazione più nera, fu la Repubblica Romana (1849), che diresse per alcuni mesi assieme ad Aurelio Saffi e Carlo Armellini (il cosiddetto triumvirato), al quale un contributo notevole apportò Carlo Pisacane.
Inutile aggiungere che per la sua passione politica e per l’Unità d’Italia soffrì il carcere, le percosse, l’esilio (per lunghi anni a Londra) e più volte la condanna a morte in contumacia.
Il 3 giugno 1888, sul periodico dell’Associazione Democratica Elettorale di Gallipoli – lo «Spartaco» – Victor Hugo, autore francese a noi molto noto, scrisse:
«Pour Mazzini il y a la libertè. Pour Garibaldi il y a la patrie. Pour nous il y a l’Italie».
Nel Salento come pure nella nostra Gallipoli operarono i mazziniani repubblicani, a cominciare da Epaminonda Valentino, (Napoli 1811 – Lecce 1849), fondatore della “Giovine Italia” nell’allora Regno di Napoli e il primo introduttore nella stessa Gallipoli e a Lecce. Epaminonda aveva sposato Rosa de Pace, sorella di Antonietta, il cui solo nome per noi gallipolini è una bandiera. Epaminonda, nel maggio 1848, partecipò ai moti insurrezionali di Napoli e di Lecce, aderì al Circolo patriottico di Terra d’Otranto (fondato il 29 giugno 1848). In seguito alla sua partecipazione ai moti insurrezionali, venne arrestato a Lecce il 30 ottobre 1848, assieme a Sigismondo Castromediano (Cavallino), i fratelli Stampacchia (Lecce), Gaetano Brunetti (Lecce), più altri. Epaminonda fu condannato a morte ma, prima ancora dell’esecuzione, morì nel penitenziario di Lecce nel 1849 tra le braccia del Castromediano. Dell’atroce modo in cui egli mori, lo storico Pier Fausto Palumbo ha scritto: «Fin dal 29 settembre (1848) una prima vittima fu fatta: nelle braccia del Bortone e del Castromediano era spirato, in carcere [si tratta del carcere dell’Udienza o carcere centrale di Lecce], a soli trentotto anni, Epaminonda Valentino, gallipolino d’elezione per le nozze con Rosa de Pace, fondatore in provincia della “Giovine Italia”» (vd. P. F. Palumbo, Terra d’Otranto nel Risorgimento, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 165).
Anche Sigismondo Castromediano, che lottò esemplarmente contro il Borbone, nelle sue Memorie scrive una chiara pagina patriottica su questo straordinario napoletano rivoluzionario repubblicano mazziniano, salentino e gallipolino d’elezione:
«Epaminonda lasciava la giovane moglie, Rosa de Pace, e due figlioletti ancora piccini, che amava sino alla follia, e con essi Antonietta sua cognata […] La nuova dolorosa giunse a quelle donne in Gallipoli per via di nostre lettere, e a conforto di loro sventura e a venerata memoria dell’estinto loro inviammo un’iscrizione lapidaria…» (vd. Aspetti e figure del Salento nelle parti inedite delle “Memorie” di Sigismondo Castromediano, a cura di Aldo Vallone, in «Studi Salentini», III-IV, giugno-dicembre 1957, p. 174).
Accanto a Epaminonda c’è da annoverare anche suo figlio Francesco Valentino (Gallipoli, 1835 – Pieve di Ledro, 1866), nipote di Antonietta de Pace. Morì da patriota nelle battaglie risorgimentali, convinto repubblicano, prendendo parte nelle associazioni democratiche e nel giornalismo rivoluzionario di Marsiglia e di Genova. Nel 1866 indossò la camicia rossa garibaldina morendo a Pieve di Ledro, nei pressi di Bezzecca (Trento) nella battaglia contro l’impero austro-ungarico in quella campagna militare che Garibaldi intraprese per la liberazione di Trento e Venezia. Del figlio Francesco, nel commentare la battaglia di Bezecca (24 giugno 1866) riporto quanto scrisse il corrispondente di guerra Augusto Vecchi:
«Il povero Valentino è morto, colpito al petto, gridando “Viva l’Italia”».
