di Marcello Gaballo e Armando Polito
* Estratto da Il delfino e la mezzaluna, Fondazione Terra d’Otrnto IV nn. 4-5, agosto 2016, pp. 179-193
Premessa
Sono state raccolte le voci e le locuzioni dialettali riferentisi, direttamente o indirettamente, all’argomento indicato nel titolo e, dopo aver a lungo riflettuto, si è deciso, anziché inserirle in una struttura narrativa certamente più accattivante ma più dispersiva e certamente non adatta alla consultazione tipica di un dizionario, di riportarle in ordine alfabetico unendo ad ogni lemma il corrispondente nome scientifico e/o comune e le relative osservazioni di natura filologica1 e altra. Il che non impedirà al lettore di cogliervi, anche attraverso le terapie anticamente praticate il ricordo della civiltà contadina e dello stretto contatto, diremmo partecipe, affettuoso, diretto ma pieno di rispetto, in qualche caso poetico, nella varietà delle ardite metafore, tra l’uomo e la natura, cosa che raramente è dato di ravvisare nella coeva terminologia scientifica. Di quella dei nostri giorni (pur con il dovuto rispetto per gli evidenti e perciò innegabili, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, progressi della medicina ufficiale) si preferisce non dire…
BRUSCATÚRA Eczema o dermatite. Da bruscàre, voce per la quale il Rohlfs propone solo un confronto “col toscano bruscàre=abbrustolire”, voce che è da un latino *brusicàre, da *brusiàre probabilmente di origine preindoeuropea; tuttavia, una certa incongruenza semantica (la dermatite non si spinge, di regola, fino all’”abbrustolimento” della pelle) induce a ipotizzare l’etimo da brusca (spazzola per strigliare il cavallo), dal latino tardo bruscu(m)=pungitopo, a sua volta dal classico ruscus. Il toponimo Brusca, indicante una masseria in territorio di Nardò, potrebbe avere la stessa etimologia, connessa con la diffusione in zona dell’arbusto prima indicato, utilizzato per la strigliatura dei cavalli.
BRUSCIATÚRA Ustione. Corrisponde all’italiano bruciatura, da bruciare e questo da un latino brusiàre, probabilmente di origine preindoeuropea. Terapia: applicazione della polpa della patata cruda (l’amido del tubero procurava sollievo) o di un empiastro di farina e vino, o di un unguento di olio di oliva e zolfo in polvere abitualmente usato per la vigna, o col sapone fatto in casa, o con un balsamo formato da cera gialla, olio e tuorlo d’uovo; qualcuno bagnava la parte con l’acqua di calce, cioè l’acqua in cui era sedimentata la calce viva. Ancora oggi qualcuno usa spalmare del dentifricio (magari alla menta, per avere la sensazione di freschezza).
CADDHU Ipercheratosi o callosità. Come l’italiano callo, dal latino callu(m). Per un particolare tipo di callo e per la terapia in generale vedi uècchiu ti pesce.
CANIGGHIÓLA Forfora. Diminutivo di canìgghia=crusca, da un latino *canìlia=cose da cani, neutro plurale sostantivato da *canìlis, dal classico canis=cane; evidente la somiglianza tra la forfora e la crusca, già evidente per i latini per i quali furfur (per lo più usato al plurale) significava forfora oppure crusca.
CARÁNDULA Linfadenite. Deformazione della voce italiana di basso uso glàndula [dal latino glàndula(m), da glans/glandis=ghianda] che è la madre di ghiàndola.Trafila: glàndula>*galàndula (epentesi di –a– come in cancarèna rispetto all’italiano cancrena)>caràndula (passaggi g->c– e l->-r-).