E come non ricordare ora Antonietta de Pace (Gallipoli, 2 febbraio 1818 – Capodimonte, 4 aprile 1893), cognata di Epaminonda e zia di Francesco, patriota e rivoluzionaria gallipolina, repubblicana mazziniana fin dalla prima ora, alla cui opera la città di Lecce ha intitolato una via e un istituto scolastico di secondo grado. Dopo la morte del cognato e del nipote, la responsabilità dell’attività cospiratrice nel Salento ricadde proprio su di lei. Così la ricorda Pier Fausto Palumbo:
«Animatori della vasta cospirazione mazziniana, e segretari del Comitato centrale di Napoli, i due salentini Fanelli e Mignogna. Collaboratrice instancabile e preziosa, Antonietta de Pace: ad essa facevano capo i Comitati di Lecce, di Brindisi, di Ostuni, di Taranto; e fu essa, con la madre dei Poerio, la moglie del Settembrini, la figlia di Luigi Leanza, poi moglie di Camillo Monaco, a intrattenere gli ancor più rischiosi rapporti coi galeotti politici di Procida, Santo Stefano, Ventotene, Montesarchio e Montefusco. Le corrispondenze segrete tra Santo Stefano e Napoli passavano per Ventotene, i cui reclusi erano giunti a dare tale fastidio al governo che, per liberarsene, preferì disfarsi dei meno pericolosi (…) La guerra di Crimea, riaccendendo le speranze, si fece leva sui militari, con una società mazziniana tutta particolare per loro. Anche di questa, animatori furono il Mignogna e la de Pace, che vennero arrestati: l’uno si ebbe cinquanta legnate e l’eroica donna fu per quarantasei volte inquisita. Al processo che ne seguì, il Mignogna s’ebbe condanna all’esilio, la de Pace fu assolta [dopo aver scontato 18 mesi di carcere preventivo]» (vd. P. F. Palumbo, Terra d’Otranto nel Risorgimento, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 167).
È nota la vicenda che vuole la de Pace entrare in Napoli liberata al fianco di Giuseppe Garibaldi. Era il 6 settembre 1860 e da lì, da quella città del Sud, l’Italia iniziava la sua nuova era di paese unito. Oronzo Colangeli, che fu preside per molti anni dell’Istituto Professionale Femminile “Antonietta de Pace” di Lecce, presso il quale anche chi qui scrive ha insegnato per diversi anni, così ricorda la Gallipolina: «Mazziniana convinta e repubblicana, non si scostò mai dalla sua linea ideale pur adattandosi, per un consapevole senso di civile partecipazione al momento storico che attraversava l’Italia […] Con una fede pari a quella degli apostoli del nostro Risorgimento non ebbe incertezze neppure nei momenti più difficili ed oscuri della reazione. Perseguita dalla polizia e dai tribunali borbonici non vacillò, trovando in se stessa le risorse morali per resistere agli inquisitori e risorgere in adamantina coscienza di riaffermata libertà. Esempio purissimo delle migliori tradizioni delle donne italiche che, in tempi dolorosi e di triste servaggio, seppero credere nel radioso avvenire della Patria» (vd. O. Colangeli, in Antonietta de Pace, Patriota Gallipolina, Istituto Professionale Femminile di Stato – Lecce, Editrice Salentina, Galatina 1967, pp. 73-74).
E ancora, come non ricordare Bonaventura Mazzarella (Gallipoli 8 febbraio 1818 – Genova 6 marzo 1882), avvocato e magistrato gallipolino ancor prima dei moti risorgimentali del 1848, repubblicano mazziniano sin dalla prima ora. A Lecce fondò il primo nucleo del Partito d’azione d’ispirazione mazziniana con la costituzione dei primi Comitati collegati ai Circoli. Nel maggio 1848, sempre a Lecce città, uno di questi Comitati prese il nome di Circolo Patriottico Provinciale di Terra d’Otranto, che vide al suo interno il fior fiore della migliore gioventù, fra cui Giuseppe Libertini, Sigismondo Castromediano, Annibale D’Ambrosio, Oronzio De Donno, Alessandro Pino, Nicola Schiavoni, Cesare Braico, Emanuele Barba, altri ancora. Mazzarella fu eletto presidente del Circolo dedicandosi all’organizzazione della Deputazione Provinciale, dalla quale sarebbe nata, dopo l’Unità d’Italia, quella struttura amministrativa che noi oggi conosciamo col nome di Provincia. Il 30 aprile 1849, Bonaventura Mazzarella fu l’unico salentino, assieme ad altri trenta emigrati repubblicani, ad combattere sotto le mura di Roma nella difesa della Repubblica. In tutta la sua vita fu sempre coerente rimanendo repubblicano mazziniano. Passò il resto della sua vita a Genova, dopo essere stato deputato per alcune legislature e, per decenni, consigliere comunale di quella città.