CESTA Cisti. Come la voce italiana, dal latino medioevale cystis/cýstidis=vescica, a sua volta dal greco kustis; in più la terminazione in –a dovuta, più che a regolarizzazione della desinenza, ad un probabile incrocio con cesta [dal latino cista(m), a sua volta dal greco kiste)]; dopo l’incrocio, per evitare confusioni, per indicare il cesto il dialetto ha usato solo cistu [dal latino medioevale cistu(m), dal classico già citato cista], mentre l’italiano ha sviluppato cesta e cesto.
CILÓNA Lipoma, tartaruga. Il corrispondente italiano formale sembrerebbe essere chelone (tartaruga marina), dal latino scientifico Chelòne, dal greco chelòne=tartaruga, da x¡luw (chèlus), con lo stesso significato, forse connesso con kele=tumore. tutto ciò induce a pensare che la voce salentina sia direttamente dal greco chelòne, con influsso di kele per quanto riguarda l’assenza di aspirazione (cilòna e non chilòna) e, forse, per il significato di lipoma che potrebbe essere stato traslato solo parzialmente per metafora da quello di tartaruga. Terapia: contenimento mediante una moneta mantenuta premuta con bendaggio.
CRANIÉDDHI Follicolite. Corrisponde all’italiano granello (cranièddhu a Vernole indica il seme dell’uva), diminutivo di grano, dal latino granu(m). Manifestazione meno evidente dello stesso disturbo è quella dei friulìti (vedi).
‘ERME SOTTA PELLE Vitiligine. Basta la traduzione italiana: verme sotto pelle.
FAU Ascesso. Corrisponde, per analogia di forma, con particolare riferimento all’ascesso multiplo, ed etimo all’italiano favo, dal latino favu(m); nella voce dialettale è avvenuta la consueta sincope di –v- intervocalica. Terapia: empiastro di lampascione (muscari comosum) o di fiori e foglie di malva.
FOCA Orticaria conseguente al contatto con i parassiti del grano. Il Rohlfs invita ad un confronto col “calabrese fucìda=macchia rossa di scottatura sulle gambe, che risulta da un incrocio del greco foìs=macchia di scottatura col latino focus”. Si ritiene che l’incrocio non valga per la voce neretina che sarebbe direttamente dal latino medioevale foca2, dal classico focus. L’intenso prurito con cui si accompagna veniva sedato con impacchi caldi oppure con bagno in acqua in cui erano state immerse foglie di malva; qualcuno ungeva olio d’ oliva o cospargeva con una lozione ottenuta facendo bollire della cenere di legna in acqua di cisterna.
FREE ALLI MUSI Herpes simplex labialis. Per free vedi friulìti.
FREE TI PILU Mastite. Per free vedi friulìti. Si riteneva causata dalla presenza di qualche pelo nei condotti del latte, tale da impedirne la normale fuoriuscita. In entrambi i casi si ricorreva ad una cura con empiastri di finocchio e cavolo sulla mammella.
FRIULÍTI Follicolite meno evidente dei cranièddhi (vedi). Il Rohlfs non propone nessun etimo, il Garrisi, piuttosto confusamente, un “incrocio tra latIno fricatus e leccese free e freculare + suffisso diminutivo -ulu”. Si ritiene, dopo aver detto che, inequivocabilmente, –iti è il suffisso tipico delle infiammazioni, che la voce abbia il suo nucleo nel latino febris=febbre; da un diminutivo *febrìola con l’aggiunta del suffisso –iti si passa a febrioliti, da questo, seguendo per febri– il normale sviluppo dialettale [free, da febre(m)>fevre(m)> freve (metatesi a distanza)>free (sincope di –v– intervocalica)] *freeolìti>*freolìti>friulìti.
FRÚNCHIU Foruncolo. Stesso etimo del corrispondente italiano: dal latino furùnculu(m)=tralcio secondario, gemma, poi foruncolo, diminutivo di fur =ladro (la gemma “sottrae” nutrimento alla pianta, il foruncolo all’organismo); trafila furùnculu(m)>*frùnculu(m) (sincope della prima u)>*frunclu(m) (ancora sincope della terza u originaria diventata nel frattempo seconda)>frùnchiu (passaggio –clu>-chiu).