A Gallipoli, tra i repubblicani mazziniani, ci fu anche Eugenio Rossi (Gallipoli 1831-1909), il quale partecipò a tutte le iniziative politiche e militari contro il Borbone e per l’unità nazionale, ad iniziare dal maggio del 1848. Dopo l’Unità d’Italia si arruolò, per mezzo del “Comitato per Roma e Venezia”, presieduto da Emanuele Barba, alla campagna garibaldina di Aspromonte nel 1862, partecipando a tutte le altre campagne che Garibaldi fece fino a Bezzecca. Ritornato in Gallipoli divenne uno dei più ferventi promotori di lotte sociali a favore del popolo, divenendo più volte consigliere comunale ed assessore della città. Fu il fondatore e primo presidente della sezione del Partito socialista di Gallipoli a iniziare dal 1892. Fondò, assieme ad altri suoi compagni, lo «Spartaco», organo dell’Associazione Democratica Elettorale di Gallipoli e circondario e, più tardi, nel 1900, fondò pure, divenendone direttore, «Il Dovere», organo dell’Unione Dei Partiti Popolari di Gallipoli, espressione delle masse popolari. La sua opera, sociale e politica, è oggi rintracciabile nelle centinaia di lettere, articoli, saggi sul socialismo ecc. che egli ci ha lasciato sullo «Spartaco», su «Il Dovere», e su altri giornali ed opuscoli.
Inoltre va annoverato il nome di Giuseppe Libertini (Lecce 1823-1874), repubblicano mazziniano della prima ora il quale, dopo la morte di Epaminonda Valentino assunse la direzione della “Giovine Italia” salentina. I leccesi gli hanno intitolato una bella piazza e un bel bronzo. Fu avvocato e amico personale di Giuseppe Mazzini, col quale stette per lungo tempo a Londra. Partecipò ai moti insurrezionali del 1848, fondò il Circolo Patriottico di Terra d’Otranto e combatté sulle barricate di Monte Calvario a Napoli il 5 maggio 1848. Fu membro del governo provvisorio garibaldino (settembre 1860) e deputato del Regno d’Italia. Mazzini lo mise alla guida del Partito d’Azione, col compito di far insorgere le province allo sbarco di Garibaldi sul continente, perché
«uomo di pronti ed arditi disegni, che seppe far miracoli, tanto da superare di gran lunga la nostra aspettazione», (vd. P. F. Palumbo, Terra d’Otranto nel Risorgimento, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 171).
Del Libertini, un inedito ricordo lo scrive anche Francesco Stampacchia nel 1860:
«Giuseppe Libertini, pur esso salentino e propriamente leccese, figura di primo piano nel Risorgimento nazionale, intimo di Giuseppe Mazzini e con lui operante, già recluso a Ventotene, membro del Comitato Europeo con Kossut ed Herzen, aveva organizzato la insurrezione di Potenza, di Ariano e delle Calabrie, e si trovava in Napoli membro del Governo Provvisorio costituitosi al partire di Francesco II e scioltosi quando fu proclamata la dittatura di Garibaldi. Egli era allora accanto all’eroe, da cui era stato chiamato, e con lui fra gli applausi percorreva le vie della Capitale» (vd. F. Stampacchia, Lecce e Terra d’Otranto un secolo fa, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 308).
Accanto a questi eroi unitari del Risorgimento salentino, non vanno dimenticati Vito Mario Stampacchia senior (Lequile 1788 – Lecce 1875), patriota leccese giacobino, che partecipò ai moti insurrezionali del 1820 e anni successivi; Gioacchino Stampacchia (Lequile 1818 – S. M. Capua Vetere 1904), che fu patriota mazziniano e aderì alla “Giovine Italia”; Salvatore Stampacchia (Lecce 1812-1885), fratello di Gioacchino e figlio di Vito Mario senior, anch’egli patriota risorgimentale. E ancora Gaetano Brunetti (Lecce 1829-1900), avvocato, repubblicano mazziniano della prima ora, che partecipò a tutto il risorgimento italiano.
Accanto a tutti costoro non vanno dimenticati altri personaggi come: Cesare Braico, di Brindisi, garibaldino fra i Mille, il quale combatté nel 1848 sulle barricate a Santa Brigida a Napoli. Successivamente prese parte alla difesa della Repubblica Romana. Per la sua partecipazione ai moti rivoluzionari fu condannato a 25 anni di galera. Soffrì il carcere duro borbonico assieme a Sigismondo Castromediano e a Luigi Settembrini. Dopo 11 anni di carcere fu esiliato dall’Italia. Riparò a Londra dove per bocca dell’altro suo compagno Giuseppe Fanelli ricevette il saluto di Giuseppe Mazzini. Appunto Giuseppe Fanelli, di Martina Franca, anch’egli garibaldino fra i Mille, che partì da Quarto per la Sicilia (famoso il coraggio dimostrato durante la battaglia di Calatafimi), e repubblicano mazziniano della prima ora, difensore della Repubblica Romana del 1849, dove combatté sotto il comando politico di Giuseppe Mazzini. Fu anch’egli uno dei responsabili della “Giovine Italia” in Terra d’Otranto. C’è ancora Vincenzo Carbonelli, di Taranto, anch’egli garibaldino fra i Mille, repubblicano mazziniano della prima ora, partecipò il 15 maggio 1848 ai moti insurrezionali di Napoli, anch’egli difensore della Repubblica Romana e propagatore degli ideali mazziniani in Terra d’Otranto. E infine va ricordato anche il leggendario Nicola Mignogna, di Taranto, garibaldino fra i Mille che, il 5 maggio 1860 fu, assieme a Crispi, Rosolino Pilo e La Massa, tra gli organizzatori della spedizione da Quarto alla volta della Sicilia. Repubblicano mazziniano della prima ora, nel 1836 si era affiliato alla “Giovine Italia” diffondendone gli ideali nelle provincie napoletane. Nel 1848 combatté a Monte Calvario a Napoli, successivamente prese parte alla difesa della Repubblica Romana. Venne processato assieme ad Antonietta de Pace. Lavorò spesso a fianco di Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Fino alla fine dei suoi giorni rimase un convinto repubblicano. (Per tutti cfr. Aa. Vv. Lecce e Garibaldi, Capone editore, 1983).
Fin qui i garibaldini, i mazziniani e gli altri patrioti unitari salentini, i cui nomi andrebbero scritti nel Grande Libro della Storia nazionale d’Italia. E tuttavia la storia, che noi sappiamo essere maestra di vita e regolatrice di ogni cosa, non lascia mai nulla di scoperto sulle sue indistinguibili pagine sulle quali è narrata l’evoluzione degli eventi. Tant’è che nel 1945-46, quando i costituenti del secondo dopoguerra si riunirono per gettare le basi di quella che sarebbe divenuta la Carta fondamentale della nuova Italia antinazifascista, la Costituzione, (la forma statuale fu quella repubblicana, scelta dal popolo italiano con il referendum del 2 giugno 1946), non dimenticarono l’insegnamento di Giuseppe Mazzini e dei suoi compagni. Così, nell’impeto gioioso di un’indimenticabile giornata per gli italiani, e nel calore sostenuto dal forte vento della libertà e della democrazia riconquistata, nacque la nostra Costituzione Repubblicana, promulgata il 1° gennaio 1948.
Ecco perché, oggi, in un’Italia continuamente gabbata da ignoranti di Stato, non è sbagliato ritornare a leggere i testi di Giuseppe Mazzini, affinché si riscoprano i valori e le idealità d’un tempo per ritrovare anche il senso e il significato profondo di una vita degna di essere vissuta alla ricerca di un mondo ideale concreto, mondo che fece degna di essere vissuta la vita dei grandi iniziati di tutti i tempi: Socrate, Pitagora, Budda, Confucio, Gesù Cristo, Maometto, Giordano Bruno, Ernesto “Che” Guevara. Forse, ma questo è difficile accertarlo in un momento storico come quello che stiamo vivendo, fra questi grandi della storia dell’umanità, un suo posto l’ha anche Giuseppe Mazzini, indiscutibilmente l’apostolo più significativo del repubblicanesimo moderno.
A Lecce, su una fiancata dell’ex Convitto Palmieri, insiste una bella immagine di Giuseppe Mazzini, sotto la quale, Giovanni Bovio, altro personaggio assai noto ai gallipolini, ha scritto: «Giuseppe Mazzini// pari ai fondatori di civiltà// Maestro».
Pubblicato su Anxa
STORIA E MEMORIA: DANTE, MAZZINI, E L’ITALIA – OGGI …
RICORDANDO CHE il “DELL’AMOR PATRIO DI DANTE” è del 1826 (e non, ovviamente, del1926), a omaggio del lavoro dell’Autore e della Redazione della Fondazione, RICHIAMO l’avvio del memorabile articolo di Giuseppe Mazzini:
Quando le lettere formavan, come debbono, parte delle istituzioni, chereggevano i popoli, e non si consideravano ancora come conforto, bensícom’utile ministero, fu detto il poeta non essere un accozzatore di sillabemetriche, ma un uomo libero, spirato dai Numi a mostrare agli uomini la veritàsotto il velo dell’allegoria; e gli antichi finsero le Muse castissime vergini, eabitatrici dei monti, perché i poeti imparassero a non prostituire le loro cetre a possanza terrestre.