FUÉCU TI SANT’ANTONI Herpes zoster. La locuzione dialettale (che corrisponde alla popolare italiana Fuoco di Sant’Antonio) è legata secondo alcuni alla tradizione per cui Sant’Antonio era considerato come colui che combatteva il demonio che appariva sotto forma di serpente. Il nome scientifico, infatti, è, per Herpes, dal latino herpes in cui, oltre che erpete, indicava anche (in Plinio) un animale da identificare probabilmente con una specie di serpente; herpes, a sua volta è dal greco herpes con gli stessi significati già indicati per la voce latina, anzi il suo collegamento col verbo serpo=io striscio convaliderebbe l’ipotesi dell’identificazione dell’animale col serpente (la malattia è vista come una sorta di serpente di fuoco che si annida nell’organismo), confermando, ancora una volta, nella locuzione dialettale la commistione di elementi naturalistici e fideistici e, dunque, un livello, più profondo rispetto a quello della scientifica. La seconda parte, zoster, è dal greco zostèr=cintura, zona, fascia. C’è da dire che secondo altri la denominazione è dovuta alla confusione antica della malattia con il più grave ergotismo (intossicazione causata dalla presenza di segale cornuta nelle farine alimentari): nel Nord Europa, dove il pane veniva fatto con la segale, spesso si contraeva questa malattia, dovuta al fungo (ergot) che infettava la segale; tra gli effetti di questa intossicazione vi erano anche le allucinazioni e questo portava la gente a mettere in relazione la malattia con il demonio o con forze maligne, non essendo conosciuta al tempo la causa di queste alterazioni; i malati, recandosi in pellegrinaggio verso i santuari di Sant’Antonio in Italia, man mano che scendevano verso Sud cambiavano alimentazione mangiando pane di grano, e ciò attenuava o eliminava i sintomi dell’intossicazione. Tale effetto veniva attribuito ad un miracolo ad opera di Sant’Antonio. Non a caso l’ordine dei Canonici Regolari di Sant’Antonio di Vienne venne istituito nel 1095 a seguito del voto fatto dal nobile Gastone, che aveva avuto un figlio guarito dall’ergotismo, per grazia ricevuta al santuario di Saint Antoine Abbaye, vicino a Vienne, dove all’inizio del millennio un nobile francese, Jocelin de Chateau Neuf, di ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, aveva portato le spoglie di Antonio abate, avute in dono, pare, dall’imperatore di Costantinopoli. Gli Antoniani all’inizio usavano contro la malattia cospargere le parti malate di vino nel quale erano state immerse le sacre reliquie; successivamente (esaurimento delle reliquie?…), quando fu loro concesso il diritto di allevare maiali che circolavano liberamente nelle città e nei luoghi ove sorgevano i loro conventi, disposizione che risultava necessaria dal momento che i maiali girando in villaggi e città provocavano numerosi danni. L’allevamento vero e proprio, tuttavia, era svolto per conto dei monaci, gratuitamente e per devozione dei contadini i quali, ad opera compiuta ricevevano protezione per se stessi e per i lavori da effettuare durante il ciclo annuale di produzione. Il maiale in questo modo era “sacralizzato” e perdeva la sua connotazione demoniaca, dal momento che diventava il tramite più vicino perché le masse contadine ottenessero rassicurazione e promesse di fecondità e fertilità. L’iconografia rappresenta il Santo con il bastone tipico degli eremiti, un maiale ai piedi, a simboleggiare il demonio, un campanello e la fiamma. Proprio a causa del simbolo del maiale, S. Antonio divenne in breve il protettore degli animali domestici, mentre la fiamma ricorda la sua capacità di guaritore dell’ergotismo.Terapia: applicazione di empiastri di malva sulle parti interessate. Sull’ antica origine “sacrale” del