Ne’ bei secoli della Grecia, i poeti, non immemori della loro sublimedestinazione, consecravano il loro genio all’utile della patria; ed altri, comeTeognide, spargevano tra’ loro concittadini i dettati della saggezza; altri, comeSolone, racchiudevano ne’ loro poemi le leggi, che fanno dolce il viver sociale;altri, come Pindaro e Omero, eternavano i trionfi patrii; altri, come Esiodo,consegnavano ne’ loro versi i misteri, e le allegorie religiose. – Cosí santissimouffizio affidava la patria ai poeti, l’educazione della gioventú al rispetto delleleggi religiose e civili, e all’amore della libertà; e finché l’inno d’Armodio, e lecanzoni d’Alceo suonarono sulle labra dei giovani Greci, non paventarono nétirannide domestica, né giogo straniero.
Ma, come la civiltà degenerata in corruttela, i guasti costumi, il lusso, e iltempo distruggitore d’ogni buona cosa, ebbero inchinata la mente degli uominialla servitú, e la prepotenza de’ pochi giganteggiò sulla sommessione abbiettade’ molti, la poesia tralignò anch’essa dalla sua prima indipendenza, sitrafficaron gli ingegni, e furono compri da chi sperava, che il suonar delle cetresoffocasse il lamento dell’umanità conculcata; la poesia divenne l’arte dilusingare la credulità, e la intemperanza dei popoli; attizzò all’ire e alle voluttà itiranni, e si fe’ maestra spesso di corruttela, quasi sempre d’inezie […] (cfr.: https://www.scribd.com/doc/4021261/Giuseppe-Mazzini-Dell-amor-patrio-di-Dante).
SUL TEMA “Dante, – oggi”, mi sia consentito, si cfr.: DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE. Per una rilettura del “De Vulgari Eloquentia” e della “Monarchia” ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3987)
Federico La Sala
MAZZINI E L’ITALIA DEL 1826, DEL 1926, E DI OGGI. Una nota…
“[…] FORTUNA ED EREDITÀ DI MAZZINI FRA OTTOCENTO E NOVECENTO. Le complicate vicende della fortuna di Mazzini tra Ottocento e Novecento sono in effetti simbolicamente riassunte dall’episodio dell’adozione nelle scuole da parte del ministero della Pubblica istruzione, nel 1902, di un’edizione dei “Doveri dell’uomo” privata dei suoi elementi repubblicani, ritenuti poco consoni al contesto del giovane regno italiano. Spesso il riferimento alla figura e all’opera di Mazzini poteva infatti avvenire, nel discorso pubblico e politico, soltanto attraverso un preventivo svuotamento del suo messaggio politico originarioIl pensiero di Mazzini venne, sempre più con il trascorrere del tempo, riletto e appropriato in forme diverse nei decenni successivi alla sua scomparsa: prima dagli eredi diretti e dai difensori dell’ortodossia del movimento repubblicano; poi dai seguaci di un tempo che avevano aderito alla monarchia ed erano talora giunti a posizioni di governo nel Regno d’Italia: innanzitutto Crispi…
* CFR.: “Mazzini, Giuseppe – di Simon Levis Sullam – Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia (2012): http://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-mazzini_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Filosofia%29/.
Federico La Sala
ITALIA, 2019. Ai Mazziniani salentini…
“L’errore è sventura da compiangersi; ma conoscere la verità e non conformarvi le azioni,
è delitto che cielo e terra condannano” (Giuseppe Mazzini, “Dei doveri dell’uomo”)
Purtroppo gli italiani nel tempo si sono Dimemticati, come e’ acaduto sempre Bella storia dei suoi figli Migliori.
Sara’ semplice ignoranza, per opportunismo, o perchè, non so, per natura nostra ci lasciamo imbrigliare molto facilmente da gente improvvisata in politica da chiacchiere e ciarlerie varie. Sicuramente e senza alcun dubbio, a parte due guerre succedute dopo l’unità il risorgimento di Mazzini Garibaldi e questi valorosi e onesti uomini ripagati soltanto dall’amor di patria restano e rimarranno sempre nei cuori degli italiani più nobili di animo e di fatti, quelli che s’incrociano dal volto sudato dal duro lavoro, qualsiasi esso sia a cui Mazzini nei Doveri dell’uomo si rivolge come solo lui che aveva conosciuto tristezza e sacrifici poteva fare con tanta passione. Viva l’Italia unita.