nome della malattia vale la pena spendere ancora qualche parola: È la malattia alla quale Plinio (I secolo d. C.) ha dedicato il numero maggiore di passi della sua Naturalis historia con la proposta di un numero notevole di differenti terapie, il che è un indizio, se non della sua frequenza e gravità anche ai suoi tempi, certamente della difficoltà di trattarla. Pure a livello di nomenclatura si alterna il singolare ignis sacer (fuoco sacro) (23 ricorrenze) o (con inversione delle componenti) sacer ignis (sacro fuoco) (1 ricorrenza) al plurale ignes sacri (fuochi sacri) (15 ricorrenze) o sacri ignes (sacri fuochi) (2 ricorrenze). Nel brano XXVI,74 (riportato più estesamente in basso) è contenuta in pratica l’etimologia della attuale denominazione scientifica (Herpes zoster): Ignis sacri plura sunt genera, inter quae medium hominem ambiens, qui zoster vocatur, et enecat, si cinxit (Molti sono i tipi di fuoco sacro, tra i quali quello, chiamato zoster, che circonda l’uomo a metà e lo ammazza pure, una volta che lo ha cinto). Il passo, secondo noi, è molto importante perché rappresenta la cerniera tra il concetto di cintura (zoster) e quello di una specie di serpente che abbiamo presunto nella prima parte del lavoro alla voce in questione. Va ricordato, infatti, che negli affreschi di Pompei la divinità più raffigurata è il serpente agatodemone (voce greca che alla lettera significa buon demone), protettore del focolare e simbolo di fertilità e che lo stesso Plinio usa la voce herpes nel brano che segue: XXX, 39 Herpes quoque animal a Graecis vocatur, quo praecipue sanantur quaecumque serpunt (Erpes è pure chiamato dai Greci un animale col quale soprattutto si sanano tutte le malattie che serpeggiano): l’animale in questione è preceduto nel brano dal nome di altri animali (cosses=tarli e terreni=lombrichi) qualificati come vermium genera (specie di vermi), dalle coclearum terrena (lumache di terra) e seguito dal draco (specie di serpente, spesso tenuto come animale domestico). Tutti gli animali citati sono accomunati, in ordine crescente si dimensioni, dall’idea dello strisciare e il misterioso herpes appare come una cosa di mezzo tra un verme (cosses) ed un serpente (draco). A proposito del serpente, poi, va detto che è abbastanza frequente nel mondo classico la doppia valenza sacrale favorevole o nefasta dello stesso animale e questa ambiguità verrà ereditata dal mondo cristiano trovando amplissima testimonianza nei bestiari medioevali.
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1 Laddove sono citati il Rohlfs e il Garrisi, le relative etimologie sono state riportate, rispettivamente, dal Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976 e dal Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990; in assenza di indicazione la proposta etimologica e l’eventuale trafila è da intendersi autonoma.
2 Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Favre, Niort, 1883, pag. 531: “FOCA 2 pro Focus. Vide in Camba 3” (Foca 2 per Focus. Vedi in Camba 3). A Camba 3 (op. cit. , pag.39):”Brassiatorum officina, seu locus ubi cerevisia coquitur et conficitur, qui vulgo Brasseriam vel Braxatoriam nuncupamus” [(Laboratorio di birrai o luogo dove si cuoce e prepara la birra, che popolarmente chiamiamo Birreria o Birratoria (chiedo scusa per Birratoria, espediente per superare l’intraducibilità di Braxatoriam dopo essermi giocato con Brasseriam Birreria Brasseriam)]. Non ci sarebbe da meravigliarsi se l’attuale significato della voce neretina fosse stato mediato proprio dalla fabbricazione della birra ottenuta, come si sa, per fermentazione del malto e di altri cerali aromatizzati col luppolo, ingredienti che molto probabilmente erano ben noti nel nostro territorio.